20 agosto 2025

Lingua loro (52): "Dato", "fondamentale", "linguaggio", "serve", "principio", "noi", "obiettivo", "al fine di" e tanto altro

"Ma se parliamo di prodotti linguistici, io credo che dovremmo sempre tener presente un dato fondamentale: il linguaggio umano è nato e si è sviluppato perché serviva. Perché era utile. Perché rispondeva a delle necessità. E questo principio continua a essere valido. Non esistono discorsi gratuiti: se prendiamo la parola - anche nella maniera più informale, svagata, istintiva possibile - è perché abbiamo un obiettivo, o più obiettivi. Questo vale per le arringhe in tribunali, per i comizi in piazza, per le telefonate di lavoro, per gli slogan pubblicitari, per le dichiarazioni di amore, per le chiacchiere al bar. Nella più banale delle ipotesi, parliamo del più e del meno, anche con sconosciuti, al fine di alimentare un rapporto interpersonale che serve a definire o preservare il clima umano di un ambiente".
La perentoria espressione di questi concetti è comparsa in rete ieri e, nell'epoca dei motori di ricerca, è ridondante dichiarare dove si trova e a chi la si deve. Chi avesse curiosità in proposito, in pochi secondi può soddisfarla. Vedrà che si tratta di una reputata tribuna e, se non di uno specialista, di un "loico" e letterato. 
Non c'è d'altra parte essere umano che, sulla lingua, non abbia le sue convinzioni (o ciò che crede essere tali) e cui non capiti di esprimerle. A scanso di equivoci, "Grazie al Cielo!" è quanto in proposito pensa un modesto avventuriero nel campo, come Apollonio. Anche per la meravigliosa disponibilità a farsi oggetto del discorso di chiunque, la lingua (al singolare assoluto) è infatti preziosissimo tratto umano di eguaglianza, di fraternità, di libertà. Di lingua (al singolare di una pluralità indefinita), non c'è chi non ne parli (almeno) una. E non c'è chi non si possa esprimere al duplice proposito della lingua al singolare assoluto e di una lingua al singolare di una pluralità indefinita. Lo si fa persino in un diario scombiccherato e cervellotico come questo. E ciò dice come la linguistica (con i suoi succedanei) sia disciplina ben più democratica e popolare della biologia molecolare o della fisica delle particelle.
Qui, dunque, niente di personale. La sola informazione che ad Apollonio pare utile dare in modo esplicito è che il brano in esordio viene da uno scritto che prende a pretesto la prosa di Italo Calvino e sue recenti parodie automatiche. È quanto basta a giustificare la presenza di un'immagine dello scrittore, colto in un'attitudine che a prima vista pare interessata, ma è forse anche perplessa. 
Di certo, a nessuno sarà d'altra parte passata per il capo l'idea che motti così assertivi fossero proprio di Calvino. Per mostruosa metamorfosi, nella mente del signor Palomar i dubbi, gli interrogativi, le esitazioni, il timore di precipitare il proprio pensiero nell'abisso delle conclusioni generiche e affrettate si sarebbero infatti volti integralmente nei modi tassativi di una corriva petizione di "principio", quanto all'espressione umana.
Perché di una petizione di "principio" in effetti si tratta. E di una buona sintesi di ciò che il senso comune non tanto opina, quanto ferreamente postula della lingua (o del "linguaggio", così ci si esprime in "lingua loro"). In quelle righe non c'è in effetti nulla di personale e nulla che possa essere pertanto addebitato personalmente alla voce ("io") che nell'occasione se ne fa semplice riecheggiatrice.
È il bello dei luoghi comuni. Li si può proclamare con leggerezza o (che è lo stesso) per responsabilità universalmente condivisa: il "noi" di "dovremmo" (soprattutto in combinazione con la modalità deontica del predicato) è infatti quel pronome che trovò una precisa definizione in parole di Giorgio Manganelli che qui non si ripetono. E l'argomentazione che poggia sopra un fondamento tanto comune presenta come "dato fondamentale" ciò che è in realtà una congettura molto modesta, anche quanto a contenuto intellettuale. 
E nemmeno una congettura suffragata da osservazioni sperimentali: "il linguaggio umano è nato" (passato prossimo del modo indicativo, il modo della realtà) è infatti una proposizione che a nessun essere umano è stato dato di proferire sulla base di una constatazione. Ancor meno un essere umano può proferire, sulla base di una constatazione, "il linguaggio... si è sviluppato", se intende parlare in tal modo di filogenesi. 
Ma si ipotizzi pure al proposito che l'ontogenesi riassuma la filogenesi. Le osservazioni e gli esiti degli esperimenti finora possibili, quanto alla lingua, non indirizzano a una spiegazione del suo sviluppo ontogenetico nei termini di una "causa finale". Procedere in tal senso è farlo nel modo sopra il quale ironizzò Voltaire, sono già quasi tre secoli: "gli occhi nati e sviluppati per vedere, lo stomaco per digerire" e così via sono ovvietà insuperabilmente insipide.
Ma l'idea, popolarissima, di una causa finale a indirizzare lo sviluppo è invece proprio ciò che prospera rigogliosamente nel séguito del discorso. Vi affiorano predicazioni come "il linguaggio... serviva" (ma a chi?), "era utile" (idem), "rispondeva a delle necessità" (di chi?). Saranno forse "i bisogni" teorizzati da Lamarck. Inutile chiedere tuttavia maggiore precisione o dettagli: sul tema specifico, la risposta invocherà ancora più genericamente adattamento, sopravvivenza e successo della "nostra riverita specie", secondo la qualificazione attribuitale da un pensoso lombardo.
Anche perché, una volta scivolati lungo una simile china, il "linguaggio" e la specie che se ne servirebbe come strumento finiscono per essere un indistinguibile tutt'uno. E non l'intenzione, la Meinung di un soggetto trascendentale, per dirla con Kant e con i suoi sviluppi fenomenologici, ma addirittura "l'obiettivo" di un individuo qualsivoglia di tale specie o di un qualsivoglia gruppo di individui associati diventa la ratio di ogni suo o loro atto espressivo (e comunicativo). Una spiegazione irenica e tranquillizzante.
Insomma, se si capisce cosa vuole (ma come lo si capisce?), si capisce cosa dice. Forse dovrebbe essere però il contrario: se si capisce cosa dice, si capisce cosa vuole. O, meglio e più ragionevolmente, non è né così né al contrario, per evitare il circolo vizioso di tutte le ermeneutiche, anche quando esse si travestono, come nel caso specifico, da pragmatica.
Al diavolo, però, nel caso individuale, le sofisticazioni introdotte dalle distinzioni di "ego", "superego" ed "es". Al diavolo i lapsus, le false partenze, le conclusioni inconcludenti, complessivamente, le erranze e gli errori.  
O, passando al sociale e ai suoi ancora più fumosi e contorti "obiettivi", al diavolo i conflitti, i pregiudizi, le menzogne spacciate per verità, le verità spacciate per menzogne, le lingue che mettono a tacere altre lingue o che ne decretano la morte.
Al diavolo, insomma, il "non sanno ciò che fanno", con cui finalmente espresse la sua opinione in proposito una voce tutt'altro che priva di spirito (giudizio pertinentissimo, se mai ce ne fu uno, proprio rispetto all'espressione umana). Vedi un po' e di conseguenza se (come credono) sono in grado di sapere ciò che vogliono e quali sono i loro "obiettivi"...
Al diavolo, soprattutto, come inesistenti, i "discorsi gratuiti", tanto "gratuiti", tanto privi di "al fine di", da esprimere, si direbbe riflessivamente, un'arte interna alla lingua (di nuovo, al singolare assoluto). 
Non c'è lingua nota (di nuovo, al singolare di una pluralità indefinita) di cui un'arte siffatta, in un modo o nell'altro, non sia stata e non sia secrezione. Spesso, quando il tempo passa, la sola secrezione conservata, mentre all'oblio e al nulla vengono destinati enormi quantità di discorsi la cui esistenza è garantita da presunti "obiettivi" esteriori.
Si tratta dell'arte che, come lingua interiore, germogliò in un Italo Calvino, per esempio. Vai a sapere come mai, come e, soprattutto, con quale "obiettivo". E da lì succhi distillati passarono materialmente per la sua penna e per la sua macchina da scrivere. E così si fecero testo: un sistema processuale. Una pluralità di testi, più precisamente, che, proprio in quanto tali, pongono problemi di accertamento filologico della loro testimonianza. Testimonianze, quelle di un Calvino, tutte ipotetiche, tutte interrogative. Manifestazioni loquaci del mistero della lingua e, al tempo stesso, reticenti, se non proprio mute in proposito. 
Ovvio: la lingua è un mistero per coloro che, evidentemente balenghi, si ostinano a non arrendersi all'evidenza morale e materiale del "principio" che discende da quel "dato fondamentale". Esso rende conto universalmente di cosa sono i "prodotti linguistici". E afferma che "il linguaggio è nato e si è sviluppato perché serve" e che "noi", con esso, nei nostri discorsi mai "gratuiti", perseguiamo "obiettivi". Santa pazienza, ma ci vuole tanto a capirlo?

Nessun commento:

Posta un commento