30 settembre 2009

La domenica del villaggio

Apollonio non ha visto il film Baarìa di Peppuccio Tornatore (Bagheria, 27 marzo 1956, secondo Wikipedia): capitasse e ne valesse la pena, ne dirà. Nella sua Citera, ne legge però gli elogi in "Quando l'Italia intera si chiamava «Baarìa»", sulla prima pagina del Sole 24 Ore dello scorso 27 settembre, a firma di Gianni Riotta (Palermo, 12 gennaio 1954, secondo la medesima fonte), direttore dell'organo di stampa della Confindustria. Elogi sperticati? Forse, ma con una puntura di spillo, che illustra l'Italia dei campanili (linguistici), e non solo essa, a chi è capace d'intenderla.
Naturalmente, come minuscolo dettaglio, la puntura è impercettibile ai più. Invece, è essa a dare il tono all'edificante articolessa. A suo modo, sottotraccia, la mette anche un po' in salvo dall'onda straripante della retorica. "...faremo il bene tutte le volte che lavoreremo per «Baarìa», la comunità...", vi si legge, per esempio.
"«Baarìa», il villaggio di Bagheria nei pressi di Palermo", scrive infatti a un certo punto il palermitano Riotta, lodando il film del bagherese Tornatore, in un passaggio innocentemente referenziale, all'apparenza. Urta invece così la sensibilità d'ogni bagherese bennato, che (come certo Tornatore: il film ne sarà testimonianza) considera Palermo un informe agglomerato urbano (verso il quale, eventualmente, "si scende") cresciuto irragionevolmente ai margini della sua (un dì?) ridente città. Baarìa, ombelico del mondo, un villaggio nei pressi di Palermo? Velenoso oltraggio di uno di quei volgari borgatari di palermitani.
Per chi lo intende, il particolare svela allora che, sulla scena nazionale, l'articolo è, più convenientemente, un gattopardesco ammiccamento alla Tancredi Falconeri: "mio prode amico", "Di voi... Crispi mi ha detto un gran bene". Tancredi Falconeri, il fortunato ed abile nipote di Don Fabrizio, quello che gli dice, con enfasi, "Saluti, zione, tornerò col tricolore" e che, fatta l'Italia, colloca la sua brillante carriera politica alla sinistra estrema della destra più moderata: c'è una posizione migliore per confezionare edificanti predicozzi domenicali?
Insomma, Sainte-Beuve, caro Proust, aveva ragione ma à rebours: tenerne presente la lezione, serve a leggere ciò che scrivono i giornali, oltre che naturalmente a intendere la letteratura e il cinema. E il buon Principe di Lampedusa, che stava sulla sua scia, della Sicilia e dell'Italia aveva del resto capito tutto.

28 settembre 2009

Bolle d'alea (10): Braque, Jakobson

"Je ne crois pas aux choses, mais aux relations entre les choses": sono parole di Georges Braque. Roman Jakobson le fece proprie in un suo scritto e, a quanto pare, esse erano non di rado presenti sulle sue labbra. Marcano una stagione culturale ormai perenta? Una ragione di più per ricordarle.

24 settembre 2009

Lingue globali

Meravigliose forme dell'espressione umana oggi condannate (loro malgrado) a venir lodate, in un'epoca d'utilitarismo dalla vista cortissima, per essere state, nel contempo, lingue di feroci schiavisti, di famelici eversori di antiche civiltà, di equipaggi di implacabili cannoniere, diventando così lingue parlate (e sarebbe un merito?) in tutti i continenti.
Globale? Dovrebbe suonare insulto, se detto di una lingua e se la vita umana singolare e quella collettiva, che prende il nome di storia, non fossero l'ammasso di violenze inespiate e di deliranti irrazionalità di cui un barbaro non privo d'ingegno disse un dì "a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing".
Per dirlo, si espresse appunto in un idioma che sarebbe divenuto globale e che, nelle sue parole, era ed è rimasto cosa completamente diversa: come ogni lingua, personale e, al tempo stesso e per questa ragione, universale.

19 settembre 2009

Linguistica delle particelle

Per Adamo, resistere a Eva era impossibile: in parallelo, Per Adamo, la resistenza a Eva era impossibile.
Procedendo, il parallelismo cessa, tuttavia: Sì, hai ragione, resisterle gli era impossibile è di nuovo impeccabile (sarà lecito dirlo? Il cielo non ne voglia ad Apollonio).
Non è impeccabile invece *Sì, hai ragione, la resistenzale gli era impossibile (e come escludere un coinvolgimento anche in questa minuzia di un ironico cielo?).
Banale quanto si voglia, l'osservazione getta un minuscolo raggio di luce radente sulla questione della natura morfosintattica delle particelle personali atone italiane (e romanze). Mera morfologia verbale. Come molta altra morfologia, determinata da determinabili interdipendenze sintattiche, naturalmente, ma mera morfologia verbale.

16 settembre 2009

Parole che parlano (1): Glottologia

Graziadio Isaia Ascoli, padre degli studi linguistici moderni in Italia, battezzò così nell'Ottocento la sua disciplina.
Per renderla indubitabilmente e per sempre sua, Ascoli fece l'originale: le diede un nome nuovo. Bisognava reggere il confronto con la millenaria nobiltà di "filologia" e, da parvenu accademico, fece in modo che tale nome paresse quello di un'antica dottrina. "Linguistica"? Troppo semplice e banale.
L'esito fu di palese cattivo gusto. E tale permane. Ha un insopprimibile nonsoché di comico involontario. Sa di pleonastico orpello ed è sempre a rischio di ridondanza.

12 settembre 2009

"Berlusconi fa l'ottimista"

...è il titolo di un articolo comparso su un quotidiano pochi giorni fa, nelle pagine dedicate allo sport. Si parla quindi del presidente di una società calcistica: per i lettori, ciò sia garanzia della distante serietà di questo post. Apollonio non è d'improvviso ammattito e non li sta piombando nell'ennesima noiosa riproposta del tema di discussione più inconcludente e corrivo che l'Italia abbia procurato a se medesima e ai suoi osservatori esterni negli ultimi sessanta anni.
Il costrutto testimoniato da quel titolo pare perfettamente identico, dal punto di vista formale, a quello esemplificato da Alessandro Del Piero fa il calciatore, Valentino Rossi fa il motociclista, Sofia Scicolone fa l'attrice, Andrea Bocelli fa il cantante e così via.
Interpretativamente, Berlusconi fa l'ottimista è tuttavia molto differente da questi esempi e parallelo, invece, a Vittorio Sgarbi fa lo sciupafemmine, Eugenio Scalfari fa il filosofo, Maria Grazia Cucinotta fa la primadonna: 'si atteggia a...', 'si comporta come se fosse...' e non 'esercita la professione di...', 'lavora come...'.
Simpatica curiosità dell'italiano, lingua di imbroglioni e di poeti (senza necessaria disgiunzione tra le due categorie) e quindi atta a mettere alla frusta chi, impettito, fa il linguista e si trova davanti due costruzioni che paiono perfettamente identiche, quanto alla forma, con interpretazioni che, messe a contatto, stridono e possono ispirare maliziose considerazioni culturali e complici sorrisi.
Facile pensare, infatti, che un italiano, per professione, faccia il falegname, il poliziotto, l'avvocato, il medico, il professore esattamente come, mettendo in opera un atteggiamento (che nulla garantisce sia autentico), fa il villano, il sordo e, di nuovo, il professore o il poliziotto. Facile immaginare che un italiano faccia il presidente del consiglio dei ministri, il magistrato o il giornalista come fa il damerino, l'uomo di mondo, il cascamorto, l'esperto di politica internazionale, cioè rappresentandosi, come un guitto, nel gioco sociale.
La differenza interpretativa pone peraltro questioni che non si possono facilmente liquidare come fossero effetti di fattori lessicali e lo si è già intravisto. Ci sono professori, infatti, che come altra gentaglia fanno i professori e ce ne sono altri che, grazie al cielo, salvano l'immagine della categoria (sempre a rischio di risultare odiosa) e hanno attitudini diverse e migliori.
È chiaro d'altra parte che specifici elementi lessicali possono volta per volta indirizzare verso il mestiere, e qualificare una costruzione che si è altrove proposto di chiamare Negotium, o verso l'atteggiamento, nella parallela e distinta costruzione Habitus. Non c'è nome, però, che in un opportuno contesto (non necessariamente scherzoso) non si presti a comparire nel costrutto Habitus.
È un tipico luogo comune pensare di un abitante di Napoli che sia sempre pronto a fare il filosofo: sarà stato questo il caso di Benedetto Croce? Conversamente, col continuo proliferare di nuove professionalità (non s'usa dire così?) e di modi fantasiosi di designare le vecchie, ci si sentirebbe di escludere che una ragazza domani possa fare la minimalista di professione? Per il momento, questo è certo, in Italia e fuori, c'è chi s'accontenta di trarre modesto profitto dall'Habitus.
Del resto, un padre cui la figlia nel primo dopoguerra avesse detto di voler fare la velina avrebbe avuto dubbi sulla sua sanità mentale; oggi, felice, l'accompagna ai provini. A nessuno viene più in mente che chi fa il cafone possa farlo in modo onesto ed onorato come mestiere. E tra i musicisti di un'orchestra c'è chi, per mestiere, fa il trombone e chi fa il violino, mentre tra gli accademici c'è chi fa il trombone e chi fa il leccapiedi: per mestiere? Di più: per vocazione.
Le differenze formali tra i costrutti Habitus e Negotium, però, ci sono e la disparità interpretativa non è il solo carattere che li opporrebbe, mentre tutto il resto li renderebbe identici: la fondamentale serietà della civiltà italiana (del lavoro) è dunque solida, anche se latente, e, per quanto periclitante, l'immagine nazionale può essere ritenuta salva.
Far venire fuori tali differenze, intendere cioè la loro sintassi, i processi attraverso i quali essi si fanno e di cui le diverse interpretazioni sono solo manifestazioni, è affare di una disciplina sperimentale come è la linguistica e quindi domanda che si creino opportune condizioni di osservazione.
Si fa così in tutte le procedure scientifiche, quando si costruisce un esperimento che mira a determinare esattamente i caratteri sistematici di un fenomeno. Capiterà forse di parlarne in una prossima occasione.
La certosina attività di creazione di condizioni di osservazione appropriate agli esperimenti è gran parte dell'impegno professionale del linguista e gli fornisce, inoltre, grandi ragioni di divertimento: certo, l'impegno e il divertimento di chi fa il linguista, non di chi fa il linguista. Beh, insomma, ci si è intesi, di chi, linguista, c'è e non ci fa.

2 settembre 2009

"I luoghi della traduzione"

Si svolgerà tra poche settimane a Verona l'annuale congresso della Società di Linguistica Italiana sul tema "I luoghi della traduzione": il valore metaforico di luoghi nel nesso è lampante (peraltro esso è ampiamente argomentato nella presentazione del convegno). La metafora localista, in linguistica, ha spalle larghe e tradizioni più che illustri: può sopportare bene la nuova estensione.
Del resto, traduzione è anch'essa creazione su base metaforica localista (e non si dovrà dire la medesima cosa di metafora?). La coscienza che con traduzione si stia maneggiando una metafora è naturalmente sbiadita. Si può quindi dire che, come il collo (della bottiglia) e la gamba (del tavolo), la traduzione (linguistica) sia una catacresi.
Combinare tuttavia una metafora localista con una catacresi localista produce una bizzarra reazione: sono gli scherzi della lingua, che è sempre combinazione (cioè sintassi) e mette sempre a rischio gli esseri umani di far figura da apprendisti stregoni.
La metafora di luoghi smaschera, per così dire, la catacresi di traduzione. Traduzione ne viene come riportata al suo grado zero e, per il contraccolpo, anche l'interpretazione di luoghi torna alla sua non-marcatezza. I luoghi della traduzione: la maionese impazzisce; tutto torna alla sua piatta normalità; tutto ridiventa d'improvviso stupidamente luminoso.
L'effetto interpretativo, con la sua ambiguità, è spettacolare e c'è da credere che chi ha proposto un titolo del genere per un congresso di studiosi della lingua abbia le doti di finezza e di umorismo che si attribuiscono di norma ai poeti (e che non dovrebbero ovviamente mancare ai linguisti).
"La tradotta che parte da Torino / a Milano non si ferma più / ma la va diretta al Piave, / ma la va diretta al Piave" cantavano gli Alpini, parlando appunto dei tragici luoghi di epocali traduzioni.
"Il luogo della mia traduzione? Auschwitz", avrebbe forse risposto Primo Levi a chi l'avesse interrogato in proposito, subito dopo il suo ritorno. Ohibò! la nuova Babele, la sede dell'infernale confusione delle lingue. Il cerchio si chiude.
Che la stupidità luminosa del grado zero, in linguistica, sia più rivelatrice dell'intelligente metafora?

1 settembre 2009

Piccoli, periodici malanni

Chi ha amore per la lingua ha da subire, come ogni povero cristo, dei piccoli periodici malanni. Glieli impone il fortunato stare a questo mondo, naturalmente, e il ciclico ripresentarsi, a questo mondo, delle tirate pedanti dei Soloni o pedestri degli Antisoloni, ormai sempre più spesso post-accademici e intrufolati nelle pieghe delle comunicazioni di massa. Per entrare coi loro libri in modeste classifiche di vendita, costoro prendono la parola in nome della cosa più silenziosa che ci sia, la lingua, e, col pretesto e vestendosi d'autorità, pretendono di dire cosa in proposito va fatto o non va fatto: complici oggi case editrici un tempo illustri e recensori compiacenti, perché chiaramente venduti all'andazzo.
In questi mesi, per es., pare vada di moda cavalcare la tigre e proclamare la libera uscita per usi che sono già intrinsecamente liberi e che se ne impipano (per dirla con Manzoni) della dotta riprovazione o della demagogica approvazione di chicchessia. Silenziosi come sono e come sono gli eventi naturali, essi domanderebbero forse all'intelligenza solo d'essere conosciuti, amorevolmente interrogati, ove possibile, spiegati.
Ma ai Soloni e agli Antisoloni, del silenzio della lingua e del suo farsi, cosa importa? Non sono uomini, sono caporali. Sanno come ci si comporta in società, con caporalesca finezza, strombazzano precetti o antiprecetti e provano a trarne anche il massimo profitto, facendone cassetta.
Parrucconi vestiti sempre all'ultima moda, si mettono così alla testa della rivolta delle lingue "giuste e vere" contro le presunte "finte e sbagliate", "sbagliate" anche per la pretesa d'essere corrette. E non capiscono che l'unica lingua finta e scorretta è quella in cui loro medesimi scrivono; e forse, per il linguista, per chi ha veramente amore per la lingua, nemmeno quella, perché il suo genio impersonale si fa beffe dell'interessata furbizia di coloro che pensano di abusarne e ne sono invece implacabilmente smascherati.
Piccoli, periodici malanni: finché si starà a questo mondo, passeranno. Poi, li si passerà ad altri.

Lingua nel pallone (2): Ancora su "attaccare la profondità"


Per le vie brevi, una lettrice che si dichiara lontana dall'attuale gergo degli appassionati del gioco del calcio, curiosa, chiede lumi ad Apollonio quanto alle espressioni che figurano nel post precedente. Ecco dunque qualche glossa approssimativa, pronta per un ideale dizionario dell'effimero.
Prendere in mano la squadra (più correttamente ed in origine, prendere per mano la squadra): fungere da punto di riferimento, in campo (ma anche fuori del campo), per i compagni di gioco; soprattutto nei momenti critici, guidarli, come un adulto fa con i bimbi, verso obiettivi che parrebbero loro difficilmente raggiungibili e portarli a conseguirli (talvolta in modo insperato).
Giocare tra le linee: detto di calciatore che opera tra il centrocampo e l'attacco, essere capace di trovare spazi di gioco non coperti dalle tattiche difensive degli avversari nella propria area di competenza del campo.
Attaccare la profondità: avere la capacità e la propensione ad andare, con o senza possesso della palla, verso il fondo della parte del campo di pertinenza degli avversari (e quindi anche verso la porta), penetrandone perpendicolarmente le linee difensive.
Cercare il triangolo: passare il pallone a un compagno, scattando immediatamente verso una posizione avanzata, suggerendogli così col proprio movimento un rapido e successivo passaggio che, col primitivo e col movimento senza palla, completa sul campo l'ideale figura di un triangolo. Per un comportamento del genere, ma in una prospettiva più generale, si adopera anche l'espressione dettare (a qualcuno) il passaggio.
Vedere la porta: avere una particolare attitudine al tiro verso la porta avversaria, da posizioni varie e con rilevanti percentuali di buon esito.
Apollonio passa tuttavia la palla a chi, dei suoi due lettori, potrà e vorrà apportare a queste modeste glosse correzioni e aggiunte migliorative.

31 agosto 2009

Lingua nel pallone (1): "Attaccare la profondità"


"Il montenegrino prende in mano la squadra: gioca con forza tra le linee, attacca la profondità, cerca il triangolo, vede la porta".
Apollonio trova il passaggio di delizioso cattivo gusto: corrivamente esoterico e esotericamente corrivo, come deve essere la lingua speciale delle masse di fanatici del calcio. Tra i quali Apollonio (con moderazione) si annovera, anche se (lo confessa) mai avrebbe il coraggio di infilare in un suo periodo (anche nell'orale) una serie così scintillante di effetti di stile: similoro autentico.
Alessandro Bocci lo fa, invece, nella sua cronaca sul Corriere della Sera di oggi dell'incontro Fiorentina-Palermo, che conta altre gustose tournures, pronte, come le prime, a diventare stucchevoli al secondo passaggio, naturalmente. Così si conviene a questa prosa densa di orpelli: più lesto nelle ripartenze; tiene alto il baricentro; esercita pressione sulle fasce; dovrebbe essere più concreta negli ultimi sedici metri; soffre, sbuffa, in alcuni momenti va in difficoltà; ha finito l'ossigeno; gestire con qualità i minuti finali e così via.
Un gergo di massa fatto di arcani luoghi comuni, come si fosse al cospetto del lessico specialistico d'una disciplina scientifica o della lingua letteraria di una scuola poetica sperimentale. Prendere in mano la squadra, giocare tra le linee, attaccare la profondità, cercare il triangolo, vedere la porta: una o più figure per ciascuna espressione, che (Apollonio ha il sospetto) nessun lessicografo ha ancora registrato. Ma sia lode all'effimero, tra le esperienze (linguistiche) umane forse la sola imperitura.

28 agosto 2009

Bolle d'alea (9): Malraux

Non esiste minoranza intelligente che non contenga una maggioranza di imbecilli. Deve essere più o meno questo il modo con cui l'idea fu espressa nel secolo scorso da André Malraux, il noto avventuriero, scrittore e ministro francese. Apollonio cita a memoria: niente virgolette; la pazienza e l'aiuto dei due lettori saranno ancora una volta molto graditi.
Inutile dire che si tratta di criterio da sempre utile per la comprensione delle dinamiche sociali, diventato indispensabile con l'avvento del Moderno e della sua contemporanea putrescenza.
Apollonio ritiene tuttavia che sia proprio da stupidi limitarne la portata euristica al dominio sociale, come se, dell'umanità, l'individuo, i suoi pensieri e le sue prassi fossero così i soli talvolta salvi dall'essere eventualmente imbecilli.
Per capire quell'illusione cui ci si riferisce con essere umano, come per capire i fenomeni linguistici che perfettamente lo rappresentano, la fissione di ogni parvenza di unità solo presuntamente minima e la sua riduzione a puro termine multicomposito di sistemi di relazioni sono condizioni irrinunciabili: nel dominio sociale tanto quanto in quello psichico, l'individuo è tra tali parvenze, non meno di ogni suo correlato oppositivo.
E dunque: non esiste testa intelligente che non contenga una maggioranza di idee stupide, come meglio di ogni discorso dice l'immagine che illustra questo post. Di più, non esiste lampo d'intelligenza che non contenga una preponderante parte di stupidità e così via, vertiginosamente, all'infinito: c'est la condition humaine.

26 agosto 2009

"Ma come è umano, Lei!"

"Anche se la creazione di nuove teorie è una realizzazione di pochi dotati, lungo gran parte della storia umana è stato possibile ad altri, di minor talento, comprendere e apprezzare ciò che era stato compiuto".
Il valore etico e teoretico di questa affermazione (in ogni caso, discutibile) muta in funzione dell'opinione di sé che, con riferimento a essa, ha chi l'ha dettata: i due lettori di Apollonio ne converranno.
Sotto la penna di uno che si crede tra coloro "di minor talento", essa è ancora tollerabile.
È anzitutto una sesquipedale volgarità, invece, tale da suscitare nel lettore una risata, se a scriverla è stato chi pensa di sé "e io sono uno dei pochi dotati" e la propone inoltre come conclusivo argomento a sostegno del valore di ciò che sta spacciando per "nuova teoria".
In questo secondo caso, essa deve poi essere motivo di preoccupazione, nell'ambiente in cui è stata enunciata. E, per chi riconosce nel suo enunciatore la propria autorità di riferimento, una buona ragione per interrogarsi sul ruolo che la commedia gli assegna.
In quelle parole si intravedono infatti arroganza, millenarismo, pregiudiziale rifiuto della critica, odio per la scepsi, propensione ai giudizi assoluti e ai comportamenti improntati a visioni totalitarie. Insomma, vi si legge ciò che è l'opposto dello spirito aperto, possibilista, tollerante e naturalmente ironico della scienza: un atteggiamento di spregio per l'umanità comune dei presunti meno dotati, possibilmente ammessi, da devoti, a "comprendere e apprezzare" l'opera degli eletti, dei "pochi dotati", che, anche dal punto di vista aspettuale, vi è presentata come perfetta: "creazione... compiuta".
Abbia (avuto) un individuo che pensa una cosa del genere e che si ritiene una tale divinità il potere di nuocere (anche solo intellettualmente), lo abbiano eletto a capo di una setta la stupidità, la pecoraggine, la malafede e il calcolo meschino di trarne vantaggi personali socialmente rilevanti, i risultati possono essere stati solo quelli che la storia anche recente dell'umanità dovrebbe avere insegnato a fuggire.
Tra tutti, e il più pericoloso, il conformismo: nella Modernità (e in quella marcia ancora di più), esso ha preso a camuffarsi, pubblicitariamente, da innovazione continua, da rivoluzione o da evoluzione permanente. Ma la storia, com'è noto, non insegna nulla.
Ah! Apollonio stava per dimenticare il riferimento: N. A. Chomsky, "Linguaggio", in Enciclopedia, vol. VIII, Einaudi, Torino 1979, p. 395. Niente paura, dunque, e solo da ridere. Grazie al cielo, tutto resta nell'aia della linguistica, dove anche le massime corbellerie e l'opera instancabile degli innumerevoli Giandomenico Fracchia che ci credono o fanno finta di crederci hanno conseguenze meno che marginali per le sorti dell'umanità.

[Tra coloro che vivono di accademia, se ne incontra parecchia di gente che, per aver fatto anche molto meno di Chomsky, è pronta a pensare, a dire e a scrivere cose simili. E lo ha fatto, magari con parole diverse e adducendo meriti, competenze e professionalità. E va su tutte le furie se i malcapitati che la incontrano, scrollano il capo e si allontanano disgustati. Quanto ai Giandomenico Fracchia, se ne trovano complementarmente legioni. I due lettori di Apollonio lo sanno e, dandosi di gomito, staranno già facendosi nomi degli uni e degli altri: al prossimo incontro, glieli sussurreranno in privato all'orecchio].

24 agosto 2009

Bolle d'alea (8): Flaubert

Da Costantinopoli, autunno del 1850, Gustave Flaubert scrive a un suo corrispondente: "De temps à l'autre, dans les villes, j'ouvre un journal. Il me semble que nous allons rondement. Nous dansons non pas sur un volcan, mais sur la planche d'une latrine qui m'a l'air passablement pourrie. La société prochainement ira se noyer dans la merde de dix-neuf siècles, et l'on gueulera raide".
Sono passati più di cento cinquanta anni. I secoli sono diventati ventuno. On gueule raide. La planche deve avere ceduto. L'olfatto, il più antico, nobile, ragionevole dei sensi, lo dice inequivocabilmente.

23 agosto 2009

Nomen, non me! (9)

A proposito di glorie nazionali, dalle parti in cui visse il maggiore filosofo italiano del Novecento alligna, talvolta, un sacrilego cinismo. Si sa come sono, questi meridionali: non hanno rispetto per nulla.
C'è addirittura chi osa definire la sua opera monumentale

'no brodett'e cece!

[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]

22 agosto 2009

Nomen, non me! (8)

E, quanto a politica del prelievo fiscale, quali sono oggi in Italia gli indirizzi del titolare del dicastero competente?

Or e titoli mungi

(L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta)

19 agosto 2009

Lingua nostra (2): dal focolaio svizzero, "(inter)facoltario"

Gli aggettivi facoltativo e facoltoso, in italiano, ci sono già. Ma facoltà come "sezione dell'università che raggruppa materie affini" non ha ancora il suo aggettivo relazionale (che delizia, sia detto a margine, l'ordinato mondo che descrivono i dizionari, con simulata ingenuità!).
Tanto i comuni quanto le facoltà, per es., hanno un consiglio: ma se per i comuni è, da sempre, un consiglio comunale, per le facoltà è stato finora un consiglio di facoltà. E basta.
Del resto, nelle università come altrove nel mondo, di molte cose si dirà che sono facoltative ma di nessuna lo si dirà in ragione del fatto che è 'di una facoltà universitaria' o 'relativa a una facoltà universitaria'.
Che facoltoso possa poi avere qualcosa da spartire, oggi, con qualsiasi aspetto della gloriosa istituzione accademica occidentale muove al riso. "'Bambole', non c'è una lira" è ormai il motto che vi circola. "A meno che - si aggiunge di solito - non siate capaci voi medesimi di trovare chi compri le vostre grazie". E, meglio di tutte le chiacchiere su rinnovamenti metodologici, meriti ed eccellenze che si sentono in giro, ciò dice il perché da più parti politiche ed economiche si prema per mettere presto alla porta pletore di avvizziti vecchietti sostituendoli con più appetibili e giovani virgulti della scienza. Si vuol mettere la differenza di vendibilità?
Comunque sia, a colmare la lacuna lessicale dell'italiano di cui si diceva, si sta provvedendo in Svizzera: (inter)facoltario compare già nella prosa giornalistico-burocratico-accademica che vi si produce nella lingua del sì. In un documento della città di Zurigo, per es., a proposito della splendida ed efficiente biblioteca centrale, si legge: "È un ente interfacoltario dell'Università, accessibile al pubblico". "Per la discussione facoltaria" è recentissima attestazione raccolta personalmente da Apollonio.
Una mano, nel nuovo conio, deve averla data il francese. Secondo i dizionari, facultaire, "relatif à une faculté: l'administration facultaire", è attestato a partire dal 1970. Ma, da ciò che compare in rete, sembra oggi vivace soprattutto in Belgio, nel Québec, di nuovo in Svizzera: il Pôle facultaire de Microscopie Ultrastructurale, per es., è a Ginevra; a Losanna, invece, si potrà frequentare il Département interfacultaire d'éthique.
Ragionevolmente per influenza del francese, sempre in Svizzera prospera anche il tedesco fakultär: di fakultäre Forschungsschwerpunkte parla il sito dell'Università di Zurigo. Fakultär non sembra però ancora completamente acclimatato nell'area germanofona. Le attestazioni tedesche, svizzere e austriache (con valori diversi, non solo aggettivali) sono numerose, è vero. I dizionari comuni però tacciono. La parola circola parecchio ma è come se non esistesse: una sans papier che, fatto il suo lavoro, si acquatta clandestina.
Tacciono i dizionari anche in Italia, e con ragione. Fuori dell'italiano in Svizzera, (inter)facoltario sembra, allo stato, soltanto potenziale o, per dir così, ultra-tendenziale. Lo testimonia il brano seguente (di autore presumibilmente romano). Gli affezionati di Apollonio crederanno si tratti di una parodia. Invece è autentico (punti di sospensione compresi). Se vogliono, possono trovarlo anche loro in rete:

"Salve a tutti. Quest'annuncio è rivolto a coloro che vogliono creare sinergie e vogliono affiancare alle loro metodologie e tecniche questo nuovo e promettente approccio. Dopo una discussione alquanto interessante nella sezione di psicoterapie mi sposto in questa di lavoro... Mi sono laureato in quella che una volta si chiamava psicologia sperimentale con un indirizzo ancora piu strano (il corso era interfacoltario tra ingegneria e psicologia)... fra poco comincerò il dottorato in psicologia cognitiva... Purtroppo il neurofeedback è una tecnica relativamente giovane ma estremamente promettente (se volete fate un giro sul sito nell'NIH, praticamente l'istituto superiore di sanità americano, per capire quanto ci stiano puntando all'estero...)".

Insomma, l'impressione è di un'innovazione lessicale francese. Il francese è l'unica delle tre lingue qui prese in conto per le quali esistono già, da almeno trenta anni, opportune registrazioni lessicografiche di facultaire.
In modi variamente rigogliosi, essa sta avanzando tanto in francese, quanto in tedesco (come fakultär) e, adesso, in italiano (come facoltario). Sembra l'avanzata si muova soprattutto da focolai marginali: anche in francese. E la Svizzera pare giocare nel caso specifico un ruolo speciale: i focolai vi sono (anche amministrativamente) contigui e, nel contatto, si rinfocolano vicendevolmente, nella creazione di un elvetismo interlinguistico.
Niente di scientifico, naturalmente, in questo post: in linea, del resto, con l'intero blog. Dietro, c'è solo un'approssimativa e rapida raccolta di dati in rete e la consultazione di banali dizionari: un passatempo agostano, come, anni fa, si fece con ippomontato.
Il dato di questa che pare una comune innovazione 'continentale' (e non 'anglosassone') è comunque curioso. Fiducioso, Apollonio lo affida alle competenze, alla dottrina, all'erudizione dei suoi preziosi cinque lettori.

18 agosto 2009

Preistoria di "Nomen, non me!"...

...per l'eventuale diletto di sfaccendati agostani

Era un tardo pomeriggio della primavera del 1972: il 7 maggio si sarebbero svolte le elezioni politiche italiane. Luigi Pintor teneva un poco affollato comizio a Palermo, in piazza Verdi, quella del Teatro Massimo. Apollonio, ch'era poco più d'un adolescente, consumava in quella primavera certi suoi ultimi entusiasmi: piuttosto, certi suoi estremi astratti furori. Ed era lì ad ascoltarlo.
Dire oggi, quasi quaranta anni dopo, se le cose che Pintor sosteneva fossero giuste, vere, opportune sarebbe inutile. Inutilmente erudito sarebbe precisare per quale parte politica parlava. Era la parte politica che egli stesso aveva fortemente voluto presentasse proprie liste di candidati a quelle elezioni, con esiti che per essa (e nel suo piccolo) si sarebbero rivelati catastrofici.
L'umorismo, ha scritto un barbaro non privo d'ingegno, è il modo con cui lo sconfitto rivendica e riafferma la sua inutile superiorità. Pintor aveva un'eloquenza umoristica: la sconfitta era inscritta nella sua espressione, dunque, e travalicava quella, effimera, che egli avrebbe subito pochi giorni dopo.
Ugo La Malfa, palermitano di nascita ma non di formazione culturale e politica, azionista, massimo esponente del Partito Repubblicano Italiano, fervente e convinto sostenitore dell'alleanza atlantica e quindi filoamericano, sovente titolare di dicasteri economici nei governi italiani dell'epoca, doveva appunto essere in quei mesi ministro del Tesoro (o delle Finanze: poco importa). E Pintor, quasi in chiusura del suo comizio: "E ditemi, compagni, come si può credere all'autonomia delle scelte economiche e all'indipendenza dai petrolieri americani di un governo che ha per ministro del Tesoro un signore il cui nome, in anagramma, suona Amo la Gulf?".
L'argomento politico non era forse ineccepibile. Certamente non era ineccepibile l'anagramma: restava infatti una a. Ma Apollonio rise. Pensò. Gli parve di capire qualcosa, dove forse non c'era nulla da capire. Gli parve del resto che il metodo meritasse sviluppi e che con la sua insensatezza rivelasse faccette del mondo inaccessibili a chi crede di ragionare in modo sensato. Consumò inutilmente in quella primavera certi suoi estremi astratti furori... E poi, ilare, venne Saussure.

17 agosto 2009

Nomen, non me! (7)

Il commissario indaga sul caso di un instancabile e inarrestabile serial writer: cosa muove i suoi atti? Sarà forse venale, la sua musa?

Denari: li reclama

[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]

16 agosto 2009

"Nos, Langobardi..." (2 e fine)

La Relatio de Legatione Constantinopolitana di Liutprando fu scritta in latino (come diversamente avrebbe potuto, all'epoca?) e, ragionevolmente, in latino si svolse la conversazione tra un imperatore greco e l'ambasciatore longobardo di un imperatore tedesco, cui era venuto l'uzzolo di fare una l'Italia (proprio così!) e voleva venirne a capo con le armi o con un matrimonio: la storia è sempre incontenibilmente ironica.
Tra i moderni che hanno riferito del gustoso aneddoto, forse qualcuno avrà già fatto osservare tali circostanze, tanto ovvie quanto (a ben riflettere) rivelatrici. Ad Apollonio però non risulta. Egli sa direttamente di Carlo Cattaneo e, più di recente, di Giulio Bollati; indirettamente, di Benedetto Croce. Se uno dei suoi due lettori sa di più, lo aiuti e lo corregga.
Liutprando potè dunque dire a Niceforo Foca "Nos, Langobardi", spregiando i "Romani", ma lo disse (e ne riferì ad Ottone) in latino: nella lingua messa in giro per il mondo (e con che imponenza) dagli eredi di quel Romolo di cui il vescovo di Cremona ricorda, tanto per essere chiari, che fu fratricida oltre che (e nelle sue parole pare colpa più grave) frutto di relazione adulterina: "Romulum fratricidam, ex quo et Romani dicti sunt, porniogenitum, hoc est ex adulterio natum". A buon intenditor...
Né meno comica (e certo più inconsapevole e grottesca) è l'enfasi politica sui dialetti che, in odio ai "Romani", oggi furoreggia (come si diceva nel post precedente) dalle parti di Liutprando. Contrapposti pretestuosamente all'italiano, non 'romano' ma fiorentino e, da tempo, sempre più settentrionale e padano, essi sono diversi e locali solo in funzione di quell'identità latina (e quindi, politicamente, 'romana') da cui originano. La loro variazione e la loro comparabilità confermano insomma in ogni momento l'unità storica profonda cui, nei fatti, si riferiscono: come ogni variazione, come ogni comparabilità tra simili. Altro che distacco da Roma e da quei figli di buona donna dei 'Romani' (certo, antichi).
Ciò detto e venendo a ciò che è veramente transeunte, caso mai l'attuale e sperabilmente passeggera enfasi politica sui dialetti si sedimentasse in provvedimenti, lungi dal nuocere all'unità italiana, questi sarebbero forieri di disastri proprio per le parlate locali, strapazzate da un uso strumentale e destinate a passare definitivamente per stupide nel momento in cui entrassero in un'aula scolastica col finto folklore di favolette e canzonette: cadaverini linguistici, odiosi per il dolciastro sentore del marcio. I dialetti italiani (ohibò!) sono infatti delicati, in questa fase della loro vicenda linguistica. Come tutte le cose delicate, andrebbero lasciati in pace e non trascinati nel curtigghiu, se non se ne vuole decretare veramente la morte.
Una morte miserabile, peraltro. Non quella cui è andato incontro l'idioma in cui scriveva Liutprando e che era stato di Fedro, al quale il fantasioso Giorgio Manganelli imprestò un sarcastico giudizio sui "Romani" non troppo diverso da quello polemico del vescovo di Cremona: "Che la mia [lingua] sia morta, non mi stupisce: anzi mi par giusto; tali e tante erano le canaglie che la parlavano".
I dialetti stanno invece in bocca alle persone per bene: che vivano, che muoiano, vanno lasciati tranquilli, al loro piccolo destino. Solo quando è parlato da figli di buona donna ed è rotto perciò a tutte le avventure, un idioma diventa una lingua. E se a parlarla e a scriverla sono veramente gran figli di buona donna, una lingua vive grandiosamente e grandiosamente muore: come il latino. E morta, lasciando numerosa prole, sovente di dubbia legittimità, profuma per sempre di rose.

12 agosto 2009

"Nos, Langobardi..." (1)

"Vos non Romani, sed Langobardi estis [Voi non siete Romani, siete Longobardi]": mancavano ancora tre decenni al 1000 e l'imperatore d'Oriente Niceforo Foca apostrofò così Liutprando, vescovo di Cremona, inutilmente inviatogli come ambasciatore dal collega Ottone I, per combinare tra l'altro un matrimonio e dirimere così un difficile contenzioso tra i due imperi, relativo all'Italia meridionale. I rapporti di colleganza, come si vede, non erano facili neanche allora.
Di ritorno, il longobardo raccontò d'avere replicato come segue allo sprezzante ospite: "nos, Langobardi, scilicet Saxones, Franci, Lotharingi, Bagoarii, Suevi, Burgundiones, tanto dedignamur [coloro che son detti Romani], ut inimicos nostros commoti nil aliud contumeliarum, nisi: Romane! dicamus, hoc solo, id est Romanorum nomine quicquid ignobilitatis, quicquid timiditatis, quicquid avaritiae, quicquid luxuriae, quicquid mendacii, immo quicquid vitiorum est, comprehendentes". 'Romano!', quindi, per "nos Langobardi" valeva come massima contumelia da rivolgere al nemico, riassuntiva dell'attribuzione di un'impressionante serie di vizi: ignobilità, pavidità, avarizia, lussuria, mendacio e così via.
Innescato dal 'voi' di Niceforo Foca, ecco allora un lampante caso di 'noi' che esclude l'interlocutore, di 'noi' non-inclusivo. In anni recenti - e, certo, quando dei Longobardi, etnicamente, si è ormai persa ogni traccia - un 'noi' così caratterizzato ha ripreso a furoreggiare nelle contrade che furono di Liutprando. Di nuovo (e qui sta il comico: ma se ne riderà in una prossima occasione) in relazione ai 'Romani', termine oppositivo indispensabile alla soggiacente costituzione di un 'noi' inclusivo, cioè di quel 'noi' con cui, chi parla, espropria invece il suo interlocutore della sua individualità.
"Se vogliamo che tutto rimanga come è..." dice Tancredi Falconeri, col 'noi' inclusivo più famigerato della letteratura italiana e non c'è lettore del Gattopardo che non abbia attribuito il pensiero e, nel ricordo, addirittura le parole al povero Fabrizio Corbera, in quella come in altre occasioni, davanti al nipote, silente.

Non ci si riflette mai (come non si presta mai la giusta attenzione alle mani di un borseggiatore), ma a dire 'noi' è infatti sempre un 'io' e, inclusivo o non-inclusivo, non di rado il giochetto del 'noi' (che pare innocuo) finisce male: in una guerra, certo, e persino in un matrimonio.

9 agosto 2009

Lingua loro (15): "osservatore volontario"

Per decreto ufficiale, osservatore volontario sarà chi farà parte di quelle ronde di cittadini istituite come risposta all'esigenza (pare diffusa) di contrastare il visibile degrado cui stanno andando incontro le città italiane.
Racchiusa in tale designazione, c'è per chi vuole osservarla una ricca rappresentazione della società che parla la lingua che oggi accoglie l'espressione.
C'è, palese e moderna, l'osservazione e, celata ed eterna, l'osservanza.
C'è la volontà esibizionista della milizia, che - soprattutto come velleità - è tra le maggiori attitudini socio-psicologiche della nazione. E c'è l'ipocrisia eufemistica del nomen agentis, con cui (senza nominarlo, ché sarebbe scandalo) s'allude al ruolo poliziesco.
C'è la ridondanza semantica: nomen omen, l'istituto medesimo è ridondante in un paese che ha un numero imprecisato di polizie diverse. E c'è l'ambiguità sintattica: osservatore volontario non è infatti chi osserva volontariamente (opposto a chi lo fa involontariamente) ma chi, come volontario, copre la nuova funzione di osservatore.
E con la spudorata creazione di un voyeur istituzionale, c'è insomma nel nome la rivelazione, evocata per eccesso di contrasto, della nuova fase acuta di un morbo antico: la cecità, che ormai dilaga, di chi pretende di guardare senza saper vedere, parallela del resto alla perenne volgarità di chi pretende di scrivere senza saper leggere (nemmeno ciò che scrive).

2 agosto 2009

Lettres persanes (1)

Apollonio riceve, traduce dal persiano e volentieri pubblica:

Caro Apollonio,
a chi viaggia per paesi di cui non conosce a fondo gli idiomi capita di rubare qualche vocabolo, qualche espressione dalle scritte stereotipe, sovente plurilingui, che si vedono nei luoghi pubblici, utilizzandole, nella loro grossolana modestia, come Champollion fece invece finemente con la famosa Stele di Rosetta.
Ne ho fatto esperienza ancora una volta qualche giorno fa: con l'italiano. Ero alla stazione di Milano: in coda alla biglietteria e l'attesa (non breve) mi ha dato modo di sapere come suonano in italiano open e closed. Era scritto sugli sportelli davanti ai quali ho trascorso qualche istruttivo quarto d'ora. In italiano, ho appreso, open si dice operativo e non operativo vale closed. È stato il prezioso acquisto lessicale della mia giornata. Io, pensa, avevo sempre creduto che a open corrispondesse aperto e chiuso invece a closed.
Nel mio perdurante soggiorno italiano, per nulla clandestino, m'è accaduto di assistere a vicende che, come sai, alla buona avevo dette effetto d'una certa chiusura mentale dei tuoi connazionali. Ora so che, nella tua bella lingua, nei casi in questione è appropriato parlare di menti non operative. La scoperta mi ha riempito di gioia, come comprenderai, e ha accresciuto la mia ammirazione per una lingua capace di dire in modo tanto chiaro come stanno veramente le cose. Lo vedi? Basta veramente poco per nutrire il piccolo spirito di un perdigiorno che si diletta, viaggiando, delle sistematiche, esotiche stranezze della parola umana.
Con amicizia,
il tuo Usbek

1 agosto 2009

Dialetti italiani: da quattordici a seimila

In questa settimana, l'Italia dialettale è stata per un giorno à la une. Il lettore di Apollonio che in Italia ci vive lo sa: l'altro ne sia succintamente informato da questo post. Naturalmente, l'Italia dialettale non è arrivata in prima pagina per ragioni di merito (sarebbe difficile anche immaginarne l'occasione). È stata invece fatta pretesto del cosiddetto dibattito politico: "«Esame di dialetto ai professori» / La Lega fa scoppiare un altro caso".
Con la collaborazione degli organi di informazione, i protagonisti di tale dibattito sarebbero del resto capaci di mettere in scena un curtigghiu (è voce siciliana) con qualsiasi (vecchio) arnese concettuale, nazionale o internazionale. Gran merito, per una nazione che è diventata così poco professionalmente teatrale forse perché ha trasferito la sua diffusa teatralità dilettantesca dai cortili dei caseggiati alle arene deputate al pubblico confronto dei suoi ceti dirigenti e intellettuali.
Dalla prima pagina, qualsiasi tema sollevato dal curtigghiu scivola il giorno dopo nelle pagine dei commenti e degli approfondimenti, dove a impadronirsene sono i guitti delle seconde schiere, per poi estinguersi più o meno rapidamente, fino a nuova replica. È appunto accaduto così anche all'Italia dialettale e, per chi della questione ha una cognizione pur vaga, il vero divertimento non sta nella fiammata iniziale (dove pure se ne leggono delle belle) ma in queste conseguenti pagine distese, che prendono l'andamento del saggio e sono di norma imperdibilmente esilaranti.
In un suo paginone centrale, il più venduto quotidiano nazionale ha per esempio titolato perentorio: "Un Paese / 6000 lingue". Cifra peregrina? Per nulla: iperbole codificata. In altra occasione, tempo fa, l'espressione umana era stata fatta oggetto di cure giornalistiche, col pretesto allora della campagna di un'agenzia culturale internazionale per la salvaguardia degli idiomi in pericolo di estinzione e della correlata fantasiosa istituzione (se non ci si sbaglia, a Genova) di un museo. Il numero delle lingue al momento parlate al mondo era stato per l'evenienza fissato alla medesima cifra, se Apollonio non ricorda male.
Locale o globale, evidentemente poco importa: quando è questione di parlate, si deve essere tacitamente stabilito nelle redazioni che seimila corrisponde alla massa critica, in funzione della quale parte la reazione a catena dell'attenzione dei media.
Chi volete del resto si impressioni oggi per quel quattordici sul quale, settecento anni fa, si fermò Dante nel suo computo sistematico delle varietà della lingua del sì? Chi volete prenda in considerazione il suo monito a non impelagarsi, per volere dire di più e per sottilizzare, in calcoli tanto impossibili quanto millantati? Chi volete si curi della sua irrisione del municipalismo?
E poi, diciamolo, per quattordici varietà la questione politica non sarebbe nemmeno nata. Sono meno delle regioni, poco più d'un decimo delle province. Seimila "lingue", invece: vuoi mettere il numero di assessorati competenti? E quello delle correlate consulenze remunerate? E quanti bei posti comunali di ufficiale dialettale da creare, per concorso pubblico! Con la sezione "Annona", la Polizia locale ne conterà naturalmente una "Idioma", incaricata di assicurare il rispetto delle relative norme nell'area di competenza. Finalmente, insomma, il concetto di legge fonetica avrà un senso comprensibile a tutti: abusi idiomatici e violazioni di isoglossa saranno severamente repressi.
Da quattordici a seimila: nella consapevolezza di se medesima, è (a volere essere ottimisti) l'impietoso rapporto della tremenda inflazione d'intelligenza che l'Italia (linguistica) sconta dall'Alighieri al curtigghiu dei giorni nostri.

[su numero e qualità degli idiomi, v. anche il post Lingua loro (6), del 26 ottobre 2007]

Lingua loro (14): "incubo"

Gli Italiani partono per le vacanze? "Con l'incubo delle code", se si dirigono verso il Sud, "con l'incubo della 'nuova' influenza", se passano per un aeroporto e sono diretti all'estero. In montagna? "Una stagione da incubo, per numero di incidenti". Né va diversamente al mare: "Una stagione da incubo, per numero di annegamenti". E mille e mille altre ricorrenze: lingua dei media e lingua quotidiana si rispecchiano in questo caso. Il corso di linguistica? "Un incubo". La storiaccia con il marito della collega? "Un incubo".
La vicenda deve essere vecchia e pare ci sia implicato addirittura Giuseppe Mazzini: "Io sono oppresso dalla vergogna per l'Italia: è un incubo del dì e della notte". A leggere il Tommaseo-Bellini, incubo dilaga infatti almeno dalla metà dell'Ottocento e già vi si parla di "abuso" del traslato: antipatie ideologiche? Minuscolo e saporito dettaglio dell'eterno, buffo contrasto tra l'Italia guelfa e quella ghibellina?
Comunque motivata, la prospettiva normativa rischia però d'essere più stupida della stupidità che pretende di colpire, come al solito. La parola non va ripresa: va osservata amorevolmente, anche quando dà sui nervi. Non mente mai, per la semplice ragione che non dice nemmeno la verità: la parola si esprime, opponendosi al silenzio. E il lento dilagare di incubo esprime e svela, come meglio mai si potrebbe, ciò che è sotto gli occhi di tutti: soggetti a tanti incubi, gli Italiani sono evidentemente in uno stato permanente di sonno.
Con la scusa di raccontare esemplarmente vicende risorgimentali, del resto, Lampedusa lo scrisse dei Siciliani, in pagine famigerate: ma, come pochi si sono accorti (gli altri dormivano, appunto), era solo una sineddoche. Né si potrà dire che si tratta di sonno della ragione. La facoltà in questione è infatti la più tipica tra le nazional-popolari: è la volontà. Gli Italiani vogliono dormire: chi potrebbe dar loro torto? I loro incubi? Modesto prezzo da pagare.

27 luglio 2009

Come cambiano le lingue (1)


"I tabù sono duri a morire" suona il titolo di un articolo di spalla, sulla prima pagina della Stampa di ieri. Prestigiosa notista, titolare di una rubrica televisiva di peso e, un dì, presidente(ssa) della televisione di stato, Lucia Annunziata così esordisce: "Quando si arriva al dunque, ogni paese sembra essere uguale. Razza e gender, sono sempre i primi tabù su cui si ricasca. Cosa c'è di più facile del mettere sotto accusa qualcuno per il colore della sua pelle, e quante volte abbiamo assistito al giochino di sminuire una donna con una semplice battuta sul suo corpo o la sua incompetenza? Il ripetersi di questi episodi è una delle condanne al circuito insolubile in cui è prigioniera la vita quotidiana delle nostre società".
Tabù? Piuttosto cliché, luoghi comuni, stereotipi. Tabù è l'interdetto, ciò che non si può nemmeno menzionare, di cui non si può parlare: su "razza e gender", dice invece l'Annunziata, ci "si ricasca" sempre. "Razza e gender" sarebbero insomma tabù se nessuno osasse (stra-)parlarne: e non è proprio il fatto che se ne (stra-)parli a indignare l'Annunziata e, complice il direttore del giornale per cui scrive, a indurla, col suo scritto, a sollevare l'indignazione di lettori e lettrici?
Provando a penetrare il mistero del "circuito insolubile", Apollonio (lo confessa) è preso dalla vertigine, ma, come modesto amatore delle vicende linguistiche, gongola ed è lungi dal menare scandalo. Al contrario: ecco, prezioso, un cambiamento lessicale in atto. Tabù sta semanticamente migrando, fino a voler dire l'opposto di ciò che significava e ancora significa, per i già obsoleti dizionari italiani e per il vecchio Apollonio. Ed ecco ancora una prova del fatto che le lingue non cambierebbero (o cambierebbero diversamente da come le si vede cambiare), se non ci fosse chi, come l'Annunziata, non sa letteralmente ciò che dice e scrive e, non sapendolo, lo dice e lo scrive in sedi che fanno tendenza.
I due maliziosi lettori di Apollonio staranno certamente pensando che non a caso si diventa oggi giornalista di grido, non a caso presidente(ssa) della televisione di stato. Apollonio, lascia loro l'intera responsabilità di pensieri tanto contingentemente impertinenti. Sa che, mutatis mutandis, così va il mondo, così è sempre andato.

20 luglio 2009

L'attenzione linguistica

L'attenzione linguistica è l'attivazione consapevole delle conoscenze (altrimenti inconsapevoli) che costituiscono la facoltà di linguaggio, come essa si realizza nella padronanza di una o più lingue. L'attenzione linguistica è così la risorsa principale a disposizione d'ogni lettore che aspiri a comprendere un testo (naturalmente, ancor prima, d'ogni ascoltatore: ma, per semplicità, si restringa qui il caso alla lettura) .
Comprendere un testo non è, come si crede banalmente, interpretarlo più o meno correttamente, dal punto di vista filologico, come se fosse un fatto (storico). Invece, è cogliere consapevolmente fasi e modi del processo linguistico che lo ha prodotto (in qualsiasi epoca ciò sia accaduto) e che lo riproduce nel momento in cui esso viene letto. Con consapevolezza della distanza e della prossimità, della differenza e dell'uniformità, leggere è (ri)percorrere un processo: il farsi linguistico del testo.
Si vedono all'opera, nella lettura consapevole, facce complementari del saper fare linguistico complessivo: facce che non esistono per sé, l'una attiva e l'altra passiva, ma soltanto perché l'una è in relazione con l'altra, nell'ipotesi inesausta e sempre da verificare di un'armonica coincidenza.
L'erudizione di critici e lettori specializzati è solo finitura e ornamento di questa indispensabile facoltà, in assenza della quale non ci sarebbe proprio nulla da ornare.

13 luglio 2009

È il vecchio che torna (ovvero: "run for cover")

"Ecco un fatto apparentemente incontestabile: non c'è niente nella parola «cavallo» che assomigli al cavallo; in altre lingue si usano parole molto dissimili, come «horse» o «Pferd». Questa è la tesi fondamentale dell'«arbitrario del segno» (linguistico); espressa da Ermogene, il personaggio del Cratilo platonico, contestata da Cratilo stesso, ripresa da de Saussure e assurta a testata d'angolo della linguistica moderna".
Si sa: sulle gazzette (come nei blog) non si può stare a sottilizzare: si perderebbero lettori. E sul recente supplemento domenicale, dedicato a libri e cultura, dell'organo di stampa della Confindustria non si può dire certo che Roberto Casati sottilizzi, col suo trafiletto intitolato "Se le parole somigliano alle cose".
C'è voglia di ritorno all'ordine, oggidì, e le "cose", con la loro solidità, vanno molto di moda tra i filosofi. Run for cover è il motto e stanno tutti correndo al riparo: sotto il tetto, che evidentemente ritengono sicuro, delle ontologie. Immemori dei terremoti del passato. Incapaci di immaginare quelli del futuro.
Del resto, perché preoccuparsi dei terremoti? Le cattive idee sono immortali. Finiscono periodicamente sotto le macerie degli edifici filosofici che si sono prestate a tirare su. Per un po', le si vede circolare peste e infarinate. Non ci mettono molto però a riscuotersi e a occupare con le loro invadenti rigidità tutti gli spazi su cui possono speculare. Ricominciano così a fare i soliti danni: allo studio scientifico del linguaggio e alla crescita di una diffusa consapevolezza culturale di cosa esso sia, ne fanno da millenni. Nella sua episodica modestia, il breve passaggio in apertura è esemplare: non esita infatti a devastare, appiattendola agli occhi del mondo, la radicale differenza tra l'Ermogene del Cratilo e Ferdinand de Saussure.
Il linguista svizzero si vede così iscritto d'ufficio da Casati tra coloro secondo i quali la lingua è solo una variabile nomenclatura convenzionale delle cose. Per convenzione o per natura: è questo il dibattito cui, dato per assodato il carattere nomenclatorio della lingua, si riferisce infatti Casati. Ma tale dibattito ha poco da spartire con la nozione saussuriana di "arbitraire du signe", che è una caratteristica del "lien unissant le signifiant au signifié", cioè la qualità d'una funzione, come Saussure intende appunto "le signe linguistique". Creandosi processualmente, questo crea al tempo stesso le due facce sotto le quali si manifesta: un significato e un significante.
E invece Casati (ma è lungi dall'essere solo) attribuisce a Saussure una delle due forme tradizionalmente prese da una cattiva idea: l'idea che la lingua sia una nomenclatura delle cose. Proprio quella (ed è una beffa) che Saussure aveva privatamente cercato di estirpare dalla testa dei suoi quattro studenti, giustamente consapevole che dalla testa di certi filosofi (e se ne hanno sempre nuove prove) fosse impossibile farlo: "Pour certaines personnes la langue, ramenée à son principe essentiel, est une nomenclature, c'est-à-dire une liste de termes correspondant à autant de choses... Cette conception est critiquable à bien des égards. Elle suppose des idées toutes faites préexistant aux mots...; elle ne nous dit pas si le nom est de nature vocale ou psychique...; enfin elle laisse supposer que le lien qui unit un nom à une chose est une opération toute simple, ce qui est bien loin d'être vrai".

(Si potrà poi flebilmente sussurrare qui che farebbe la figura di un equino lo studente che, interrogato sul tema dell'arbitrarietà saussuriana, provasse ad argomentarla servendosi dell'esempio della variabilità interlinguistica delle designazioni del cavallo? Darebbe infatti prova di non avere chiaro il problema, di confondere fattispecie storiche - di cui, volendo, si potrebbe far carico a Babele - con una questione teorica - o, se si preferisce, metafisica. Lo si dovrà spiegare ai filosofi? Si dovrà spiegar loro che, anche se la designazione del cavallo fosse unica per tutte le lingue del mondo, passate, presenti e future, la tesi saussuriana dell'"arbitraire du signe" resterebbe intatta? Che, per converso, la variabilità di designazioni non è invocabile come prova sperimentale a suo favore né, a dire il vero, a favore di una qualsiasi tesi convenzionalista?)

9 luglio 2009

Il nuovo che avanza

Lo conosco da qualche anno: è un "arcudaro". Era poco più di un bambino: ma serissimo. Saliva e scendeva per le ripide scale alla guida d'un mulo carico di vettovaglie e di bagagli per i residenti stagionali: tutti istruiti, tutti animalisti, qualcuno, naturalmente, nudista. Deposta la soma, sul mulo, capitava di vedercelo anche in groppa. O, in versione marina, di vederlo scorrazzare con un piccolo fuoribordo, destinato, a noleggio, ai giri dell'isola di visitatori occasionali: mediamente istruiti, qualcuno animalista, pochi, naturalmente, nudisti. "Ciao, Bartolino". "Ciao": così da qualche anno. Stagione dopo stagione, è diventato un giovanotto, serissimo. Lo incontro: "Ciao, Bartolino". "Salve".

[V. il post Intolleranze (2), del 20 maggio 2009]

25 giugno 2009

Piana. O piatta?

"Ho scritto un libro. Quel che un amico mi rimprovera, con dolcezza e anche simpatia, è che il dettato sia chiaro. Si capisce tutto. «Non devi aver faticato molto» mi dice con indulgenza. Rispondo che, al contrario, ho faticato moltissimo, che ho scritto e riscritto pagine infinite volte, poiché se avessi dato ascolto alla mia natura tutto sarebbe rimasto nel vago e nell’oscuro. «Non ami gli esperimenti» insiste l’altro. «No,» dico «l’operazione sperimentale, ogni italiano, colto o no, la compie sempre naturalmente, ‘parlando’». Non è un mistero che noi, oltre all’accento del dialetto natìo, mai abbandonato, siamo propensi ai modi gergali, agli anacoluti, al rovesciamento delle proposizioni, a creare (secondo il senso che vogliamo dare al discorso: placido, sentenzioso, indignato, perentorio, eccetera) una sintassi particolare. È ciò che fa il sale delle nostre conversazioni, dove spesso cinque o sei persone parlano tutte assieme e «si capiscono». Raramente terminiamo una frase stimando a un certo punto che il resto sia superfluo. Parliamo da impressionisti, sempre esagerando per farci capire meglio, sempre rinculando per saltare meglio l’ostacolo logico, aiutandoci con tutto fuorché con la sintassi."
Sono parole di Ennio Flaiano: del 1970. E sono gustose, come un'acquavite che invecchia bene: ma invecchia e ci dice di tempi dell'italiano e dell'espressione italiana che, a loro modo, sono mutati. Chissà come reagirebbe oggi Flaiano ai Camilleri e ai Baricchi, accorgendosi che, anche a proposito di modi gergali e di sintassi particolare, viene sempre un momento in cui la realtà supera la fantasia del satiro, soprattutto se solitario. E che ci si può pascere, contemporaneamente, di modi gergali, di illogicità compositive e di una sintassi che, col pretesto di diventare piana, ha finito per essere piatta.

23 giugno 2009

Bolle d'alea (7): Benveniste, Bolelli


"Ceux qui découvrent dans d'autres domaines l'importance du langage verront ainsi comment un linguiste aborde quelques-unes des questions qu'ils sont amenés à se poser et ils apercevront peut-être que la configuration du langage détermine tous les systèmes sémiotiques. À ceux-là certaines pages pourront sembler difficiles. Qu'ils se convainquent que le langage est bien un objet difficile et que l'analyse du donné linguistique se fait par des voies ardues". Émile Benveniste apriva così nel 1966 i suoi Problèmes de linguistique générale.
Dodici anni dopo, commemorando tra i Lincei lo studioso francese, Tristano Bolelli ricordava questo passaggio e aggiungeva una nota personale: "Più tardi [Benveniste] dichiarò ad un gruppo di suoi attenti ascoltatori: «La linguistica diventa sempre più difficile»".
Le parole di Benveniste sono un'orgogliosa rivendicazione (in quei frangenti, possibile; oggi, naturalmente, molto meno). La difficoltà, dice Benveniste, esalta l'oggetto di studio e la ricerca. C'è da chiedersi se quelle che gli attribuisce l'attento ascoltatore e se la stessa attribuzione siano sulla medesima vena o se non siano un'insinuante interpretazione à rebours. C'è da chiedersi insomma se il difficile di Benveniste par lui-même e quello del Benveniste di Bolelli abbiano lo stesso valore, dietro il fatto (si direbbe linguisticamente banale) che la parola è la medesima. Qual è il sistema però o, forse meglio, qual è il contesto intellettuale in cui è inserita?
Il problema linguistico che qui si pone sarà difficile nel senso di Benveniste o in quello, ragionevolmente diverso, di Bolelli?

22 giugno 2009

Sprachwissenschaftler


Sprachwissenschaftler: per essere conseguente coi luoghi, interrogato a proposito di se medesimo, così disse un giorno Apollonio, da autentico pivello, a un più maturo e sorridente studioso di storia. Benevolmente didattico, nei tre mesi in cui lo frequentò, costui usò poi la sua ingenua autodefinizione per prenderlo in giro: Apollonio gliene è ancora grato.
Andò poi così, tuttavia, almeno socialmente: e certo c'è del comico in tutto ciò. A sua discolpa Apollonio può solo invocare, confessandola qui, una sua antica convinzione.
Ammirevole, c'è chi è linguista, si sente ed è socialmente reputato tale perché trasmette al mondo l'interiore convinzione che caratterizza l'esperto: la capacità, se opportunamente interrogato (anche da se medesimo), di dare la risposta giusta. Beh! Se non proprio la giusta (che sarebbe dogmatica arroganza) diciamo quella più vicina alla giusta, compatibilmente con lo stato delle conoscenze, rappresentato dalla sua erudizione e dalle biblioteche cui riesce ad avere accesso.
Sin dal dì di quel comico Sprachwissenschaftler, Apollonio sapeva però di non essere destinato a tanto: osava dirsi linguista per la bizzarra opinione (che ha conservato) che è tale chi su lingue e linguaggio si fa di continuo domande e il più delle volte (pretendere sempre sarebbe immodesto) non trova risposte.

14 giugno 2009

La Commedia e un'odissea: antonomasie

Un viaggiatore (che presumibilmente gode di un titolo di viaggio di favore, per via dell'appartenenza a una corporazione) in treno, da Brescia a Milano, con grande ritardo e qualche scomodità. Contributo alla mitridatizzazione dell'espressione linguistica italiana, il giorno dopo scrive sul suo giornale che il suo trasferimento da casa al lavoro (o viceversa) è stato "un'odissea".
È un fatto di lingua e sono fatti di lingua (lo si sa) quelli di cui si diletta questo blog, dove non ci s'indigna e non si stigmatizza. Si sorride, al massimo, perché ci sono poche cose che fan sorridere più dei fatti linguistici (e forse nessuna: ma non val la pena d'essere assoluti in proposito, per non diventare ridicoli). E dove, soprattutto, quando sembra si parli d'altro, è solo per farne pretesto di un rinnovato incontro galante con la musa di Saussure, perché nulla è più divertente di corteggiarla, di tanto in tanto, in modo obliquo.
Se dunque i due lettori di Apollonio chiedessero a un filologo come mai quel viaggiatore s'esprime come fa (muovendoli al sorriso col collasso concettuale di una peripezia decennale ridotta a designare la meschinità oraria che designa), si sentirebbero rispondere che lo fa per via d'antonomasia.
Il nome comune odissea, per dire "viaggio pieno di incomodi e di contrattempi", passa infatti (e giustamente) per un'antonomasia, allo stesso titolo con cui passano per antonomasie un mecenate, un ercole, una messalina e così via.
Sono nomi divenuti comuni a partire dalla qualità di propri. Ed è naturalmente un nome proprio il modo con cui si designa un'opera dell'ingegno, come l'Odissea, sia o non sia tale modo quello decretato come titolo dal suo eventuale autore.
La risorsa, lo si capisce, è preziosa. Alla bisogna, serve a far crescere la dotazione dei nomi comuni di una lingua. La mole dei dizionari parrebbe dire che sono già tanti. Ma, si sa, non sono mai abbastanza, per le esigenze dell'espressione umana, soprattutto per quelle che si pretendono "intelligenti", avrebbe detto Musil: e non è piena di "intelligenza" la prima pagina di un giornale?
E poi immaginino i due lettori la soddisfazione che procura il dire, mettiamo, "Presepe o non presepe, non facciamo per favore di queste feste un nataleincasacupiello", "La vita familiare di quella poveraccia fu un livido seipersonaggincercadautore" o, più piccante, "Ferrando ama Dorabella? Si prepari a vivere un delizioso cosìfantutte".
L'aspetto di gustosa bizzarria della questione su cui Apollonio vuole richiamare l'attenzione non consiste tuttavia nel cogliere, dietro la stantia corrività di antonomasie come un'odissea, il fresco straniamento del nuovo conio antonomastico.
Consiste invece nel fatto che, se di nuovo si interrogasse lo stesso filologo a proposito di la (Divina) Commedia, chiedendogli ragione di questo nome con cui si designa il poema dantesco da molti secoli (ma senza che l'autore si sia mai pronunciato in proposito), ci si sentirebbe ancora una volta rispondere che lo si fa per via d'antonomasia.
È un'antonomasia infatti quel nome comune, come appunto una commedia, che prende le proprietà designative del nome proprio: la Commedia (per antonomasia). E, per passare da un'opera dell'ingegno a un essere umano, è un'antonomasia, per es. , il Cavaliere: il modo con cui (alternandolo col nome proprio) la stampa oggi designa il Presidente del Consiglio dei ministri italiano: da un cavaliere a il Cavaliere (per antonomasia).
Il circuito dell'antonomasia, l'ha chiamato allora Apollonio, in un lavoretto comparso tempo fa, sotto il nome (vero o falso?) con cui egli circola per il mondo.
Col determinante favore della sintassi (lo testimonia la presenza di alternanti articoli), un circuito di nomi propri che diventano comuni (l'Odissea che diventa un'odissea) e di nomi comuni che diventano propri (una commedia che diventa la Commedia). Un circuito, i cui percorsi conversi la scienza del linguaggio designa con lo stesso termine: l'uno e l'altro, antonomasie.
Una terminologia da incoscienti, parrebbe di dovere dire, e senza cura per gli incidenti che procura la contraddizione, che è mortale per chi non sa capirla, feconda altrimenti. Perché nulla ha più potere rivelatore di un'incoscienza e d'una contraddizione terminologica. Apollonio ha il sospetto infatti (e qui lo ribadisce) che la ragione di un termine unico ci sia.
Le converse antonomasie sono infatti e semplicemente le due corsie dell'unica strada su cui, con moto perpetuo, la lingua spedisce i suoi nomi propri verso il destino di comuni e i suoi nomi comuni verso il destino di propri: un'incessante trasformazione di un punto di partenza in punto di arrivo e di un punto di arrivo in punto di partenza. Nel moto e nel processo, crea così (e da sempre) tutti i nomi, propri e comuni, che mette poi in bocca a quell'essere vivente "intelligente" che, senza capirla, la parla.

13 giugno 2009

Lingua loro (13): "odissea"

...ovvero "Torino, Vercelli o addirittura Zurigo".
"Mettete che ci foste anche voi, ieri mattina, sul treno assieme a noi, arrivati a Milano tre ore dopo il previsto (e per fortuna abbiamo perso solo la pazienza e non anche le coincidenze, come è toccato a molti nostri compagni di sventura diretti a Torino, Vercelli o addirittura Zurigo)..."
Il brano è tratto dall'articolo Guasti e 3 ore di ritardo. Odissea sull'Eurostar di Luca Angelini, comparso nell'edizione del Corriere della Sera.it, on-line il 13 giugno 2009. Esso illustra (e meglio non si potrebbe) come tutto sia relativo, lo spazio non meno del tempo, e come sia quindi relativo il concetto di odissea, che discende appunto da un'operina adespota (e solo attribuita) in cui, come è noto, spazio e tempo fecero il loro modesto debutto sulla scena della cultura occidentale.
La vaga Citera di Apollonio, come una deliziosa e leggera île flottante, si è ancorata addirittura a quella città lestrigonia: egli viaggia sovente e sopporta cretinamente (cioè cristianamente, a credere all'etimologia) ritardi italiani e svizzeri (non si creda che non ci siano) e loro conseguenze sulle corrispondenze. Si sente quindi autorizzato a definirsi un ulisside (e non lo sapeva).
Gestisse una società aerea, navale o ferroviaria, chiederebbe però un sovrapprezzo ai viaggiatori che si rivelassero gazzettieri (invece di offrire loro sconti e biglietti gratuiti), come tassa preventiva, in caso di odissea, sulla confezione firmata (e per altri versi, s'immagina, remunerata) delle conseguenti immancabili omeriche sciocchezze (à suivre).