19 gennaio 2006

Eva fa peccare Adamo

Le etichette grammaticali sono utili strumenti classificatori. Se incautamente adoperate, però, esse possono produrre lamentevoli abbagli: soprattutto per chi dimentica la lezione saussuriana dell’arbitrarietà del segno. Si tratta di lezione che chi si occupa di linguaggio dovrebbe sempre tenere presente e considerare vera anzitutto per la terminologia della propria disciplina, prima ancora di parlarne a proposito delle parole d’uso comune.
L’etichetta di causativo è proprio una tra le tante pericolose, una fra quelle, cioè, che vanno rese asettiche e sterilizzate prima dell’uso, perché nel caso contrario rischiano di rendere infetto ogni sviluppo analitico che se ne serve.
Se si osserva la proposizione Eva fa peccare Adamo e la si mette in rapporto con Adamo pecca, si ha la giusta impressione che tutto quel che dice la seconda sia contenuto nella prima e che la prima contenga inoltre qualcosa in più. Se si vuol dire che cosa sia questo qualcosa in più, immediata si presenta allo spirito l’idea che l’una, rispetto all’altra, ci presenta la ‘causa’ del peccare di Adamo e che tale causa è Eva. Quest’idea è tanto chiara e repentina, da non lasciare il tempo per rendersi conto che essa è un’interpretazione. Certamente, un’interpretazione corretta, ma pur sempre solo un’interpretazione. Osservare che Eva fa peccare Adamo ci presenta la ‘causa’ del peccare di Adamo non ci dice nulla di preciso sul come è fatta la proposizione: ci dice quel che essa significa o, meglio ancora, quel che a noi pare pertinente di quel che noi pensiamo che essa significhi.
Anche
(1) Adamo pecca per via di Eva
(2) Eva è la causa / la ragione / il motivo del peccare di Adamo
(3) Eva provoca / determina il peccare di Adamo
ecc.
rientrano nella classe delle proposizioni alla quale si può attribuire un’interpretazione simile, se non addirittura identica, a quella attribuita a Eva fa peccare Adamo. Eppure nessuna le è sperimentalmente eguale. Ciò è irrilevante? No di certo. Come non è irrilevante l’osservazione che ne consegue. Un’ampia indeterminatezza caratterizza la relazione tra un’interpretazione e una forma. Avere identificato quel che una proposizione significa (pur ammettendo che non si tratti di pura illusione) ci dice pochissimo, se non addirittura nulla sul come quella proposizione è fatta. E sarebbe un singolare paradosso pensare che, determinatane l’eventuale interpretazione, quella proposizione sia trascurabile quanto alla sua forma: infatti, chi può negare che è proprio in funzione di quella forma, e non di un’altra qualsiasi, che gli si presenta allo spirito quell’interpretazione?Dire quindi che l’uso di fare in Eva fa peccare Adamo è causativo, nel senso che esso qualifica un’interpretazione correlata con la ‘causa’ di qualcosa (un evento, uno stato ecc.), ci fa avanzare modicamente sulla via della descrizione di tale uso. E la situazione può solo peggiorare se, fissata come punto di partenza quest’interpretazione e intesa come necessaria la relazione tra l’etichetta e il fenomeno, si comincia a speculare sui modi della causatività (come se questa esistesse in quanto categoria semantica indipendente), delle sue gradazioni e dei fantasiosi riflessi di tali gradazioni nella sintassi delle lingue: un’attitudine per niente inattuale nel panorama contemporaneo degli studi.

14 gennaio 2006

Nomen, non me! (2)

Dalle cronache della linguistica in Italia e dintorni (un maestro longobardo e il suo più illustre scolaro, nella foto. Elle, certamente, la disciplina):

Villano scario:
contr'elle-même.




[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]

7 gennaio 2006

Nomen, non me! (1)

Dalle cronache della letteratura in Italia (sic transit... ovvero: due nomi di un'ombra):

Ora, mortali bave,
che pallor t'iberna?






[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]