9 marzo 2008

Cruciverba

Uno schema di parole crociate è “un sistema di contrainte[s] primarie in cui la lettera è onnipresente ma da cui il linguaggio è assente”: sono parole di Georges Perec e stanno quasi in conclusione del libro di Stefano Bartezzaghi, L’orizzonte verticale. Invenzione e storia del cruciverba, Einaudi, Torino 2007, di cui Apollonio ha avuto il piacere di discutere a Palermo il 23 febbraio scorso, alla presenza dell'autore.
Per Bartezzaghi, le parole di Perec sono “una definizione di impareggiabile pertinenza”, degna (c’è da pensare) di stare tra quelle proposte in un cruciverba per la sequenza di lettere “CRUCIVERBA”.
Il linguaggio, assente dal cruciverba? Più che un paradosso, sembra una voluta falsità, messa lì solo per stupire. Invece Perec ha ragione e Bartezzaghi fa bene a citarlo.
Cos’è un cruciverba? Un insieme di assi cartesiani interconnessi. Ciascuna coppia verifica al suo incrocio, quindi in corrispondenza dello zero, l’appropriato valore combinatorio di una lettera. Ovviamente, non si tratta minimamente di una proprietà specificamente linguistica. Si tratta (ed è ovvio che sia così) dell’effetto di una convenzione ludica. Tale convenzione sfrutta la scrittura e la scrittura (contrariamente a quanto si è indotti a credere in un modo di alfabetizzati) è anch’essa ben lungi dall’essere una proprietà intrinseca del linguaggio. Quella alfabetica (che è, in ultima istanza, l’invenzione fondamentale cui fare rimontare l’invenzione del cruciverba) rappresenta i suoni, che in modo impercettibilmente continuo si susseguono variando sulle labbra dei parlanti, segmentandoli in unità arbitrarie disposte serialmente.
Nel cruciverba, si decide convenzionalmente di proiettare queste serie di rappresentazioni di una realtà linguistica ricondotta a una serie discontinua di relazioni combinatorie da sinistra verso destra (ed è l’orizzontale) e dall’alto verso il basso (ed è il verticale). Il tipo di relazione (si badi bene) è esattamente il medesimo (ed è quello istituito dalla scrittura alfabetica, appunto) ed è solo l’orientamento arbitrario del cruciverba che ne istituisce l’ortogonalità.
In linea di principio, dato un insieme di lettere, costruire un insieme interconnesso di coppie di assi cartesiani del genere sarebbe un’attività infinita e quindi di nessun interesse, se appunto (come dice Perec) non intervenisse la contrainte. Ed è questa restrizione che avvicina il cruciverba non al linguaggio ma alle lingue (i due concetti infatti non coincidono affatto), anzi ad una specifica lingua: l’inglese, l’italiano, il francese e così via.
La verifica del valore appropriato della lettera che si trova all’incrocio dei due assi cartesiani si fa infatti in funzione di due entità che travalicano ovviamente la singola lettera: di due parole, due parole riconoscibili come parti del lessico di una lingua.
Ora, per un linguista, sapere che cosa sia una parola è veramente un problema. Anzi, la natura della parola è per il linguista un autentico mistero, uno dei tanti del linguaggio umano (e a chi non è linguista ciò potrà sembrare prova della pazzia o piuttosto della stupidità dei linguisti: non si saprebbe dargli torto).
Per intuire la portata della questione, però, non serve tediarsi con l’elenco anche approssimativo della miriade di aporie che ciascun tentativo di catturare un concetto di parola provoca nei trattamenti scientifici e tecnologici del linguaggio. Basterà riflettere un momento sul fatto che il normale comportamento linguistico umano è lungi dall’essere costituito da semplici parole e, a pensarci bene, le parole sono il risultato di un processo di astrazione, consapevole, che prende determinati pezzi dai discorsi che continuamente gli esseri umani producono per esprimersi e per comunicare e, riconosciuta a tali pezzi una qualche stabilità, li colleziona. L’operazione, a dire il vero, è in sé tutt’altro che facile e immediata. Lo si capisce quando si tenta di farla ascoltando l’eloquio di chi parla una lingua a noi ignota: riconoscervi le parole è impresa disperata. Il vocabolario è nella nostra cultura l’oggetto più immediatamente e intuitivamente associabile alla lingua. In realtà, esso è un oggetto tecnologicamente e ideologicamente molto complesso e per nulla immediato, dal punto di vista linguistico.
Si lascino tuttavia tali astrusità e si torni al cruciverba. Cos’è allora una parola nel cruciverba (e, in fondo, anche fuori di esso)? E’ un luogo comune linguistico, un cliché, qualcosa che (senza che si sappia il come e il perché) si riconosce come appropriata e familiare. Insomma ciò cui si è accostumati, uno dei tanti solchi in cui giace e si agita la nostra mediata consapevolezza, inconsapevole di essere mediata e, di conseguenza, inconsapevole di sé.
La contrainte del cruciverba, insomma, non è una di quelle contraintes di cui di tanto in tanto si mettono a caccia le scienze dell’uomo quando sognano di fare della ricerca fondamentale: quelle contraintes, insomma, che, limitandolo, fanno di un essere umano un essere umano (senza contrainte, lo si capisce, si sarebbe dio o, più probabilmente, il nulla). No, si tratta della banale contrainte sociale che ammette certe cose e ne esclude altre in funzione di una normalità scambiata, normalmente, per la sola possibile, ma che la sola possibile non è mai.
La prova di quel che si sta dicendo?
“Sono buoni soltanto in Svizzera”: ALBERGHI.
“Celebre per la coda del suo cane”: ALCIBIADE.
“Al solo vederla deve batterci il cuore”: BANDIERA.
“Dea della castità”: DIANA.
“Non accordava mai il violino”: PAGANINI.
No. Non si tratta delle definizioni (con le relative soluzioni) di un cruciverba che Apollonio si è trovato sottomano. Si tratta invece di alcune sottises (tra le centinaia ben appropriate) tratte allo scopo e solo dopo un minuto di consultazione dal Dictionnaire des idées reçues di Gustave Flaubert. Con qualche decennio di anticipo (non si è intelligenti per nulla, del resto) sull’invenzione del cruciverba negli Stati Uniti, lo scrittore francese individuava così (e solo a margine della sua titanica impresa di rappresentare la stupidità moderna) la contrainte di cui parla Perec.
E la contrainte della parola come luogo comune e della definizione come studiata variatio nei modi di alludere alle proprie ed altrui sottises è quanto nel Novecento avrebbe fatto diventare fenomeno di massa, fenomeno comunicativo e di costume di primaria grandezza il gioco, in sé deliziosamente demente, di combinare parole su assi cartesiani, valorizzandone le lettere in incrocio sulla base di un lessico: facendolo diventare, per dirla con Robert Musil, una rappresentazione perfetta di “stupidità sostenuta” o “intelligente”. In altre parole, una prova dell’adeguatezza personale ad un opportuno livello di gestione del luogo comune. E allora, quale secolo più appropriato al cruciverba del Novecento? Le invenzioni non avvengono a caso: quando arrivano, vuol dire che sono mature.
La storia dell’epifania e dell’affermazione di questa faccetta dello spirito del tempo è quanto racconta appunto il bel libro di Stefano Bartezzaghi, che diverte istruendo chi, come Apollonio (che non ha onta ad ammetterlo), non s’era mai fermato a riflettere su quegli schemi di quadratini bianchi e anneriti se non per risolverli riempiendoli di lettere. E perciò non sospettava nemmeno che essi nascondessero una vicenda tanto rivelatrice, tanto socialmente rilevante come quella presentata da Bartezzaghi, con capacità di narratore e storico puntiglioso e preciso.
Su un tema in apparenza così futile e disteso, l’autore compone un autentico controcanto della storia culturale dell’Occidente nel Novecento. Rivela così un intreccio nascosto, il cui scenario non sono campi di battaglia, stanze dei bottoni, biblioteche o laboratori scientifici, ma tinelli piccolo-borghesi e vagoni di metropolitane colme di pendolari, come Bartezzaghi sottolinea con acutezza e puntiglio. Luoghi emblematici delle sorti della nostra civiltà.