28 febbraio 2009

Trompe l'oeil

A specialisti e storici dell'arte si chiederà di dire donde e quando venne fuori e poi si fissò il nome composto trompe l'oeil  come designazione d'una maniera di dipingere (e dei suoi prodotti) che, dall'antichità ai giorni nostri, "inganna ad arte": così il titolo di una mostra che si terrà all'Opificio delle Pietre Dure di Firenze nel prossimo autunno (Vedi).
Chi si diletta di lingua troverà in ogni caso deliziosa la composizione nominale non-endocentrica e degna dell'attitudine che designa e dei suoi divertenti e inquietanti effetti.
Inquietudine che comincia già dall'acquisizione della consapevolezza che dell'oeil che è ingannato ad arte (ma ci sono inganni che non siano ad arte?) il composto non dichiara (e giustamente) la proprietà. Ad Apollonio la riflessione è stata suscitata dalla relazione che sul trompe l'oeil Omar Calabrese ha tenuto ad un convegno palermitano di qualche giorno fa. L'occhio è quello di chi guarda, diceva giustamente il semiologo e rilevava con acutezza l'eccezionalità di una designazione che coinvolge il destinatario di un processo comunicativo, dichiarandolo ingannato. 
Ma (si è permesso di fargli notare Apollonio) chi è il primo destinatario, il primo a guardare (e già con l'occhio della mente) ciò che si configura progettualmente come un trompe l'oeil? Non è forse colui cui appartiene la mano che, si dice, lo creerà? E come l'orecchio è l'organo d'elezione della facoltà di linguaggio e senza orecchio (della mente), come ben sapeva Saussure, non ci sarebbe lingua, senza l'occhio (della mente) ci sarebbe la facoltà di rappresentazione che guida la mano dell'artista? 
L'occhio guida insomma la mano nella difficile via che la conduce ad ingannarlo. Si presta volentieri alla menzogna che la mano costruisce. Anzi collabora alla sua costruzione, se non la guida. Proprio come l'occhio del primo che legge ciò che la mano scrive guida la mano nell'artificio dell'inganno della scrittura. Il segreto di questa relazione (che è forse il solo segreto della creazione: e per essere creatori ci vuole occhio, come per parlare, per suonare e per cantare ci vuole orecchio) si cela dietro una scoperta e benevola menzogna nel caso del trompe l'oeil che si dichiara onestamente come tale. In tutto il resto, nel generale inganno ad arte dell'arte (fare umano che mira alla perfezione), il segreto sta più celato, la menzogna più sardonica e meno scoperta.

11 febbraio 2009

Quanti figli ha Fabrizio?


Fabrizio Corbera, principe di Salina, è il protagonista di sei delle otto Parti che compongono il romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: quanti figli gli vengono attribuiti in tale romanzo? È una domanda che non ci si stupirebbe di sentir porre al concorrente di un quiz televisivo (e chissà che non lo sia già stata), con in gioco la vincita di una cospicua somma di danaro (data una qualche difficoltà nella risposta): esempio perfetto, quindi, di un accostamento nozionistico (o, al massimo, erudito) alla famosissima opera, che col pretesto di una quisquilia sarebbe buono al massimo per una rappresentazione parodistica della cultura.
Come non poche altre questioni di dettaglio che hanno a tema Il Gattopardo, come forse tutte le immaginabili, anche la determinazione del numero dei figli del Principe, se opportunamente considerata, prende però inattesamente l'aspetto di un autentico problema interpretativo dell'insieme dell'opera e, congiuntamente, della sua struttura (narrativa). Essa schiude infatti prospettive inquietanti, almeno per quei lettori del romanzo che pretendono di avere una qualche consapevolezza di ciò che leggono e provano a impegnare nella loro lettura un'intelligenza almeno pari a quella di cui fanno credito al testo.
Ebbene, di figli di Fabrizio, da subito se ne vedono alcuni ma il loro numero esatto non è determinabile. Ci sono due maschi, narrativamente dotati alla svelta di un nome oltre che di una presenza scenica: Paolo e Francesco Paolo. C'è una quantità imprecisata di femmine, la cui precoce e cumulativa presenza sulla scena è da valutare in funzione dell'importante scaglionamento e dei modi con cui ciascuna di loro è narrativamente dotata di un nome. Come i fratelli, Concetta è già tale abbastanza presto e lo è perché, nel ricordo del padre, esplicitamente nominata dal Re, come sua figlioccia, in occasione della visita del padre. Carolina, che porta il nome della terribile nonna paterna, si vede attribuito tale nome sullo scorcio della Parte prima, grazie a un comico incidente che accade alla sua acconciatura, mentre si trova a tavola. Per essere nominata, Caterina deve invece attendere che si giunga ben avanti nella seconda Parte e, quando lo è, lo è solo perché inserita nell'elenco degli occupanti di una carrozza.

Si è poi rapidamente a conoscenza dell'esistenza di un terzo maschio, con la dettagliata menzione dell'assente Giovanni. Ma passano poche pagine e d'improvviso si coglie Fabrizio esclamare: "«Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: 'Gesummaria!'. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. E' giusto questo?»". 

Sette figli? Tra coloro che non hanno bellamente trascurato il dettaglio, non c'è stato critico che, rilevata quella che a quel punto gli è parsa un'incongruenza, non abbia detto che si tratta di un esemplare indizio (e già sul principio del romanzo) di accuratezza compositiva solo approssimativa: prova di un'opera cui fece difetto l'estrema cura del suo autore, che fu peraltro, narrativamente, un cretino di talento, per nulla un professionista della "scrittura creativa" (che oggi addirittura s'insegna in scuole e università) ma solo un autore della domenica. 

L'aporia sul numero dei figli di Fabrizio (i lettori attenti del romanzo lo ricorderanno) si risolve nelle ultime pagine, dove si menziona d'improvviso l'esistenza di una quarta figlia: sposata a Napoli, si apprende. Del resto, mai prima era stato esplicitamente detto, nel corso della narrazione, che le figlie del Principe fossero solo tre. Anche tale scioglimento viene però considerato dai critici indizio a carico dell'autore: è un rattoppo, vien detto, e così non si fa nelle opere portate a termine a regola d'arte. Ma un rattoppo di cosa (verrebbe fatto di chiedere), se i "sette figli" erano una svista? Se c'è un rattoppo, c'è consapevolezza. E se c'è consapevolezza, il dettaglio non sarà privo di valore.

A nessuno è peraltro mai venuto in mente di mettere in relazione il piccolo ed innocente enigma con il sentimento giocoso e beffardo che Lampedusa pare avesse della composizione letteraria. Se si tratta di un gioco, il gioco dell'autore ha colpito il segno: la seriosità boriosa e pedantesca dei critici l'ha trasformato in beffa ai loro danni. 

Meglio di ogni altro commento, parla il commento che il testo fornisce a se medesimo. Con significativa scelta onomastica, la settima figlia si chiama Chiara e la menzione di quel nome, che chiarisce un dettaglio di rilievo narrativo in apparenza scarsissimo, ricorre appunto sul finire del romanzo. In quella Parte ottava che esplicitamente confonde in modo irreparabile ciò che fino a quel momento era stato rappresentato come chiaro nella mente del solo personaggio principale rimasto vivo e sulla scena, Concetta. E nel contempo chiarisce implicitamente al lettore, che vuole intenderle, non poche cose e di primissimo piano. Per esempio, cosa celava l'idillio tra Angelica e Tancredi cui s'era consacrato, proprio al centro dell'opera, l'incanto di una descrizione. Incanto chiarito, appunto, come il nome Chiara scioglie il mistero (in apparenza futile) dell'esatta determinazione numerica della prole di Fabrizio: piccola trappola per il lettore supponente, piccolo indizio per il lettore circospetto. E spaventato quanto divertito da una macchina narrativa labirintica (come il palazzo di Donnafugata) e che non lascia scampo (come la vita): una delle più perfette e sardonicamente giocose mai disposte dalla letteratura in lingua italiana.

9 febbraio 2009

Lingua loro (11): "fine vita"

Sui fatti di cronaca Apollonio ha le sue opinioni ma crede che a stento tali opinioni interessino lui medesimo. Figurarsi quanto immagina possano interessare i suoi due lettori. Se lo seguono, essi lo fanno perché forse condividono con lui una curiosità (nel contempo, divertita e angosciosa) per le minuzie linguistiche che gli capita di osservare e certo non perché attribuiscano valore qualsivoglia alle sue opinioni. 
La minuzia di oggi è fine vita e non ci sarà nessuno che non intenderà da quali accadimenti l'osservazione prende spunto: l'opinione di Apollonio sull'occasione è irrilevante. Il dato fine vita resta. 
Fine vita è un nome composto comparso in italiano da qualche tempo. È ragionevole ipotizzare che sia nato in un contesto medico (o, come si dice adesso, per star sull'onda, medicale). Oggi, una veloce ricerca in rete lo rivela attestato soprattutto in documenti giornalistici e ufficiali: alla sua diffusione hanno dunque collaborato, come sovente accade, due facce del potere linguistico della stupidità, di cui tempo fa si è detto. 
C'è da guardarsi bene dall'imporre a chicchessia il sunto della dottrina linguistica che concerne i composti, considerato anche il fatto che essa rimonta a epoche remotissime ed è uno di quei temi eruditi con cui si fa presto a fare i dotti e a impressionare la gente: c'entra addirittura il sanscrito. Non c'è neppure da spendere troppe parole per dire ciò che è chiaro a tutti: è un eufemismo. Anche le ragioni per le quali nasce un eufemismo sono chiare. Per soprammercato, un eufemismo è sovente giustificato - nella falsa coscienza che se ne ammanta - anche da motivi d'ordine referenziale: "Manca la parola precisa per dire quella cosa specifica: l'altra, che pure ci sarebbe, non dice ciò che qui si vuol dire". Quante volte si sono sentiti argomenti come questo? E c'è poco da fare. Le cose vanno così né c'è da menarne scandalo. 
A parere di Apollonio, ciò che rende notevole fine vita è più sottile. "Dignità del fine vita", si legge in una pagina Web del Ministero della Salute e in radio, sui quotidiani si ode e si legge regolarmente "il fine vita". Fine vita, per chi lo ha coniato, per chi lo usa, non è dunque di genere femminile, benché il composto sia destinato a designare, si dice, la fine della vita, la fase finale della vita. È invece maschile, come è spesso in italiano la forma di parole non marcate quanto a genere, di parole (per dir così) neutre. Del resto, il modello cui fine vita si conforma è al tempo stesso illustre e popolare: fine Ottocento, fine estate, fine partita
Ciò significa che in fine vita la menzogna (pietosa? pelosa?) dell'eufemismo ha potuto spingersi fin dentro una categoria grammaticale. Col maschile neutro, essa evita anche la pericolosa evocazione di quel genere non neutro che potrebbe accomunare il nuovo composto ai femminili agoniamorte. Per fine vita sarebbe forse già troppo scandaloso, troppo crudo anche il solo fatto d'essere femminile. Al maschile, fine vita storna così il pensiero che, quando si parla di fine vita, di agonia (più o meno lunga), di morte e di niente altro in realtà si tratta. 
Ma forse c'è anche dell'altro e la lingua sta ancora una volta giocando gli stupidi che s'illudono, parlandola, di padroneggiarla. Fa dire loro cose che non immaginano di dire. Con fine vita, non la fine della vita è in questione ma il fine della vita, sussurra insinuante, con il genere, il genio della lingua nel dettaglio del loro eloquio, inducendoli così nolenti e inconsapevoli a parlare egualmente e con che peso di ciò che non vorrebbero nominare: la morte.