30 settembre 2009

La domenica del villaggio

Apollonio non ha visto il film Baarìa di Peppuccio Tornatore (Bagheria, 27 marzo 1956, secondo Wikipedia): capitasse e ne valesse la pena, ne dirà. Nella sua Citera, ne legge però gli elogi in "Quando l'Italia intera si chiamava «Baarìa»", sulla prima pagina del Sole 24 Ore dello scorso 27 settembre, a firma di Gianni Riotta (Palermo, 12 gennaio 1954, secondo la medesima fonte), direttore dell'organo di stampa della Confindustria. Elogi sperticati? Forse, ma con una puntura di spillo, che illustra l'Italia dei campanili (linguistici), e non solo essa, a chi è capace d'intenderla.
Naturalmente, come minuscolo dettaglio, la puntura è impercettibile ai più. Invece, è essa a dare il tono all'edificante articolessa. A suo modo, sottotraccia, la mette anche un po' in salvo dall'onda straripante della retorica. "...faremo il bene tutte le volte che lavoreremo per «Baarìa», la comunità...", vi si legge, per esempio.
"«Baarìa», il villaggio di Bagheria nei pressi di Palermo", scrive infatti a un certo punto il palermitano Riotta, lodando il film del bagherese Tornatore, in un passaggio innocentemente referenziale, all'apparenza. Urta invece così la sensibilità d'ogni bagherese bennato, che (come certo Tornatore: il film ne sarà testimonianza) considera Palermo un informe agglomerato urbano (verso il quale, eventualmente, "si scende") cresciuto irragionevolmente ai margini della sua (un dì?) ridente città. Baarìa, ombelico del mondo, un villaggio nei pressi di Palermo? Velenoso oltraggio di uno di quei volgari borgatari di palermitani.
Per chi lo intende, il particolare svela allora che, sulla scena nazionale, l'articolo è, più convenientemente, un gattopardesco ammiccamento alla Tancredi Falconeri: "mio prode amico", "Di voi... Crispi mi ha detto un gran bene". Tancredi Falconeri, il fortunato ed abile nipote di Don Fabrizio, quello che gli dice, con enfasi, "Saluti, zione, tornerò col tricolore" e che, fatta l'Italia, colloca la sua brillante carriera politica alla sinistra estrema della destra più moderata: c'è una posizione migliore per confezionare edificanti predicozzi domenicali?
Insomma, Sainte-Beuve, caro Proust, aveva ragione ma à rebours: tenerne presente la lezione, serve a leggere ciò che scrivono i giornali, oltre che naturalmente a intendere la letteratura e il cinema. E il buon Principe di Lampedusa, che stava sulla sua scia, della Sicilia e dell'Italia aveva del resto capito tutto.

28 settembre 2009

Bolle d'alea (10): Braque, Jakobson

"Je ne crois pas aux choses, mais aux relations entre les choses": sono parole di Georges Braque. Roman Jakobson le fece proprie in un suo scritto e, a quanto pare, esse erano non di rado presenti sulle sue labbra. Marcano una stagione culturale ormai perenta? Una ragione di più per ricordarle.

24 settembre 2009

Lingue globali

Meravigliose forme dell'espressione umana oggi condannate (loro malgrado) a venir lodate, in un'epoca d'utilitarismo dalla vista cortissima, per essere state, nel contempo, lingue di feroci schiavisti, di famelici eversori di antiche civiltà, di equipaggi di implacabili cannoniere, diventando così lingue parlate (e sarebbe un merito?) in tutti i continenti.
Globale? Dovrebbe suonare insulto, se detto di una lingua e se la vita umana singolare e quella collettiva, che prende il nome di storia, non fossero l'ammasso di violenze inespiate e di deliranti irrazionalità di cui un barbaro non privo d'ingegno disse un dì "a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing".
Per dirlo, si espresse appunto in un idioma che sarebbe divenuto globale e che, nelle sue parole, era ed è rimasto cosa completamente diversa: come ogni lingua, personale e, al tempo stesso e per questa ragione, universale.

19 settembre 2009

Linguistica delle particelle

Per Adamo, resistere a Eva era impossibile: in parallelo, Per Adamo, la resistenza a Eva era impossibile.
Procedendo, il parallelismo cessa, tuttavia: Sì, hai ragione, resisterle gli era impossibile è di nuovo impeccabile (sarà lecito dirlo? Il cielo non ne voglia ad Apollonio).
Non è impeccabile invece *Sì, hai ragione, la resistenzale gli era impossibile (e come escludere un coinvolgimento anche in questa minuzia di un ironico cielo?).
Banale quanto si voglia, l'osservazione getta un minuscolo raggio di luce radente sulla questione della natura morfosintattica delle particelle personali atone italiane (e romanze). Mera morfologia verbale. Come molta altra morfologia, determinata da determinabili interdipendenze sintattiche, naturalmente, ma mera morfologia verbale.

16 settembre 2009

Parole che parlano (1): Glottologia

Graziadio Isaia Ascoli, padre degli studi linguistici moderni in Italia, battezzò così nell'Ottocento la sua disciplina.
Per renderla indubitabilmente e per sempre sua, Ascoli fece l'originale: le diede un nome nuovo. Bisognava reggere il confronto con la millenaria nobiltà di "filologia" e, da parvenu accademico, fece in modo che tale nome paresse quello di un'antica dottrina. "Linguistica"? Troppo semplice e banale.
L'esito fu di palese cattivo gusto. E tale permane. Ha un insopprimibile nonsoché di comico involontario. Sa di pleonastico orpello ed è sempre a rischio di ridondanza.

12 settembre 2009

"Berlusconi fa l'ottimista"

...è il titolo di un articolo comparso su un quotidiano pochi giorni fa, nelle pagine dedicate allo sport. Si parla quindi del presidente di una società calcistica: per i lettori, ciò sia garanzia della distante serietà di questo post. Apollonio non è d'improvviso ammattito e non li sta piombando nell'ennesima noiosa riproposta del tema di discussione più inconcludente e corrivo che l'Italia abbia procurato a se medesima e ai suoi osservatori esterni negli ultimi sessanta anni.
Il costrutto testimoniato da quel titolo pare perfettamente identico, dal punto di vista formale, a quello esemplificato da Alessandro Del Piero fa il calciatore, Valentino Rossi fa il motociclista, Sofia Scicolone fa l'attrice, Andrea Bocelli fa il cantante e così via.
Interpretativamente, Berlusconi fa l'ottimista è tuttavia molto differente da questi esempi e parallelo, invece, a Vittorio Sgarbi fa lo sciupafemmine, Eugenio Scalfari fa il filosofo, Maria Grazia Cucinotta fa la primadonna: 'si atteggia a...', 'si comporta come se fosse...' e non 'esercita la professione di...', 'lavora come...'.
Simpatica curiosità dell'italiano, lingua di imbroglioni e di poeti (senza necessaria disgiunzione tra le due categorie) e quindi atta a mettere alla frusta chi, impettito, fa il linguista e si trova davanti due costruzioni che paiono perfettamente identiche, quanto alla forma, con interpretazioni che, messe a contatto, stridono e possono ispirare maliziose considerazioni culturali e complici sorrisi.
Facile pensare, infatti, che un italiano, per professione, faccia il falegname, il poliziotto, l'avvocato, il medico, il professore esattamente come, mettendo in opera un atteggiamento (che nulla garantisce sia autentico), fa il villano, il sordo e, di nuovo, il professore o il poliziotto. Facile immaginare che un italiano faccia il presidente del consiglio dei ministri, il magistrato o il giornalista come fa il damerino, l'uomo di mondo, il cascamorto, l'esperto di politica internazionale, cioè rappresentandosi, come un guitto, nel gioco sociale.
La differenza interpretativa pone peraltro questioni che non si possono facilmente liquidare come fossero effetti di fattori lessicali e lo si è già intravisto. Ci sono professori, infatti, che come altra gentaglia fanno i professori e ce ne sono altri che, grazie al cielo, salvano l'immagine della categoria (sempre a rischio di risultare odiosa) e hanno attitudini diverse e migliori.
È chiaro d'altra parte che specifici elementi lessicali possono volta per volta indirizzare verso il mestiere, e qualificare una costruzione che si è altrove proposto di chiamare Negotium, o verso l'atteggiamento, nella parallela e distinta costruzione Habitus. Non c'è nome, però, che in un opportuno contesto (non necessariamente scherzoso) non si presti a comparire nel costrutto Habitus.
È un tipico luogo comune pensare di un abitante di Napoli che sia sempre pronto a fare il filosofo: sarà stato questo il caso di Benedetto Croce? Conversamente, col continuo proliferare di nuove professionalità (non s'usa dire così?) e di modi fantasiosi di designare le vecchie, ci si sentirebbe di escludere che una ragazza domani possa fare la minimalista di professione? Per il momento, questo è certo, in Italia e fuori, c'è chi s'accontenta di trarre modesto profitto dall'Habitus.
Del resto, un padre cui la figlia nel primo dopoguerra avesse detto di voler fare la velina avrebbe avuto dubbi sulla sua sanità mentale; oggi, felice, l'accompagna ai provini. A nessuno viene più in mente che chi fa il cafone possa farlo in modo onesto ed onorato come mestiere. E tra i musicisti di un'orchestra c'è chi, per mestiere, fa il trombone e chi fa il violino, mentre tra gli accademici c'è chi fa il trombone e chi fa il leccapiedi: per mestiere? Di più: per vocazione.
Le differenze formali tra i costrutti Habitus e Negotium, però, ci sono e la disparità interpretativa non è il solo carattere che li opporrebbe, mentre tutto il resto li renderebbe identici: la fondamentale serietà della civiltà italiana (del lavoro) è dunque solida, anche se latente, e, per quanto periclitante, l'immagine nazionale può essere ritenuta salva.
Far venire fuori tali differenze, intendere cioè la loro sintassi, i processi attraverso i quali essi si fanno e di cui le diverse interpretazioni sono solo manifestazioni, è affare di una disciplina sperimentale come è la linguistica e quindi domanda che si creino opportune condizioni di osservazione.
Si fa così in tutte le procedure scientifiche, quando si costruisce un esperimento che mira a determinare esattamente i caratteri sistematici di un fenomeno. Capiterà forse di parlarne in una prossima occasione.
La certosina attività di creazione di condizioni di osservazione appropriate agli esperimenti è gran parte dell'impegno professionale del linguista e gli fornisce, inoltre, grandi ragioni di divertimento: certo, l'impegno e il divertimento di chi fa il linguista, non di chi fa il linguista. Beh, insomma, ci si è intesi, di chi, linguista, c'è e non ci fa.

2 settembre 2009

"I luoghi della traduzione"

Si svolgerà tra poche settimane a Verona l'annuale congresso della Società di Linguistica Italiana sul tema "I luoghi della traduzione": il valore metaforico di luoghi nel nesso è lampante (peraltro esso è ampiamente argomentato nella presentazione del convegno). La metafora localista, in linguistica, ha spalle larghe e tradizioni più che illustri: può sopportare bene la nuova estensione.
Del resto, traduzione è anch'essa creazione su base metaforica localista (e non si dovrà dire la medesima cosa di metafora?). La coscienza che con traduzione si stia maneggiando una metafora è naturalmente sbiadita. Si può quindi dire che, come il collo (della bottiglia) e la gamba (del tavolo), la traduzione (linguistica) sia una catacresi.
Combinare tuttavia una metafora localista con una catacresi localista produce una bizzarra reazione: sono gli scherzi della lingua, che è sempre combinazione (cioè sintassi) e mette sempre a rischio gli esseri umani di far figura da apprendisti stregoni.
La metafora di luoghi smaschera, per così dire, la catacresi di traduzione. Traduzione ne viene come riportata al suo grado zero e, per il contraccolpo, anche l'interpretazione di luoghi torna alla sua non-marcatezza. I luoghi della traduzione: la maionese impazzisce; tutto torna alla sua piatta normalità; tutto ridiventa d'improvviso stupidamente luminoso.
L'effetto interpretativo, con la sua ambiguità, è spettacolare e c'è da credere che chi ha proposto un titolo del genere per un congresso di studiosi della lingua abbia le doti di finezza e di umorismo che si attribuiscono di norma ai poeti (e che non dovrebbero ovviamente mancare ai linguisti).
"La tradotta che parte da Torino / a Milano non si ferma più / ma la va diretta al Piave, / ma la va diretta al Piave" cantavano gli Alpini, parlando appunto dei tragici luoghi di epocali traduzioni.
"Il luogo della mia traduzione? Auschwitz", avrebbe forse risposto Primo Levi a chi l'avesse interrogato in proposito, subito dopo il suo ritorno. Ohibò! la nuova Babele, la sede dell'infernale confusione delle lingue. Il cerchio si chiude.
Che la stupidità luminosa del grado zero, in linguistica, sia più rivelatrice dell'intelligente metafora?

1 settembre 2009

Piccoli, periodici malanni

Chi ha amore per la lingua ha da subire, come ogni povero cristo, dei piccoli periodici malanni. Glieli impone il fortunato stare a questo mondo, naturalmente, e il ciclico ripresentarsi, a questo mondo, delle tirate pedanti dei Soloni o pedestri degli Antisoloni, ormai sempre più spesso post-accademici e intrufolati nelle pieghe delle comunicazioni di massa. Per entrare coi loro libri in modeste classifiche di vendita, costoro prendono la parola in nome della cosa più silenziosa che ci sia, la lingua, e, col pretesto e vestendosi d'autorità, pretendono di dire cosa in proposito va fatto o non va fatto: complici oggi case editrici un tempo illustri e recensori compiacenti, perché chiaramente venduti all'andazzo.
In questi mesi, per es., pare vada di moda cavalcare la tigre e proclamare la libera uscita per usi che sono già intrinsecamente liberi e che se ne impipano (per dirla con Manzoni) della dotta riprovazione o della demagogica approvazione di chicchessia. Silenziosi come sono e come sono gli eventi naturali, essi domanderebbero forse all'intelligenza solo d'essere conosciuti, amorevolmente interrogati, ove possibile, spiegati.
Ma ai Soloni e agli Antisoloni, del silenzio della lingua e del suo farsi, cosa importa? Non sono uomini, sono caporali. Sanno come ci si comporta in società, con caporalesca finezza, strombazzano precetti o antiprecetti e provano a trarne anche il massimo profitto, facendone cassetta.
Parrucconi vestiti sempre all'ultima moda, si mettono così alla testa della rivolta delle lingue "giuste e vere" contro le presunte "finte e sbagliate", "sbagliate" anche per la pretesa d'essere corrette. E non capiscono che l'unica lingua finta e scorretta è quella in cui loro medesimi scrivono; e forse, per il linguista, per chi ha veramente amore per la lingua, nemmeno quella, perché il suo genio impersonale si fa beffe dell'interessata furbizia di coloro che pensano di abusarne e ne sono invece implacabilmente smascherati.
Piccoli, periodici malanni: finché si starà a questo mondo, passeranno. Poi, li si passerà ad altri.

Lingua nel pallone (2): Ancora su "attaccare la profondità"


Per le vie brevi, una lettrice che si dichiara lontana dall'attuale gergo degli appassionati del gioco del calcio, curiosa, chiede lumi ad Apollonio quanto alle espressioni che figurano nel post precedente. Ecco dunque qualche glossa approssimativa, pronta per un ideale dizionario dell'effimero.
Prendere in mano la squadra (più correttamente ed in origine, prendere per mano la squadra): fungere da punto di riferimento, in campo (ma anche fuori del campo), per i compagni di gioco; soprattutto nei momenti critici, guidarli, come un adulto fa con i bimbi, verso obiettivi che parrebbero loro difficilmente raggiungibili e portarli a conseguirli (talvolta in modo insperato).
Giocare tra le linee: detto di calciatore che opera tra il centrocampo e l'attacco, essere capace di trovare spazi di gioco non coperti dalle tattiche difensive degli avversari nella propria area di competenza del campo.
Attaccare la profondità: avere la capacità e la propensione ad andare, con o senza possesso della palla, verso il fondo della parte del campo di pertinenza degli avversari (e quindi anche verso la porta), penetrandone perpendicolarmente le linee difensive.
Cercare il triangolo: passare il pallone a un compagno, scattando immediatamente verso una posizione avanzata, suggerendogli così col proprio movimento un rapido e successivo passaggio che, col primitivo e col movimento senza palla, completa sul campo l'ideale figura di un triangolo. Per un comportamento del genere, ma in una prospettiva più generale, si adopera anche l'espressione dettare (a qualcuno) il passaggio.
Vedere la porta: avere una particolare attitudine al tiro verso la porta avversaria, da posizioni varie e con rilevanti percentuali di buon esito.
Apollonio passa tuttavia la palla a chi, dei suoi due lettori, potrà e vorrà apportare a queste modeste glosse correzioni e aggiunte migliorative.