11 settembre 2010

"Carnalivaru o cu ci va appressu"?

"Il mondo in balia di un idiota" è il titolo dell'articolo di spalla che oggi, 11 settembre 2010, compare sulla prima pagina di un importante quotidiano italiano. Lo firma il direttore. L'idiota (è appena il caso di dirlo) è quel religioso americano amante, a suo dire, dei roghi.
A margine delle dichiarazioni di intenti del pastore, dell'articolo dell'illuminato direttore e di tutto l'assordante e caotico rumore che intorno a quelle dichiarazioni è stato fatto, nessun commento è migliore, a parere di Apollonio, di quello fornito dalla saggezza popolare espressa in un tradizionale detto siciliano: "Cu è chiù fissa, Carnalivaru o cu ci va appressu?" [Chi è più stupido, Carnevale o chi gli va dietro?].
Il mondo in balia di un idiota? Quando mai! Come sempre, il mondo in balia degli innumerevoli stupidi che stanno nel codazzo di un idiota, anche solo per atteggiarsi facilmente a critici, e che amplificano con le proprie idiozie l'eco delle sue, altrimenti insignificanti, sovente per calcolo sconsiderato di interessi meschini.

3 settembre 2010

Frammento di un breviario d'osservanza

Quanto alla conoscenza, il limite destinerebbe l'uomo a una sola, negativa certezza: quella dell'ignoranza e dell'errore.
In ogni àmbito sperimentale, all'apparire di uno spirito orientato alla scepsi può seguire il formarsi, teoretico e metodologico, di una scienza. Si sta naturalmente dicendo di una vera scienza, non delle parodie, tanto più grottesche quanto più benavventurate, che ne usurpano il nome, in ogni campo dell'umana esperienza.
Lo spirito zetetico della scienza ha come bersaglio ogni assoluto, anche l'estremo: la certezza dell'ignoranza e dell'errore. Teorie e metodi della scienza mettono alla frusta, aleatoriamente (di più non si potrebbe), tale certezza.
Ne segue che, in funzione della conoscenza, con la scienza l'uomo aspira a privarsi anche della sua ultima giustificazione morale, del sicuro riparo procuratogli dalla sua naturale destinazione all'ignoranza e all'errore. Più si riduce l'ombra pietosa di tale riparo, più cresce la luce della responsabilità: cresce, in principio, verso l'infinito. E la luce, cruda e impietosa, svela che a portare la responsabilità è un essere che ha nel limite il suo stigma e, se di salute si tratta, forse la sua sola salute.
Il paradosso è lancinante ed è la condizione d'esistenza di una conoscenza saggia e, per quanto si può, cosciente: fuori della violenza ipocrita e dell'efficace imbroglio che si impadroniscono sovente di intraprese che si dicono scientifiche, rendendole false sin dai loro primi vagiti.
Una scienza che vende certezze, colpevolmente priva della consapevolezza d'essere invece chiamata a incalzare la certezza fino al suo estremo ridotto, una scienza reticente quanto al paradosso da cui prende origine e che inflessibilmente la determina, una scienza imbonitrice e consolatoria è impostura, lo si sappia. Gonfiandosi e insuperbendo, l'impostura diventa troppo umana. Può muovere perciò chi la smaschera a una sdegnosa rabbia.
Se le accade di diventare troppo umana, tuttavia, è perché l'impostura è semplicemente umana, in fondo. È faccetta inalienabile e rivelatrice di ciò che è proprio dell'uomo: la povertà di spirito che gli impone d'affaccendarsi, senza requie. A chi la scorge (e oggi non ne mancano occasioni), la scienza come impostura può solo ispirare, dunque, la riflessiva e amara simpatia, la compassione solidale ma non complice che si destina al ciurmatore colto sul fatto.
Un esempio recente, che sfiora pericolosamente la linguistica, e la sua momentanea conclusione.