23 aprile 2025

Lingua nostra (15): "Computer" (e Marco Fabio Quintiliano)

Con l'aggeggio che chiama computer, Apollonio fa molto raramente ciò che quel nome pare indicare si faccia d'elezione: calcolare. E scommette che un gran numero di coloro che leggono questo diario siano nella medesima condizione. Usano intensamente un computer, ma piuttosto raramente per fare o fargli fare calcoli. 
Come prestito, ormai ben più che acclimatato, computer è parola rimbalzata in italiano dall'inglese negli ultimi decenni del Novecento: è appena il caso di dirlo. Ha morfologia da nomen agentis, opaca però fuori del gruppo germanico. In inglese, a sua volta il verbo relativo era arrivato per trafila dotta (prima attestazione, pare, verso la fine del Cinquecento), esemplato sul latino computo 'io calcolo'. Computer vale insomma 'calcolatore', né più né meno.
Anch'esso nomen agentis, anch'esso derivato da un verbo, l'italiano calcolatore avrebbe fatto dunque il suo mestiere degnamente come nome del medesimo aggeggio, se la concorrenza di computer non l'avesse annichilito. 
Nella produzione e nel commercio delle parole, lo si dirà un caso di dumping lessicale? È d'altra parte più o meno quanto è accaduto a pellicola con film, perlomeno nel discorso cinematografico. Ambedue sono in ogni caso esempi perspicui di designazioni ottenute grazie a una procedura metonimica: il supporto materiale per quanto di spirituale vi si trova supportato.
Di calcolatore, Apollonio ricorda come fosse sufficientemente in uso ancora sul principio degli anni Ottanta del secolo scorso, perlomeno per i grandi impianti aziendali o universitari. L'arrivo dell'informatica personale e di massa ha deciso la partita. Ormai non c'è più quasi nessuno che lo calcoli, calcolatore. Ancora più sfortunato si è rivelato il presto scomparso elaboratore.
Come film rispetto a pellicolacomputer è meno trasparente di calcolatore, per chi vive in italiano. E anche ciò deve avere decretato l'opposta fortuna dell'uno e dell'altro. Perché una parola si imponga, non è detto sia un bene che si capisca cosa vuole dire. E i prestiti, con la loro aura misteriosa e affascinante, stanno lì proprio a fare questo. Capita appunto che talvolta aiutino a non capire cosa si ode e persino cosa si dice. Ed è questa una condizione che, non paia un paradosso, rende quasi sempre più fluida ed efficace la comunicazione. Chiedere in proposito a chi fa usi pubblici della parola, come accade in politica o nella pubblicità... Parere chiari è ben diverso da essere chiari.
Andata come è andata tra computer e suoi concorrenti fatti in casa e finiti fuori del mercato, resta che - lo si diceva sul principio - computo e calcolo hanno spazi e tempi marginali nell'uso popolare e universale della macchina così designata. C'è chi ci scrive, c'è chi ci gioca, c'è chi ci tiene conversazioni e rapporti, c'è chi ci si intrattiene con spettacoli d'ogni sorta, c'è chi ci si informa, c'è chi ci studia e così via. C'è soprattutto chi con esso svolge tutte queste attività e ancora molte altre: dagli acquisti alle prenotazioni, dalle scommesse all'adescamento, dai furti ai ricatti, dallo spionaggio alla guerra. 
Tutte, lo si sa, corrispondono a calcoli dentro la macchina, ma sarebbero guai se la macchina le presentasse appunto come tali. Sicché computer o, se ancora lo si considera, calcolatore finiscono per essere, a ben vedere, bizzarre designazioni metonimiche. O perché valgono per il tutto, mentre sono giustificate da una parte dell'uso. O perché nascono da una sostanza algoritmica invisibile e si applicano ad apparenze multiformi che fanno tutte da cortina di quella sostanza. 
Non era così, per fare un paio di esempi, né per macchina da scrivere né per calcolatrice, designazioni di due arnesi meccanici che infanzia e adolescenza di Apollonio ebbero carissimi (né è il caso di dire perché) e che il computer ha ingoiato, senza sputarne una sola rotella.
Il fatto è che, nelle lingue, cose che motivino adeguatamente, per ciò che sono e che fanno, i nomi con cui le si chiama ce ne sono infine meno di quanto si creda. E non da oggi, visto che in proposito si conoscono ammonimenti già da parte di Quintiliano: "Transfertur ergo nomen aut uerbum ex eo loco in quo proprium est in eum in quo aut proprium deest aut tralatum proprio melius est. Id facimus aut quia necesse est aut quia significantius est aut, ut dixi, quia decentius".
Bisogna dunque che ci si rassegni: il lessico è un cafarnao di tropi e capita spesso che il princisbecco vi passi per oro colato. Il recente acronimo AI è caso paradigmatico, ma si è già approfittato troppo della pazienza di chi legge per non lasciarlo per intero alla sua personale ed intima riflessione.

14 aprile 2025

"Morte cerebrale" e "clinicamente morto": scherzi della lingua

"Kentucky man declared brain dead 'woke up' during organ harvesting": la notizia è stagionata e la fonte affidabile. Potrà agevolmente verificarlo chi legge, se segue il collegamento. 
Apollonio non ha nulla da dire nel merito. A stento può esprimersi sulle quisquilie oggetto di una lunga militanza, condivisa con il suo alter ego. E il pezzo giornalistico in questione stava appunto in una cartella in cui si trovano, gettati a casaccio, reperti di accidentali letture. Da lì, lo si sta qui riesumando, per una considerazione marginale e di stretta (im)pertinenza linguistica.
Mesi fa, mutatis mutandis, questo pezzo ricordò infatti ad Apollonio un celebre aneddoto narrato da Benjamin Lee Whorf e presente in pubblicazioni divulgative della disciplina, oltre che in suoi corsi di base. 
L'espressione empty drums - raccontò Whorf, che aveva lavorato per una società assicuratrice specializzata nel settore degli incendi industriali - aveva convinto un poveraccio qualsiasi che accendere una sigaretta accanto a quei fusti non fosse controindicato. 
Per ignoranza, costui era inconsapevole del fatto che, utilizzati per il trasporto di liquidi combustibili, pur svuotati dei liquidi, i fusti erano in ogni caso colmi dei vapori correlati, vapori molto infiammabili, e quindi tali da rendere i fusti vuoti pericolosi perlomeno quanto i pieni. Ne era conseguito un disastroso incendio.
Non sono certo dei poveracci e degli ignoranti coloro che si servono, dicono, a ragion veduta, di espressioni come morte cerebrale o clinicamente morto e, servendosene, se ne determinano per compiere le relative azioni. Tuttavia l'effetto rischia di essere comparabile con quello descritto da Whorf (c'è da sperare, solo sporadicamente). Non c'è espressione infatti, anche la più tecnica, che non porti con sé un punto di vista.
E non c'è di conseguenza livello di sofisticazione della cultura umana, in cui la lingua, feroce, non possa prendersi gioco di chi s'illude di padroneggiarla, facendone una fredda terminologia. In cui la lingua non possa di conseguenza fare scherzi irreparabili a un illuso padrone e alle incolpevoli vittime della sua presunzione. Perché, come ci sono fusti che capita di dire vuoti, quando sono regolarmente pieni, ci sono persone che capita di dire morte, quando invece, anche fosse solo per un imprevedibile accidente, non lo sono.

3 aprile 2025

"L'isola di Ferdinando" si rinnova

 



Apollonio dà qui spazio e parola al suo alter ego che, con il determinante aiuto delle Edizioni ETS di Pisa, rinnova la collana L'isola di Ferdinando. Ecco il suo nuovo manifesto. La prima epifania della nuova serie è prevista a giorni (un indizio? Questo frustolo, con il suo annuncio, esce oggi, giorno nel quale la Chiesa di Roma ricorda Riccardo di Chichester).



 

1 aprile 2025

Discenti e docenti: osmosi

Confida ad Apollonio il suo alter ego di avere remore ad associarsi ai dolenti accenti che sente spesseggiare sopra la qualità dei giovani e delle giovani che frequentano oggi i più alti livelli dell'istruzione nazionale.  
Si astiene dal farlo anche perché trova che accenti simili, eventualmente sotto la comica forma di amaro dileggio, si estenderebbero anche a coloro che frequentano quei livelli da docenti. Come per i discenti, ovviamente il giudizio comporterebbe eccezioni, valendo solo ut in pluribus, per dirla con una formula del latino universitario medioevale.
A determinare il suo silenzio in proposito è dunque la considerazione che, siano come siano, docenti e discenti sono semplicemente conformi tra loro e conformi al loro ambiente. Si e gli corrispondono e vi si equilibrano per osmosi, com'è sempre stato. D'altra parte, si potrebbe altrimenti?