21 ottobre 2025

Linguistica da strapazzo (58): "Sai che un furto su tre avviene mentre sei in casa?"

L'ordinale associato dalle grammatiche ai termini con cui si articola la categoria della persona è mera convenzione. Seconda, come del resto prima o terza, è lungi dallo specificare qualcosa della funzione linguistica cui, come attributo di persona, viene associato. 
Una convenzione ci mette poco però a diventare un luogo comune: è precisamente ciò cui una convenzione mira, d'altra parte. E nel caso specifico la convenzione è plurisecolare e il luogo comune infrangibile. 
Vada dunque anche qui per seconda persona, come etichetta di quanto funzionalmente vale il destinatario di un'enunciazione e trova la sua manifestazione più facile e immediata nel pronome personale tu e nelle forme aggettivali e verbali conseguenti.
Anche in questo caso bisogna tuttavia che si eviti di credere che tra forma e funzione la corrispondenza sia biunivoca. Nei processi enunciativi, ci sono destinatari che non vengono a galla come tu e ci sono tu applicati a funzioni diverse. 
"Ma tu guarda che pasticcio!", dirai se credi ingenuamente alla permanente buona fede della lingua, come se essa fosse angelica e in essa non ci fosse invece il proprio dell'umanità, specie per nulla affidabile. "Senti un pronome, un aggettivo possessivo, una forma verbale e non puoi essere certo di ciò che queste forme ti dicono". Imbrogliano senza malizia, tante volte, va detto. Ma lo fanno maliziosamente più spesso di quanto tu non creda. Un caso siffatto passa in televisione decine di volte al giorno, in queste settimane. 
"Sai che un furto su tre avviene mentre sei in casa?", dice un testimonial, che sorride affabilmente proprio mentre - il committente paga per quello - deve e vuole inquietare. E lo fa ad arte passando dalla seconda persona di sai alla seconda persona di sei
Nel suo breve enunciato, sai è infatti una seconda persona perbene, ammesso che in pubblicità se ne incontrino, di seconde persone perbene. Ma tant'è. Non è invece per nulla proba la seconda persona del seguente sei. A dire come stanno le cose (e prescindendo dal fatto che tale dire corrisponda o no alla realtà), sotto quel sei, c'è infatti una terza persona generica: 'Un furto su tre avviene quando il derubato è in casa', insomma. 
Ma il discorso maschera subdolamente quella terza persona generica, quasi un impersonale, con il medesimo 'tu' formale con cui ti si rivolge. Senza dartelo a vedere, ti spinge così a identificarti. A vestire già i panni (linguistici) del derubato. Vuoi mettere l'angoscia? E corri a telefonare, pronto a pagare la protezione che ti si vuole vendere. 

17 ottobre 2025

Linguistica da strapazzo (57): "Sono [se're:na]"

"Sono [se're:na]": esordisce così, per telefono, un'ascoltatrice di una trasmissione radiofonica mattutina in cui, a una rassegna della stampa quotidiana, segue un dialogo a distanza con coloro che, tra il pubblico, hanno voglia di interloquire. 
E, non si sa se anche al conduttore del programma, ma certo ad Apollonio che tende l'orecchio, mentre beve il suo tè o sbuccia un'arancia, si affaccia allo spirito come replica: "Beata Lei!". 
Non sono tempi, infatti, che si associno spiritualmente alla serenità, i presenti, sempre ammettendo che di tali ce ne siano mai stati, se non, come compito di ciascuno, per via di una difficile ricerca interiore.
Poi, e non senza un piccolo moto di inframmessa verecondia per un facile gioco di parole di cui un tempo, se prodotto in pubblico, si sarebbe chiesta venia (ma in proposito i tempi sono appunto molto mutati), una riflessione, dettata anche dalla solidarietà per un alter ego che, in anni recenti, ha sprecato in proposito un po' del suo tempo.
Ecco una prova, semplice, quotidiana, lampante, che, per valere come nome proprio (così, secondo una secolare definizione grammaticale), un'espressione passa inesorabilmente da un livello linguistico a un livello metalinguistico dove, per usare una metafora, essa è sterilizzata dal punto di vista semantico e consegnata, nella sua purezza, a una funzione denominativa. Una funzione metalinguistica, appunto.
Chi si presenta in un modo siffatto (e ciò vale ovviamente non soltanto per [se're:na], ma anche per [kle'mɛnte], ['li:bero], ['dʒusto] e per innumerevoli altri) non dice, come pure superficialmente si ode, "Sono [se're:na]". Dice precisamente "Sono (la chiamata / quella che chiamano) [se're:na]". La prova? Inoppugnabile, consiste nel modo in cui riceve il messaggio il destinatario, che molto raramente replica appunto con un "Beata Lei!" o, se lo fa, chiede immediatamente scusa per l'irrispettosa banalità del suo gioco di parole.
Attenzione: con Clemente, Libero, Giusto, Serena, Felice, Romano e così via, si creano i contesti appropriati per l'osservazione. Semplicemente. Quando fanno da nomi propri (e lo scritto, a scanso di equivoci, ricorre all'iniziale maiuscola), grazie a essi chi è curioso dei fatti di lingua gode insomma di buone condizioni di osservabilità. Come quando il cielo è sgombro di nubi, per chi ama perdersi nella contemplazione della luna. Non va diversamente però in ogni altro caso. Non c'è espressione che, proferita come nome proprio, non sia tacitamente accompagnata dalla formula che poco sopra si è posta tra parentesi tonde (o da una comparabile).
Sotto un nome proprio, in altre parole, c'è sempre, sintatticamente, un predicato appellativo e c'è sempre, per ciò che in superficie si presenta come nome proprio, una funzione da complemento predicativo di tale predicato. 
Al pari di FeliceGiovanna è infatti sempre (la chiamata) Giovanna, come disse con un doppio e rivelatore "veramente" e un singolo "interpretata", uno che, di lingua, se ne intendeva parecchio. Una terzina gli bastò infatti per scrivere un profondo saggio di onomastica teorica: "Oh suo padre veramente Felice! | Oh sua madre veramente Giovanna, | se, interpretata, val come si dice!".
Dal fastidioso, ma ineluttabile, rumore dell'attualità alla futile serenità che ispira l'Alighieri. Che meravigliosa colazione, stamane.

10 ottobre 2025

Supplemento a Intolleranze (15): "Linguaggio"

Delle catacresi cui linguaggio si presta correntemente, "[l]a facile verifica è affidata a chi legge", scriveva Apollonio nel frustolo in questione, or sono tre giorni. E un amichevole lettore, a tamburo battente, gli ha dato notizia di queste pagine, comparse ieri in un quotidiano nazionale:


Non c'è fatto semiologico che non trovi una rappresentazione metaforica di natura linguistica. La lingua è infatti il sistema semiologico per eccellenza. Ma il paradosso si verifica quando ciò che solo metaforicamente può essere assimilato alla lingua finisce per procurare lo schema concettuale (in modo esplicito e più spesso implicito) cui si suppone che anche la lingua sia conforme.
Come luogo comune e preso alla lettera, il facile tropo ha insomma il nefasto effetto di appiattire la percezione della differenza. E ciò non soltanto presso un pubblico profano. A forza di dire e di pensare, per metafora, che non c'è aspetto della cultura umana che non sia un linguaggio, si finisce in altre parole per credere che il linguaggio o, appunto molto meglio, la lingua sia, fuor di metafora, come ogni altro aspetto della cultura umana. E non è così.
Ci furono pagine del Cours de linguistique générale che fomentarono la confusione e che si sono di conseguenza prestate a tutti gli usi, anche ai più contraddittori con il dettato saussuriano. Non sono la sola prova che tali pagine, anche nella versione procuratane da letture talvolta tenute per profonde, vanno sempre sottoposte a una serrata disamina critica e, ove possibile, restituite al nocciolo linguistico (e semiologico, in quanto linguistico) da cui emanano.    

7 ottobre 2025

Intolleranze (15): "Linguaggio"

-aggio
 è ciò che, di un latino -atĭcu(m) e dopo secolare elaborazione, francese e provenzale deposero nella morfologia italiana, or sono molti secoli. Veicolo del trasferimento furono numerosi prestiti. Allora il prestigio delle due lingue era infatti grande.
Con -atĭcu(m), da nomi si derivavano aggettivi, in origine, come ancora oggi è dottamente evidente (programma, programmatico, paradigma, paradigmatico). Con qualche eccezione, con -aggio invece si andò in una diversa direzione. E la si percorre ancora, sempre che una derivazione in proposito sia vigente. 
Non lo è, per esempio, negli antichi coraggio, omaggio, ostaggio, messaggio. E lo è illusoriamente nel caso di linguaggio. Il suo rapporto con lingua è diverso da quello che, mediato dal verbo gemellare, oggi corre, per dire, tra gemello e gemellaggio.
Nel volgare del sì c'era già lingua, ovviamente, e il francesismo linguaggio vi arrivò già pronto e confezionato, con la sua accattivante aria esotica. Trovò presto chi si fece bello del suo uso, allora segno di raffinatezza culturale. Ci sono tre ricorrenze di linguaggio nella Commedia e due sono in rima. Le si direbbe testualmente concentrate, ma non si è qui a fare esegesi dantesca: "così, per non aver via né forame | dal principio nel foco, in suo linguaggio | si convertïan le parole grame" (If 27 13-15); "Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa; | questi è Nembrotto per lo cui mal coto | pur un linguaggio nel mondo non s'usa. | Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio | come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto»" (If 31 76-81).
Questi versi lo dicono: come sinonimi, lingua e linguaggio si trovarono così in concorrenza. Lungo i secoli, l'italiano ha d'altra parte provato a sviluppare dalla sinonimia una ideale complementarità, specializzando linguaggio. Non c'è opera lessicografica (moderna) che non lo attesti, con buona volontà. 
La lingua di tutti i giorni si è tuttavia rivelata recalcitrante in proposito e la voce linguaggio del dizionario on line dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana esordisce opportunamente così: "Nell'uso ant[ico] o letter[ario], e talora anche nell'uso com[une] odierno, lo stesso che lingua, come strumento di comunicazione usato dai membri di una stessa comunità". 
La stessa voce precisa solo in seconda battuta che linguaggio vale anche "[i]n senso ampio, la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di un sistema di segni vocali o grafici; e lo strumento stesso di tale espressione e comunicazione (inteso in senso generico, senza riferimento a lingue storicamente determinate)". Ma fosse solo questo...
A complicare le cose (o a semplificarle superficialmente), da qualche anno è intervenuta un'ulteriore influenza: il prestigio, come si sa, muta nel tempo. Con la sua irreparabile ambiguità (o si dirà sovra-estensione?), l'inglese language (che, va detto, sgorga dalla medesima fonte) è così venuto a sostenere usi tanto generici, quanto specifici di linguaggio, apparentato e perciò somigliante. Linguaggio esteso, linguaggio inclusivo ne sono testimonianze, giunte ad arricchire un campionario già straordinariamente ricco per via di catacresi. 
Lo si è detto: linguaggio arrivò in tempi remoti come raffinatezza. Gli è pertanto toccato il destino che tocca a (quasi) tutte le raffinatezze: finire nel vortice comunicativo ed espressivo che le precipita verso la strada di una perversa ordinarietà. E lì, vere e proprie parole da marciapiede, non c'è copula cui esse si neghino. Difficile dire infatti a cosa oggi non si possa attribuire un linguaggio e di cosa non si possa predicare che è un linguaggio, per denotazione o per una connotazione non più percepita come tale. 
La facile verifica è affidata a chi legge, che, sulla base della sua competenza e delle sue esperienze, troverà ad libitum quanto può comunemente completare un nesso nominale come il linguaggio del / dello / della... o una proposizione come il / lo / la.... è un linguaggio. Pur nella sua polisemia, come parola, lingua si è mantenuta più seria e costumata, al confronto, e si ha di conseguenza qualche remora a dire che è lingua molto di ciò a cui invece con grossolana facilità si attribuisce la qualità di linguaggio.
Per linguaggio, una riuscita da gigolo era prevedibile, portatore com'è di segni di un'antica tabe. Né si riesce correlativamente ad avere in simpatia l'ignoto chierico cui, per non dire appunto lingua, come forse era il caso, venne in mente e poi sulle labbra l'ipotetico linguatĭcu(m), in séguito fortunatissimo, che fa da etimo ricostruito a lengatge, a langage, a language e conseguenti. 
Ce lo si immagina facilmente, uno così. Rappresenta un tipo umano eterno. Il retore o il predicatore che, per parere dotto e impressionare, tira fuori parole di norma meno brevi delle comuni e già in uso. Allunga così il brodo delle proprie chiacchiere, sicuro che molti, tra coloro che lo ascoltano ammirati, lo imiteranno e, da lì in avanti, sul suo esempio preferiranno linguatĭcu(m), la novità, a lingua
Linguaggio testimonia insomma l'opera di un antenato morale di chi, oggi, non parla di problemi ma di problematiche, non tratta di temi, ma di tematiche, non lo fa secondo modi, ma secondo modalità, non dice i... o le..., ma quelli o quelle che sono... e così via. Come non sentirne ancora l'olezzo e come non trovare tale olezzo poco tollerabile?

1 ottobre 2025

Lingua nostra (16): "Pietas"

Pochi giorni or sono, in questo diario si annunciava un modesto rito, in cui si trovava implicato l'alter ego di Apollonio. "Non vorrà Apollonio negarci di sapere come è andata", scriveva amabilmente in calce un Lettore o una Lettrice. E, in risposta, Apollonio negava d'essere adatto all'ufficio.
Non si fa perciò una cronaca dell'evento, anzi si prova a trascenderla (o a sublimarla, nel consueto spirito), se qui si riferisce soltanto che, nell'occasione, è stata la pietas a fare da tratto pertinente.
A credere ai lessicografi, pietas, come prestito dal latino, è parola comparsa solo nel corso del Novecento, nello scritto letterario italiano. Il Grande dizionario italiano dell'uso, ispirato, come si sa, da Tullio De Mauro, la dice "comune", quanto a "marca d'uso". Essa sarebbe quindi "generalmente not[a] a chiunque abbia un livello mediosuperiore di istruzione". A dire il vero, l'attribuzione suona dubbia, già riferita al tempo in cui fu esposta. Oggi, opina Apollonio in maniera impressionistica, essa è crudamente anacronistica. 
Un quarto di secolo, di questo secolo, in particolare, non è poco in funzione di certi usi linguistici. Non hanno tempo, al contrario, le maniere e le attitudini umane che l'astratto pietas include per marcatezza e, ovviamente, anche quelle non marcate che appunto esclude.