17 ottobre 2025

Linguistica da strapazzo (57): "Sono [se're:na]"

"Sono [se're:na]": esordisce così, per telefono, un'ascoltatrice di una trasmissione radiofonica mattutina in cui, a una rassegna della stampa quotidiana, segue un dialogo a distanza con coloro che, tra il pubblico, hanno voglia di interloquire. 
E, non si sa se anche al conduttore del programma, ma certo ad Apollonio che tende l'orecchio, mentre beve il suo tè o sbuccia un'arancia, si affaccia allo spirito come replica: "Beata Lei!". 
Non sono tempi, infatti, che si associno spiritualmente alla serenità, i presenti, sempre ammettendo che di tali ce ne siano mai stati, se non, come compito di ciascuno, per via di una difficile ricerca interiore.
Poi, e non senza un piccolo moto di inframmessa verecondia per un facile gioco di parole di cui un tempo, se prodotto in pubblico, si sarebbe chiesta venia (ma in proposito i tempi sono appunto molto mutati), una riflessione, dettata anche dalla solidarietà per un alter ego che, in anni recenti, ha sprecato in proposito un po' del suo tempo.
Ecco una prova, semplice, quotidiana, lampante, che, per valere come nome proprio (così, secondo una secolare definizione grammaticale), un'espressione passa inesorabilmente da un livello linguistico a un livello metalinguistico dove, per usare una metafora, essa è sterilizzata dal punto di vista semantico e consegnata, nella sua purezza, a una funzione denominativa. Una funzione metalinguistica, appunto.
Chi si presenta in un modo siffatto (e ciò vale ovviamente non soltanto per [se're:na], ma anche per [kle'mɛnte], ['li:bero], ['dʒusto] e per innumerevoli altri) non dice, come pure superficialmente si ode, "Sono [se're:na]". Dice precisamente "Sono (la chiamata / quella che chiamano) [se're:na]". La prova? Inoppugnabile, consiste nel modo in cui riceve il messaggio il destinatario, che molto raramente replica appunto con un "Beata Lei!" o, se lo fa, chiede immediatamente scusa per l'irrispettosa banalità del suo gioco di parole.
Attenzione: con Clemente, Libero, Giusto, Serena, Felice, Romano e così via, si creano i contesti appropriati per l'osservazione. Semplicemente. Quando fanno da nomi propri (e lo scritto, a scanso di equivoci, ricorre all'iniziale maiuscola), grazie a essi chi è curioso dei fatti di lingua gode insomma di buone condizioni di osservabilità. Come quando il cielo è sgombro di nubi, per chi ama perdersi nella contemplazione della luna. Non va diversamente però in ogni altro caso. Non c'è espressione che, proferita come nome proprio, non sia tacitamente accompagnata dalla formula che poco sopra si è posta tra parentesi tonde (o da una comparabile).
Sotto un nome proprio, in altre parole, c'è sempre, sintatticamente, un predicato appellativo e c'è sempre, per ciò che in superficie si presenta come nome proprio, una funzione da complemento predicativo di tale predicato. 
Al pari di FeliceGiovanna è infatti sempre (la chiamata) Giovanna, come disse con un doppio e rivelatore "veramente" e un singolo "interpretata", uno che, di lingua, se ne intendeva parecchio. Una terzina gli bastò infatti per scrivere un profondo saggio di onomastica teorica: "Oh suo padre veramente Felice! | Oh sua madre veramente Giovanna, | se, interpretata, val come si dice!".
Dal fastidioso, ma ineluttabile, rumore dell'attualità alla futile serenità che ispira l'Alighieri. Che meravigliosa colazione, stamane.

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