Tra gli e le adolescenti di mezzo mondo, quale che sia la loro lingua nativa, pare si sia diffusa, a partire dagli Stati Uniti, la consuetudine di proferire "six seven" in modo che si direbbe inopinato, fuori cioè della pertinenza o della rilevanza dei contesti comunicativi, e accompagnando l'enunciazione con gesti variabili.
"Non vuole dire nulla, non ha un significato", si legge nei commenti che stanno dedicando al fenomeno media di ogni genere. E l'insensatezza pare meritevole del valore che si assegnerebbe alla notizia che un postino ha morso un cane. L'inverso, un cane che morde un postino, è infatti quanto si presume comparabile con ciò che caratterizza i fiati articolati che sortiscono dalle bocche degli esseri umani: avere un senso.
Ebbene, un antropologo polacco, naturalizzato britannico, Bronisław Malinowski, nel secondo decennio del secolo scorso, aveva proficuamente speso nel Pacifico occidentale gli anni che lo preparavano a conseguire il suo dottorato londinese. Muovendosi tra un'isola e un'altra e interagendo profondamente con le popolazioni locali, che allora non ci si peritava di qualificare come "selvagge", aveva acquisito le conoscenze che sul principio del decennio successivo gli avrebbero permesso di comporre Argonauts of the Western Pacific, un monumento dell'antropologia qualificata come funzionalista (vivamente messa in discussione, per i suoi fondamenti e le sue conclusioni concettuali, nella seconda metà del Novecento; riserve condivise da Apollonio, ma qui poco importa).
A Malinowski fu anche chiesto di collaborare a un libro che portava il titolo The Meaning of Meaning e il sottotitolo A Study of the Influence of Language upon Thought and of the Science of Symbolism. Ne erano autori C.K Ogden and I. A. Richards. L'antropologo procurò così un supplemento, "The Problem of Meaning in Primitive Languages".
La menzionata attuale vicenda di "six seven" sarà certamente effimera e, probabilmente, non perfettamente pertinente, ma la si può cogliere al volo per leggere un paio di pagine di quel contributo e per farne oggetto di una piccola riflessione conclusiva (la traduzione del passo, condotta alla buona, è di chi scrive):
"Penso che, parlando del ruolo della lingua nelle semplici relazioni sociali, ci troviamo di fronte a uno degli aspetti fondamentali della natura dell'essere umano nella società. In tutti gli esseri umani c'è la ben nota tendenza a riunirsi, a stare insieme, a godere della compagnia reciproca. Molti istinti e tendenze innate, come la paura o la combattività, tutti i tipi di sentimenti sociali come l'ambizione, la vanità, la passione per il potere e la ricchezza, dipendono e sono associati alla tendenza fondamentale che rende la semplice presenza degli altri una necessità per l'essere umano.
Ora, la lingua è strettamente legata a questa tendenza, perché, per un essere umano naturale, il silenzio di un altro essere umano non è rassicurante, ma, al contrario, qualcosa di allarmante e pericoloso. Lo straniero che non parla la lingua è per tutti i membri di una tribù selvaggia un nemico naturale. Per la mente primitiva, sia tra i selvaggi che tra le nostre classi non istruite, l'essere taciturni equivale non solo a ostilità, ma anche a cattivo carattere. Ciò varia senza dubbio in funzione dei diversi spiriti nazionali, ma resta vero come regola generale. Rompere il silenzio, la comunione delle parole, è il primo passo per stabilire legami di amicizia, che si consumano solo con la condivisione del pane e del cibo. L'espressione inglese moderna “Nice day today” o la frase melanesiana [che corrisponde a un] “Whence comest thou?” sono necessarie per superare la strana e spiacevole tensione che gli esseri umani provano quando si trovano faccia a faccia in silenzio.
Dopo la prima formula, le parole cominciano a fluire: gratuite espressioni di preferenza o avversione, resoconti di avvenimenti irrilevanti, commenti sul perfettamente ovvio. Queste ciacole, tipiche delle società primitive, differiscono solo leggermente dalle nostre [...].
Senza dubbio, si tratta qui di un nuovo tipo di uso linguistico - comunione fatica, sono tentato di chiamarla, spinto dal demone dell'invenzione terminologica - un tipo di discorso in cui i legami di unione sono creati da un semplice scambio di parole.
Guardiamolo dal punto di vista specifico che ci interessa; chiediamoci che luce getta sulla funzione o sulla natura della lingua. Le parole nella comunione fatica servono principalmente a trasmettere un significato, il significato che è il loro, in quanto simboli? Certamente no. Esse svolgono una funzione sociale e questo è il loro scopo principale, ma non sono né il risultato di una riflessione intellettuale, né suscitano necessariamente una riflessione nell'ascoltatore. Ancora una volta possiamo dire che la lingua non funziona qui come mezzo di trasmissione del pensiero.
Ma possiamo considerarla una modalità di azione? E in che rapporto si trova con la nostra concezione cruciale del contesto della situazione? È ovvio che la situazione esterna non entra direttamente nella tecnica del parlare. Ma cosa si può considerare situazione quando un gruppo di persone chiacchiera senza uno scopo preciso? Consiste proprio in questa atmosfera di socievolezza e nel fatto della comunione personale di queste persone. Ma questo si ottiene in realtà attraverso la lingua, e la situazione in tutti questi casi è creata dallo scambio di parole, dai sentimenti specifici che formano la convivialità, dal dare e avere di espressioni che costituiscono il chiacchiericcio ordinario. L'intera situazione consiste in ciò che accade linguisticamente. Ogni espressione verbale è un atto che serve allo scopo diretto di legare l'ascoltatore al parlante con un vincolo di qualche tipo di sentimento sociale. Ancora una volta la lingua ci appare in questa funzione non come uno strumento di riflessione, ma come una modalità di azione.
Vorrei aggiungere subito che, sebbene gli esempi discussi siano stati tratti dalla vita selvaggia, potremmo trovare tra noi paralleli esatti per ogni tipo di uso linguistico finora discusso. Il tessuto connettivo verbale che unisce l'equipaggio di una nave in caso di tempesta, le parole convergenti di una compagnia di soldati in azione, le espressioni tecniche che accompagnano un lavoro pratico o un'attività sportiva: tutti somigliano essenzialmente agli usi primitivi della lingua da parte dell'uomo in azione e la nostra discussione avrebbe potuto essere condotta altrettanto bene su un esempio moderno. Ho scelto quanto sopra riferito da una comunità selvaggia perché volevo sottolineare che tale è la natura del linguaggio primitivo e nessun'altra.
Anche nelle semplici conversazioni sociali e nei pettegolezzi usiamo la lingua esattamente come fanno i selvaggi e il nostro parlare diventa la “comunione fatica” analizzata sopra, che serve a stabilire legami di unione personale tra persone riunite dal semplice bisogno di compagnia e non serve ad alcun scopo di comunicazione di idee. “In tutto il mondo occidentale si concorda sul fatto che le persone devono incontrarsi spesso e che non solo è piacevole parlare, ma è anche una questione di comune cortesia dire qualcosa anche quando non c'è quasi nulla da dire” — come osservano gli autori. In effetti non c'è bisogno, o forse non ci deve essere, nulla da comunicare. Finché ci sono parole da scambiare, la comunione fatica conduce tanto i selvaggi, quanto i civilizzati in un'atmosfera piacevole di rapporti sociali educati.
È solo in certi usi molto speciali all'interno di una comunità civilizzata e solo nei suoi usi più elevati che la lingua viene adoperata per formulare ed esprimere pensieri. Nella produzione poetica e letteraria, la lingua è utilizzata per dare corpo a sentimenti e passioni umane, per rendere in modo sottile e convincente certi stati d'animo e processi mentali. Nelle opere scientifiche e filosofiche, si utilizzano tipi di lingua altamente sviluppati per controllare le idee e renderle proprietà comune dell'umanità civilizzata.
Anche in questa funzione, però, non è corretto considerare la lingua come un semplice residuo del pensiero riflessivo. E l'idea che la lingua serva a tradurre i processi interiori di chi parla a chi ascolta è unilaterale e ci dà, anche per quanto riguarda gli usi più sviluppati e specializzati della lingua, solo una visione parziale e certamente non la più rilevante.
Per ribadire la posizione principale raggiunta in questa sezione, possiamo dire che la lingua nella sua funzione primitiva e nella sua forma originale ha un carattere essenzialmente pragmatico; che è un modo di comportarsi, un elemento indispensabile dell'azione umana concertata. E, in senso negativo, che considerarlo come un mezzo per incarnare o esprimere il pensiero significa adottare una visione unilaterale di una delle sue funzioni più derivate e specializzate".
"Comunione fatica" (e non "comunicazione", si badi bene) divenne "funzione fatica", come si sa, nell'esplicita ma fulminea ripresa che, trascorsi ancora degli anni, Roman Jakobson fece di queste osservazioni. La ripresa avvenne nel clima di una nascente scienza della comunicazione, con correlata tecnologia. E va forse detto che, in proposito, Jakobson si rese in realtà responsabile di una irenica riduzione che, con la sua esibita facilità meccanicista, disperse gran parte della portata provocatoria del punto di vista (lo si condivida o no) di Malinowski. "Six seven".

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