30 dicembre 2006

Lingua nostra (1): "Noi" chi?

L'antefatto. Sotto il nom de plume che ad Apollonio è toccato di prendere nella parvenza della sua vita professionale, è comparso di recente uno scritto dedicato a Cosa Nostra, curioso delle ragioni non storiche né erudite ma concettuali e linguistiche (cioè paradigmatiche e sintagmatiche) di una simile (auto)designazione: nostra? E perché non mia, tua, sua, vostra o loro? E perché cosa? Non è questo il luogo per riassumere tale scritto (i curiosi vadano a cercarlo, per gli altri un riassunto a cosa servirebbe?), ma basterà dire che quasi tutto vi ruota intorno al noi, il pronome di vigliaccheria (a Giorgio Manganelli il merito di tale definizione, felice anche se inadatta a contenerne l'intero obbrobrio). La divagazione nella miserevole landa linguistica del pronome di prima plurale (già così e senza aggiungere altro se ne denuncia la natura di vergognoso imbroglio) ha ricordato a Pietro De Marchi - saprà lui perché, dietro l'occasione - una lettera di Manzoni (non del Manzoni un'immagine del quale commenta olezzante un post di qualche tempo fa, ma del più noto Alessandro) a Tommaso Grossi, scritta a Firenze il 17 settembre 1827. La lettera è stata segnalata ad Apollonio in una corrispondenza privata di gentile sollecitudine. Se ne mette qui a parte il lettore.
Nel settembre del 1827 Manzoni si trova nel capoluogo toscano per le ragioni ben note e gli capita quel che riferisce al suo corrispondente: "Te ne dirò un'altra, e sarà l'ultima. Niccolini, il quale è uno dei pazienti revisori della mia storia (vedi chi sono andato a pescare; ti par ch'io sia ghiotto, eh?) Niccolini mi disse una di queste sere: a quel passo dove usate la frase con un'aria di me ne rido, potete levare quella giunta: come dicono i milanesi; perché si direbbe benissimo anche qui. Io dissi che questo mi faceva piacere tanto più che il me ne rido non è tanto milanese. La nostra locuzione, soggiunsi, è la più strana del mondo; e sorridendo, appunto come chi dice una cosa pazza, noi diciamo, continuai, diciamo, e chi sa dove lo siamo andati a prendere, diciamo: me ne impipo. - Eh! me ne impipo si dice anche noi. - Voi? - Noi. (E qui considera, tu o Rossari, che altro suono abbia quel noi nella bocca di un Niccolini, che nella nostra di noi, che abbiamo quel noi attaccato collo sputo, che così si dice appunto, non già: appiccato colla sciliva, come credevamo noi;) Dunque, per continuare il dialogo, voi!, ripetei io. - io credeva che voi diceste piuttosto: io me n'indormo. - Che! me n'indormo non lo dice nessuno in Toscana. - E me n'impipo? - ...Me n'impipo lo dicono tutti. All'indomani io contava questa storia all'altro mio buon revisore [...] Io contava dunque la storia al bravo Cioni, il quale mi disse: sicuro, sicuro, impiparsene è la parola più propria e più usata nel linguaggio familiare. Io allora, sorridendo come aveva fatto con Niccolini, noi poi, soggiunsi, appicchiamo a questo verbo una giunta stranissima, cavata non so donde... - Ed è? - Diciamo: impiparsi dell'Olanda. - Sicuro, sicuro, impiparsi dell'Olanda, così diciamo anche noi. - Anche voi? - Anche noi" (dalla scelta delle Lettere di Manzoni, curata da Ugo Dotti per la Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1985, alle pp. 293-4).
La grazia irresistibile da gag d'altri tempi dell'aneddoto non oscurerà nel lettore la consapevolezza di trovarsi di fronte a una questione di cui, non foss'altro che per diletto, non è consentito, come italiani, d'impiparsi e che i quasi due secoli trascorsi, coi loro fiumi d'inchiostro, sono ben lungi dall'avere chiarito: perché nostra, anche quando si riferisce a lingua, come dimostra la storiella, resta un imbroglio.

22 dicembre 2006

Ancora "pazienza"


"Le génie n'est qu'une plus grande aptitude à la patience", l'osservazione si deve al naturalista Buffon. Gliela attribuisce Marie-Jean Hérault de Séchelle, ghigliottinato nel 1794. L'anno precedente, dalla sua penna era uscita una Dichiarazione dei diritti dell'uomo. E siamo così di nuovo ai compositi esiti (non necessariamente dialettici) dell'Illuminismo.
Il paziente albero di Rilke avrà tratto anche da lì i suoi succhi, lentamente maturi, e la calma serenità da opporre alle tempeste. Anche a quelle che diffondono il bene (o finalmente lo instaurano) mozzando qualche testa impaziente (ma di rado quelle che funzionano peggio).

18 dicembre 2006

Bolle d'alea (4): Rilke

"Da gibt es kein Messen mit der Zeit, da gilt kein Jahr, und zehn Jahre sind nichts, Künstler sein heißt: nicht rechnen und zählen; reifen wie der Baum, der seine Säfte nicht drängt und getrost in den Stürmen des Frühlings steht ohne die Angst, daß dahinter kein Sommer kommen könnte. Er kommt doch. Aber er kommt nur zu den Geduldigen, die da sind, als ob die Ewigkeit vor ihnen läge, so sorglos still und weit. Ich lerne es täglich, lerne es unter Schmerzen, denen ich dankbar bin: Geduld ist alles!"

Il 23 aprile 1903, da Viareggio, Rilke scrive queste parole a un giovane corrispondente. In un blog, sul crepuscolo del 2006, suonano paradossali. Ma questo paradosso è il pensiero augurale che, per il tempo che viene, Apollonio Discolo lancia a chi ha avuto la pazienza di cercarlo e di leggerlo, come a un corrispondente ideale.
[Nella traduzione di Leone Traverso: "Qui non si misura il tempo, qui non vale alcun termine e dieci anni non sono nulla. Essere artisti vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senz’apprensione che l’estate non possa venire. Ché l’estate viene. Ma viene solo ai pazienti, che attendono e stanno come se l’eternità giacesse avanti a loro, tanto sono tranquilli e vasti e sgombri d’ogni ansia. Io l'imparo ogni giorno, l’imparo tra dolori, cui sono riconoscente: pazienza è tutto"].