27 febbraio 2011

Lingua loro (16): Metafora

Oggi, prima pagina del Sole 24 Ore, a firma di Miguel Gotor, anzi di Michele Gotor: "Ciò ha fatto di questa terra [la Puglia] uno straordinario laboratorio etno-antropologico che rappresenta in scala una pregnante metafora del destino nazionale".
Gotor non è solo. Se lo fosse, la sua sarebbe una scelta di stile personale: rispettabile, come tutte le scelte di stile personali. Non passa giorno invece che la comunicazione, la pubblica come la privata, non conti ricorrenze di metafora del genere esemplarmente rappresentato dal brano in apertura.
Nell'ultimo mese e senza particolare intenzione, Apollonio ne ha raccolto di gustose. Facciano lo stesso, se vogliono, i suoi due lettori. Ne troveranno sulla bocca di accademici frequentatori di salotti televisivi e di uomini politici dal dubbio curriculum culturale, sotto la penna di reputati editorialisti (lo si è appena visto) e di autrici di fortunati romanzi. Insomma ne troveranno nell'espressione della gente di mondo, di quella che le sensibilissime antenne della stupidità socialmente efficace rende protagonista di ogni ineluttabile mutamento, quello linguistico prima di ogni altro. L'uso di metafora, non tanto come riferimento a un generico tropo, ma per dire 'emblema', 'immagine esemplare', non è proprio di ieri. Volenterosi, i dizionari lo registrano da qualche lustro.
Si deve a Corrado Guzzanti, però, la migliore indicazione che, nell'italiano della fine del ventesimo secolo, la parola metafora aveva smesso di scorrere tranquilla nel suo alveo cólto e secolare e, tracimando, era destinata a farsi torbida e a entrare in contatto con gente poco raccomandabile che l'avrebbe messa sul marciapiede a fare marchette. A Rokko Smitherson, opinionista televisivo, uno dei parodistici personaggi inventati dall'attore all'inizio degli anni Novanta, accadeva infatti di esprimersi, ineccepibilmente, così: "Onorevole Brodo, onorevole Brodo, ie voevo dì, er cittadino s'è stufato de portà 'r vasino sott'ar culo der politico, ha capito a sottile matafa?".
Del degrado di metafora, Apollonio crede peraltro di sapere a chi dare la colpa. Senza forse essere la prima, l'attestazione dello stilema che contribuì decisivamente al suo inarrestabile e pervasivo successo in Italia tra la gente di mondo si deve a Leonardo Sciascia, con la complicità di Marcelle Padovani.
Nel 1979, prima in francese, poi in italiano, la corrispondente da Roma del Nouvel Observateur, all'epoca il magazine della sinistra intellettuale francese, pubblica un libro-intervista allo scrittore siciliano. Certamente autorizzata da Sciascia, gli dà il titolo La Sicile comme métaphore, che all'epoca parve (come s'usava dire tra la gente di mondo) molto intrigante.
A fondamento di tale titolo, stanno le parole con cui Sciascia rispondeva a una sua sollecitazione. Mutatis mutandis, ciò che Gotor oggi scrive nel suo editoriale è eco pallida e distorta dell'espressione dello scrittore.
Alla domanda della giornalista se fosse possibile considerarlo ancora uno scrittore siciliano, Sciascia rispondeva: "Sono piuttosto uno scrittore italiano che conosce bene la realtà della Sicilia, e che continua a esser convinto che la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno".
Apollonio lo confessa: non è questa l'ultima delle ragioni che lo inducono a non deporre la sottile diffidenza che fin da ragazzo ha nutrito per Leonardo Sciascia, cui tributa contemporanemente una grande ammirazione. "Le diable est dans les détails", però, e dove si verificherà mai la buonafede di uno scrittore se non in un rispetto accanito e inesausto per le parole?

Leonardo Sciascia colto sul fatto.

20 febbraio 2011

Sanremo 2011


Per assumere un placebo che pacifichi per qualche ora il suo agitato sonno, una nazione in sospetto d'essere decrepita e unita dalla falsa coscienza si vota come al solito a un santo e fa trionfare in un festival di canzonette un professore di greco e di latino in pensione, che per giunta di nome fa Vecchioni e canta, con la rabbia ilare e impotente tipica dell'età, una canzoncina che è una sorta di anti-Volare, piena di velleitarie (di)speranze, di buoni sentimenti e di migliori intenzioni, dal titolo (e dal refrain) piacione ma ("ancora" e "sempre") come può esserlo un de profundis.
È la notizia italiana del giorno. Domani? Non sarà più nulla.

PS. Con i suoi quasi settanta anni, il Vecchioni non sarà per caso il più anziano vincitore del Festival di Sanremo di sempre? Aiutino in proposito Apollonio i suoi due lettori (se lo vogliono) e, per un chiaroscuro, pensino ai Sanremo letterari, agli Strega e ai Campiello e alle loro recenti consacrazioni di ragazzine e ragazzini. Le canzonette? Roba da vecchioni. Stupido di un Apollonio, nella letteratura, vivaddio!, spira il radioso futuro della cultura nazionale.

14 febbraio 2011

Trucioli di critica linguistica (2): San Valentino



Tra le giornate celebrative inventate dalla modernità putrefatta, solo alla festa della mamma si potrà concedere d'essere più stucchevole della festa degli innamorati. Anche in occasioni del genere, guizza tuttavia l'inquietante fiamma dello spirito e se ne fa occasione, salvifica, l'angelica presenza del danaro, segno ammonitore del mercato connaturato con ogni commercio tra gli esseri umani. Ovviamente, di quello dell'eros ma, quando è il caso, anche di quello dell'amore materno. Il mercato più diabolico è infatti quello che fa di tutto per nascondere di esserlo e spaccia a prezzi stracciati buoni sentimenti e migliori intenzioni, merce insomma velenosa e perversa.
Del mercato e del danaro, come è noto, la pubblicità fa letteratura. Come se ne fa mercato, si può fare infatti letteratura di ogni aspetto della vita. E al pari d'ogni altro prodotto dell'attività umana, la letteratura che la pubblicità fa del mercato e del danaro si distribuisce sopra i diversi gradi di una scala di valori. La gran parte della letteratura che secernono i creativi delle agenzie di comunicazione si addensa naturalmente su quelli più bassi, melensi e corrivi. Ma si dirà diversamente di quella che si deve a poeti (il povero Prévert incluso) e romanzieri?
Non è forse questo il caso della campagna 2011 di una multinazionale rappresentata in Italia da un'azienda cioccolatiera che fa tradizionalmente buoni affari per il giorno di San Valentino. O meglio, non è forse questo il caso del pay-off di tale campagna, osservato dalla modesta specola di chi si occupa di lingua.
Esso suona "Chi ama, Baci." e ha l'asseverativa andatura dei proverbi e delle massime di comportamento. L'enfatica menzione del nome del prodotto, Baci, vi lascia occhieggiare la modalità imperativa caratteristica di tal genere di comunicazione. Lo fa in maniera oltremodo accattivante e che suscita una speciale attenzione. La sollecita infatti al livello generale (e quasi irriflesso) della nativa competenza (meta)linguistica dei suoi destinatari.
L'effetto di straniamento è sottile. L'ingenua credenza che, in italiano, nomi e verbi siano sempre ben distinti ne viene sommossa e si rivela (senza che di necessità ce ne sia finale piena consapevolezza) che le parole hanno sì significato e forma ma che ambedue dipendono da valori combinatori e funzionali.
In corpore vili, la spiegazione viene dal creativo di un'agenzia di comunicazione. E a darla, lo ha spinto il danaro di un committente che intende così lucrare ancor meglio sulla stupidità della festa degli innamorati. Apollonio non si sente di escludere che l'uno e l'altro siano non solo epistemicamente ma anche eticamente più commendevoli di molti tra coloro che riempiono di corrività dottrinali i libri che occupano scaffali interi di biblioteche e di librerie.