24 febbraio 2012

Rudimenti di critica linguistica (1): Tancredismo

"Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". È epoca di mutamenti epocali. Con formula icastica, Tancredi Falconeri illustra il suo programma politico allo zio Fabrizio, coinvolgendolo in quel "noi" e destinandolo così, tra lettori prevenuti e non del romanzo di Lampedusa, al suo futuro da "gattopardo", con iniziale minuscola.
La formula, tanto fortunata, la più fortunata del fortunato libro dello scrittore palermitano, contiene parole, tra loro in relazione, e si compone secondo una struttura. L'insieme fa sistema e sistema memorabile. 
Allo sparuto alter ego di Apollonio capitò, la prima volta già venti anni fa, di scriverne. Ne mise in luce, coi mezzi della sua scarsa dottrina, alcuni caratteri salienti. Eccone un breve elenco commentato.
1) Il "noi", appunto, inclusivo, che coinvolge l'interlocutore prima che costui possa esprimere qualsiasi suo parere; la strategia è quella di 'farai fatica a dire, tu che mi ascolti, che non lo vuoi, una volta che io abbia detto appunto, anche a tuo nome, che lo vogliamo'.
2) La salienza di una "volontà", cioè d'una soggettività protagonista, che si pensa capace di gestire il mutamento, cavalcandolo.
3) Il valore deontico di quel bisogna, che marca appunto una sorta di indiscutibile necessità contestuale. 
4) La cruda mancanza, d'altra parte, dell'esplicita menzione dell'argomento titolare del bisogno; un bisogno è sempre il bisogno di qualcuno; il discorso del ciurmatore (politico) non lo dice mai e presenta il bisogno come oggettivo: "bisogna" a chi?
5) L'organizzazione frastica di tipo apparentemente condizionale: un "se vogliamo..., allora..." che equivale più o meno a "poiché vogliamo, allora..."; quanto viene affermato nella principale ne esce come naturale conclusione, concettualmente ineluttabile.
In un rigo, insomma, per maestria dello scrittore, la summa di un pensiero e di una prassi politica, che ognuno potrà poi giudicare come meglio gli pare e cui applicherà se vuole le solite etichette, che spesso servono a nascondere le cose, più che a chiarirle: destra, sinistra, progresso, reazione e così via. Qui, l'insieme di attitudini ideologico-espressive sarà chiamato tancredismo, in modo neutro e solo dal nome proprio del personaggio che lo rappresenta, ricordando come, della carriera politica del principe Falconeri - Apollonio cita a memoria -, Lampedusa a un certo punto scriva che, garibaldino arrivato in Parlamento, egli s'era collocato all'estrema destra dell'ala sinistra del partito più moderato.
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Qualche giorno fa, sul supplemento culturale di un importante quotidiano, nel manifesto programmatico di un costituendo movimento intellettuale, pensoso del futuro della nazione, ricorreva con enfasi il  passaggio che segue.
"Se vogliamo davvero ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un'idea di cultura sopra le macerie che somigliano assai da vicino a quelle da cui è iniziato il risveglio dell'Italia nel secondo dopoguerra, dobbiamo pensare a un'ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione dei saperi, delle culture, puntando in questo modo sulla capacità di guidare il cambiamento".
Tutti i corsivi sono di Apollonio, per la comodità dei suoi cinque lettori. Non uno dei punti 1)-5) sopra elencati manca di corrispondenza nel passo: ripetere le illustrazioni non serve. Si potrà dunque dire tale passo manifestazione espressiva di tancredismo, in Italia attitudine politico-culturale ricorrente, se non proprio eterna?
Le intenzioni sono certo diverse, avrebbe detto Viktor Klemperer: quelle fittizie del personaggio creato da Lampedusa erano pessime e riprovevoli; sono invece ottime e lodevoli quelle reali di chi ha steso quel programma. Ci si troverebbe quindi, di nuovo, davanti a un caso di "Quando due fanno la stessa cosa...", con la soluzione morale proposta dal filologo tedesco e ricordata nel frustolo precedente.
Ma sono identiche o molto simili non tanto (o non solo) le parole (che valgono solo in funzione dei contesti) quanto cose ancora più sottili e importanti, e più rivelatrici, cioè le strutture linguistiche, le forme argomentative e le modalità di presentazione del ragionamento. Ed è uguale un tratto pertinente del contesto, che nei due casi è quello di un mutamento. Da cavalcare, dice l'enunciatore impossessatosi del "noi", senza farsi disarcionare.
Apollonio non sa cosa dire. È solo un osservatore dell'espressione. Non ha le certezze di Viktor Klemperer. E, d'altra parte, Klemperer trattava di tragedie; qui, ragionevolmente, si parla di farse e di pretesti per organizzare un bel convegno a spese di qualcuno che fa finta di crederci (o pensa gli convenga far finta di crederci). E si perde il proprio tempo ad occuparsi di prose del genere, invece di trascorrerlo con espressioni dello spirito umano, come il romanzo dI Lampedusa, che invece arricchiscono. 
Considerino però i cinque lettori che il caso è presentato come esempio di scuola: d'una scuola ideale di perdigiorno cultori di una futile attenzione alla lingua (che non è fatta solo di parole), definibile forse come critica linguistica. E gli esempi di scuola, si sa, son sempre un po' sciocchi e gratuiti. Proprio come questo frustolo.

22 febbraio 2012

La resa del filologo

Già ricordato in questo blog, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo di Viktor Klemperer è un libro uscito nell'immediato Dopoguerra in Germania, la cui traduzione è stata di recente riproposta in Italia sull'onda di un apparente e montante interesse del ceto intellettuale nazionale per gli usi degenerati della lingua nella comunicazione politica e, in generale, pubblica. 
In esso, l'autore (che fu un importante filologo romanzo, allievo di una scuola accademica della massima rilevanza culturale) presenta con lucida acribia e con maltrattenuta passione le molte sconcezze dell'espressione tedesca avvelenata dal nazismo. Egli le aveva raccolte con cura maniacale e in condizioni difficilissime, durante gli anni terribili in cui, perché ebreo, era prima stato privato della facoltà di insegnare e di studiare, quindi quasi della possibilità di vivere (dovendo la sua sopravvivenza anzitutto alla dedizione di una moglie 'ariana' che, eroicamente, non si piegò mai alle orrende condizioni cui anche lei si trovava a essere sottoposta per la mai rinnegata relazione coniugale, infine a un rocambolesco intrecciarsi di eventi tutti singolarmente esiziali ma, nell'insieme, chissà come, salvifici).
Nel libro non si può dire manchino le note della tragedia, ma il suo capitolo più tragico, a parere di Apollonio, è il ventitreesimo, sta al centro dell'opera e s''intitola "Quando due fanno la stessa cosa...". Esso rende conto della consapevolezza dell'autore di una circostanza che gli era stato possibile verificare quando, libero da minacce, era potuto tornare al suo lavoro e alle sue cure disciplinari. Molte delle espressioni, delle parole e delle locuzioni che gli erano parse e aveva mostrato appunto essere invereconde sconcezze su labbra o sotto penne naziste o influenzate dal nazismo ritornavano sotto i suoi occhi, nella comunicazione pubblica, nella propaganda e anche nella lingua di tutti i giorni della Russia sovietica e della Germania che le faceva da satellite, dove peraltro Klemperer era ritornato alla sua vita accademica di sempre.
In quel capitolo, Klemperer depone le armi della critica della sua disciplina che la violenza nazista non era mai riuscita a fargli abbassare. In quel capitolo, egli tradisce la sua vocazione e la sua scienza, con una macchia che non può non estendersi a tutto il suo libro: "Non c'è dubbio che il bolscevismo, per quanto riguarda la tecnica, vada a scuola dagli americani e che stia compiendo una appassionata opera di tecnicizzazione del proprio paese, di cui devono esserci fortissime tracce nel linguaggio. Ma per quale motivo compie quest'opera? Per garantire agli abitanti un'esistenza più degna dell'uomo, migliorando le condizioni materiali grazie all'alleggerimento della pressione e della fatica del lavoro. Quindi la recente comparsa di molti termini tecnici nella sua lingua significa esattamente l'opposto di quel che significa nella Germania hitleriana: essa indica il mezzo con cui si combatte la battaglia per la liberazione dell'intelletto mentre in Germania la devo riconnettere necessariamente alla sua schiavizzazione. Quando due fanno la stessa cosa... Banalissima saggezza. Ma nel mio taccuino del filologo voglio sottolineare la versione che interessa la mia professione: quando due si servono della medesima forma di espressione non è detto che siano mossi dalla medesima intenzione. Proprio oggi voglio sottolineare questo con la massima forza ed evidenza, perché ora abbiamo un disperato bisogno di conoscere il vero spirito dei popoli da cui siamo stati tenuti lontani tanto a lungo, sui quali ci hanno raccontato tante menzogne. E su nessun altro popolo siamo stati ingannati quanto su quello russo... Niente ci avvicina di più all'anima di un popolo quanto la lingua... Però: 'gleichschalten' e 'ingegnere dell'anima' sono entrambe espressioni tecniche, ma la metafora tedesca conduce alla schiavitù, quella russa indica la libertà".
"No, professor Klemperer", se ancora gli si potesse dire, Apollonio gli direbbe. Il filologo, come fatti della sua disciplina, ha solo le parole. Le intenzioni, come ogni scienziato, lascia che le valutino i preti, se ne sono capaci, ammesso che l'unico che può conoscerle, cioè Dio, voglia concedere loro di leggerle nel labirinto dell'animo umano. 
Se non vuole tradirsi, se non vuole distruggere la sua disciplina e la sua superiore osservanza, il filologo, professor Klemperer, ha da tenersi all'espressione e alle sue parole. Se esse sono sconce, che a dirle siano stati, in ordine cronologico sparso, americani, nazisti o bolscevichi, con le loro intenzioni eventualmente diverse, poco importa: sconce e ributtanti rimangono.
Lo sono, del resto, le loro repliche odierne, tutte rivestite, nel Newspeak, da millantate aspirazioni e da promesse di miglioramento e di nuove libertà, che nessun filologo, nessun linguista si impegna purtroppo a smascherare, inchiodando con le armi della sua scienza chi le usa e le sue presunte intenzioni alla lampante fattualità delle sue vergognose espressioni.

Una voce, d'improvviso, nasale

La prima persona che ascolta ciò che un essere umano dice è lui medesimo: è quasi oltraggioso dell'intelligenza che lo si debba spesso ricordare ai fanatici (in buona o in cattiva fede) della cosiddetta comunicazione. E, visto che la lingua è soprattutto lingua interiore e ciò che si dice è solo piccola parte emersa di tale lingua interiore, nella stragrande maggioranza dei casi, oltre a esser la prima che ascolta, è anche la sola persona che lo faccia.
Riconoscere la propria voce, riconoscere che ciò che viene detto viene detto dalla persona che ascolta è di conseguenza un processo fondamentale dell'espressione (oltre che della costituzione e della valorizzazione dell'io). Senza tale autoriconoscimento, l'espressione andrebbe a ramengo. Ben più che a ramengo andrebbe, di conseguenza, la comunicazione.
Per questa ragione, del resto, si ha una voce per ogni circostanza interiore. Quando ci si produce in una voce carezzevole è per primo il nostro orecchio che si vuole carezzare, che amplifica così, con un processo di ritorno, la 'carezzevolità' dell'attitudine (e quindi dell'eventuale situazione comunicativa).
C'è una voce del fastidio e della ripulsa. C'è una voce della verità e una della menzogna: perché l'orecchio di chi parla, e che lo ascolta, sa bene se, quanto sta sentendo dire, è vero o falso e se, esprimendosi, chi parla pensa, magari a torto, di avere qualcosa da nascondere.
Ad Apollonio è del resto capitato di osservare come, in circostanze topiche, voci note prendano modi inusitati e, prima ancora dell'esame dei contenuti dell'espressione, suonino, a chi sa capirle, come allarmi, annunciando per esempio un'imminente aggressione. 
Ma gliene viene in mente adesso soprattutto una, che d'abitudine sgorgava da una piena gola e che, invece, diventava di botto nasale, quasi a camuffarsi per pudore, quasi a rendersi meno facilmente riconoscibile, in quei casi, al solo orecchio (non solo interiore) capace di valutarne, impietosamente, la probità: "No, orecchio mio, non son io che parlo. Lo senti? Non è la mia voce. Qualcosa, qualcuno lo sta facendo in me". 

Intolleranze (5): Rivoluzione copernicana

Ci si rivolga con fiducia agli storici del lessico intellettuale e ai loro acuminati strumenti filologici per sapere del paradossale percorso di rivoluzione e della sua fortuna moderna, certo bizzarra.
Igor Strawinsky diceva di non potere sentire menzionare la parola "sans penser à l'entretien que G.K. Chesterton nous raconte qu'il eut, en débarquant en France, avec un cabaretier de Calais. Ce dernier se plaignait amèrement de la dureté de la vie et du manque croissant de liberté: 'C'est bien la peine, concluait le cabaretier, d'avoir fait trois révolutions pour en revenir toujours au même point'. Et Chesterton de lui faire remarquer qu'une révolution, au sens propre du terme, est le mouvement d'un mobile qui parcourt une courbe fermée et revient ainsi au point d'où il était parti...".
Ripensando di tanto in tanto a queste parole, Apollonio sorride di gusto. Non depone però la sua istintiva simpatia per rivoluzione. Non tanto perché essa fu vacuo vocabolo della sua giovinezza (di cui, come tutti, ha ricordi teneramente critici), quanto perché lo fu pieno e serio della sua infanzia. Almeno a partire dalla metà del secolo diciannovesimo, rivoluzione era entrata a far parte infatti del lessico basso e familiare cui attingeva certo sua nonna analfabeta (nata nel 1886, morta, guarda caso, nel 1968) quando, con accento di Terranova, apostrofava gli intemperanti nipoti e la loro scalmanata compagnia con un "E che è tutta questa rivoluzione!".
L'istintivo trasporto per rivoluzione cessa in lui tuttavia e si muta in repulsione e intolleranza non appena al povero e amabile sostantivo (vecchio pirata lessicale, rotto a tutte le storiacce del Moderno) viene associato l'attributo copernicana, in uno stilema che dovrebbe far tanto chic. Da qualche decennio, il connubio compare infatti sovente nei discorsi della gente di mondo e fa da stigma, certo ormai un po' dilavato, dell'espressione che in questo blog passa, come sanno i cinque fedeli lettori, per "lingua loro". 
Tutte le volte che qualcuno dell'eletta schiera allude all'idea di un cambio di prospettiva, in funzione di qualsivoglia aspetto della vita, soprattutto sociale, ecco presentarsi una rivoluzione copernicana, associata a predicati verbali e nominali come è necessaria, serve, occorre, non è rinviabile e simili, anch'essi tipici dell'eterna retorica da pulpito dei ceti dirigenti italiani, soprattutto di quelli immaginari, come sono gli intellettuali.
Anche qui, è appena il caso di dire che Apollonio non ha nulla contro copernicana né contro Copernico, per cui nutre, al contrario, un'ammirazione sterminata e ancora maggiore, se fosse possibile, sapendo che il buonuomo, pur consapevole dell'importanza capitale del suo lavoro e delle sue cogitazioni, fu (fin che poté) piuttosto restio a renderne manifesti gli esiti con clamorose pubblicazioni. Caso, anche questo, meritevole di riflessione in un'epoca in cui al clamore delle sortite pubbliche si affida ormai la valutazione del valore della ricerca scientifica.
L'intolleranza di Apollonio è dunque sintagmatica e non lessicale. Da soli, né rivoluzionecopernicana lo muovono al ribrezzo. La loro combinazione in un nesso, sì. E il ricorrere di tale nesso appunto nei discorsi di chi, proferendolo, si rivela indegno di avere semplicemente sulle labbra tanto rivoluzione, il cui fascino popolare, anche se oggi frusto e consumato, è ormai intramontabile, quanto copernicana, attributo di nobilissima elevatezza intellettuale.

18 febbraio 2012

A frusto a frusto (12)




La via che porta dritti all'inferno, lastricata che sia d'intenzioni buone o cattive, è certo una vertiginosa infilata di vicoli ciechi.

15 febbraio 2012

A frusto a frusto (11)




On naît incendiaire, pour mourir pompier, dit-on. Ergo, un incendiaire n'est qu'un pompier encore vert: le temps se charge simplement de le faire mûrir.

13 febbraio 2012

Costanza della lingua

La lingua cambia, certamente. Ma non migliora né peggiora. Resta buona (o cattiva?) com'è, sotto forme sempre diverse.
Possono sconcertare, far sorridere o disperare, entusiasmare o prostrare gli usi che capita ne facciano gli esseri umani. Possono parere indici di sorti magnifiche o di degradi irreparabili: magari, per la transeunte vicenda di una lingua specifica, essi appaiono tali con il massimo di credibilità accordabile al fare umano. Sul lato del positivo, potrebbe mai negarlo, con riferimento all'uso di Dante, un italofono consapevole? Su quello del negativo, come non inorridire in faccia ai commerci quotidiani dell'eterno Newspeak
La lingua permane, tuttavia. La lingua è costante. Ripara rapidamente i guasti che vi produce l'ignobile che la sfrutta e sta sempre pronta a darsi con dedizione al nobile che l'esalta. Per questa ragione, cambia incessantemente. Non migliora: è buona (o cattiva?) e non ne ha bisogno. Se migliorasse, infatti, apparterrebbe al mucchio informe di tutto ciò che, potendo migliorare o essere migliorato, è ineluttabilmente destinato a peggiorare.

7 febbraio 2012

Caratteri (6)




Sì, per godere nella carne e nello spirito, capita rubi. E quando, invece, la mia tavola è ricca, non disdegno il piacere di farne partecipi altri. Ma agli altrui avanzi, alle elemosine preferisco di gran lunga la fame.