Ci si rivolga con fiducia agli storici del lessico intellettuale e ai loro acuminati strumenti filologici per sapere del paradossale percorso di rivoluzione e della sua fortuna moderna, certo bizzarra.
Igor Strawinsky diceva di non potere sentire menzionare la parola "sans penser à l'entretien que G.K. Chesterton nous raconte qu'il eut, en débarquant en France, avec un cabaretier de Calais. Ce dernier se plaignait amèrement de la dureté de la vie et du manque croissant de liberté: 'C'est bien la peine, concluait le cabaretier, d'avoir fait trois révolutions pour en revenir toujours au même point'. Et Chesterton de lui faire remarquer qu'une révolution, au sens propre du terme, est le mouvement d'un mobile qui parcourt une courbe fermée et revient ainsi au point d'où il était parti...".
Ripensando di tanto in tanto a queste parole, Apollonio sorride di gusto. Non depone però la sua istintiva simpatia per rivoluzione. Non tanto perché essa fu vacuo vocabolo della sua giovinezza (di cui, come tutti, ha ricordi teneramente critici), quanto perché lo fu pieno e serio della sua infanzia. Almeno a partire dalla metà del secolo diciannovesimo, rivoluzione era entrata a far parte infatti del lessico basso e familiare cui attingeva certo sua nonna analfabeta (nata nel 1886, morta, guarda caso, nel 1968) quando, con accento di Terranova, apostrofava gli intemperanti nipoti e la loro scalmanata compagnia con un "E che è tutta questa rivoluzione!".
L'istintivo trasporto per rivoluzione cessa in lui tuttavia e si muta in repulsione e intolleranza non appena al povero e amabile sostantivo (vecchio pirata lessicale, rotto a tutte le storiacce del Moderno) viene associato l'attributo copernicana, in uno stilema che dovrebbe far tanto chic. Da qualche decennio, il connubio compare infatti sovente nei discorsi della gente di mondo e fa da stigma, certo ormai un po' dilavato, dell'espressione che in questo blog passa, come sanno i cinque fedeli lettori, per "lingua loro".
Tutte le volte che qualcuno dell'eletta schiera allude all'idea di un cambio di prospettiva, in funzione di qualsivoglia aspetto della vita, soprattutto sociale, ecco presentarsi una rivoluzione copernicana, associata a predicati verbali e nominali come è necessaria, serve, occorre, non è rinviabile e simili, anch'essi tipici dell'eterna retorica da pulpito dei ceti dirigenti italiani, soprattutto di quelli immaginari, come sono gli intellettuali.
Anche qui, è appena il caso di dire che Apollonio non ha nulla contro copernicana né contro Copernico, per cui nutre, al contrario, un'ammirazione sterminata e ancora maggiore, se fosse possibile, sapendo che il buonuomo, pur consapevole dell'importanza capitale del suo lavoro e delle sue cogitazioni, fu (fin che poté) piuttosto restio a renderne manifesti gli esiti con clamorose pubblicazioni. Caso, anche questo, meritevole di riflessione in un'epoca in cui al clamore delle sortite pubbliche si affida ormai la valutazione del valore della ricerca scientifica.
L'intolleranza di Apollonio è dunque sintagmatica e non lessicale. Da soli, né rivoluzione né copernicana lo muovono al ribrezzo. La loro combinazione in un nesso, sì. E il ricorrere di tale nesso appunto nei discorsi di chi, proferendolo, si rivela indegno di avere semplicemente sulle labbra tanto rivoluzione, il cui fascino popolare, anche se oggi frusto e consumato, è ormai intramontabile, quanto copernicana, attributo di nobilissima elevatezza intellettuale.
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