La lingua cambia, certamente. Ma non migliora né peggiora. Resta buona (o cattiva?) com'è, sotto forme sempre diverse.
Possono sconcertare, far sorridere o disperare, entusiasmare o prostrare gli usi che capita ne facciano gli esseri umani. Possono parere indici di sorti magnifiche o di degradi irreparabili: magari, per la transeunte vicenda di una lingua specifica, essi appaiono tali con il massimo di credibilità accordabile al fare umano. Sul lato del positivo, potrebbe mai negarlo, con riferimento all'uso di Dante, un italofono consapevole? Su quello del negativo, come non inorridire in faccia ai commerci quotidiani dell'eterno Newspeak?
La lingua permane, tuttavia. La lingua è costante. Ripara rapidamente i guasti che vi produce l'ignobile che la sfrutta e sta sempre pronta a darsi con dedizione al nobile che l'esalta. Per questa ragione, cambia incessantemente. Non migliora: è buona (o cattiva?) e non ne ha bisogno. Se migliorasse, infatti, apparterrebbe al mucchio informe di tutto ciò che, potendo migliorare o essere migliorato, è ineluttabilmente destinato a peggiorare.
La lingua è dunque indifferente ad ogni possibile pensare ed agire umano, pur contendolo interamente, mi sembra, ed essendo l'unica marca distintiva e specificativa di ciò che umano è rispetto a quanto non lo è. Qui Apollonio si situa ben oltre, se non erro, la semplice constatazione che è impossibile escludere l'ipotesi per cui l'attività funzionale della lingua si sviluppi negli esseri umani ed anche altrove. Intensissima la sensazione di verità verificabile mille e più volte.
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