11 ottobre 2024

Per il centoventottesimo anniversario di Roman Jakobson

Ciò che Roman Jakobson professò nella sua maturità di studioso incoraggia a formulare un'ipotesi: per un essere umano, venire al mondo è la messa in opera di un'intenzione vitale (cioè espressiva) e comunicativa. La sua prima intenzione con una manifestazione. Nel caso di Jakobson medesimo, la manifestazione di tale intenzione avvenne a Mosca nel 1896. 
Né il luogo né il tempo furono ovviamente esiti di una scelta personale. Nessuno può fare come gli aggrada al riguardo e si è obbligati a prendere ciò che capita. Affacciandosi alla vita, che è come gettarsi nel flusso di una catena sintagmatica, si accetta (senza possibilità di rifiuto) una sorta di collasso della paradigmatica. Come se il tutto si verificasse sotto il segno della funzione poetica, senza che dell'ipotetico poeta resti altra traccia. In qual genere poi si inscriverà il componimento, come vi si mescoleranno il comico, l'elegiaco, il tragico e (favorevole un'epoca) perfino l'epico, si saprà irrimediabilmente strada facendo, caso mai, e, a dire il vero, solo a cose fatte per intero. 
Ma da Jakobson ebbero precocissima e piena adesione spirituale il luogo di quella sua prima intenzione realizzata e, in coordinazione con il tempo, ciò che al luogo si correlava culturalmente. E se le vicende della sua vita lo fecero esule più di una volta e titolare, negli anni, di cittadinanze diverse, egli curò infine che rimanesse testimonianza di quella adesione originaria, con un messaggio dal valore emotivo e referenziale al tempo stesso.
Nel 1896, il codice vigente a Mosca denominava 29 settembre il giorno in cui Jakobson nacque. Il codice vigente a Berlino, a Parigi, a Londra, a Roma lo denominava invece 11 ottobre. Effetto del noto divario tra calendario giuliano (allora in uso in Russia) e calendario gregoriano. E buona illustrazione della convenzionalità del tempo cronico. Così l'avrebbe qualificato anni dopo, con apparente pleonasmo, Émile Benveniste, per differenziarlo dal tempo che qualificò come fisico e da quello che qualificò come linguistico. 
Fare emergere e cogliere ordinate differenze nell'espressione umana fu, come si sa, fisima di molti linguisti del Novecento, convinti che proprio nella differenza si dovesse cercare la specificità di quella dote che, inquadrata con i mezzi di qualsiasi scientismo naturalista, non può che parere più che  bizzarra, quando è invece tanto ordinaria da farsi quasi sempre fucina di piatte stupidità fàtiche. 
Jakobson contribuì decisivamente all'impresa della determinazione delle differenze. Si può dire che ne fu il campione. Un indirizzo in tal senso gli era d'altra parte venuto dal magistero del connazionale Nikolaj Trubeckoj, che, ammesso l'avesse potuto e voluto, non ebbe il tempo di riparare nel Nuovo Mondo, come Jakobson fece avventurosamente, quando nel cuore del Vecchio erano evidenti i segni che si era già andati verso il peggio.
Un indice dei nomi presenti in questo diario, se mai lo si compilasse, direbbe che Jakobson, Roman è forse il nome con il maggior numero di ricorrenze (e non sempre per manifestare un consenso da parte di chi lo menziona). Gli fa certamente concorrenza Saussure, Ferdinand de, il cui titolare nacque addirittura nel 1857. Insomma, gente del tempo che fu. 
C'è criterio più chiaro e inequivocabile per sancire l'inattualità di Apollonio e di quanto propone qui, quando si è da un pezzo nel Ventunesimo secolo?
In una conversazione privata di qualche tempo fa e con riferimento ai nominati, da un buon sodale venne ad Apollonio e al suo alter ego il commento: "Torneranno...". L'intenzione era amichevolmente consolatoria. E a suo modo liquidatrice, come sono quasi sempre le consolazioni. 
Con il suo alter ego, Apollonio apprezzò l'intento ma sorrise intimamente del suo metodo e del suo merito. Per lui Jakobson non se n'è mai andato. E con lui, mantengono la loro viva presenza altri i cui nomi non sempre compaiono in questo diario o che non vi compaiono con la stessa frequenza, ma che vi operano attivamente. Non è del resto svanito il gran tema umano che aveva appassionato tutti costoro, in modi e da punti di vista diversi.
Caso mai, ad andare e venire (quindi a tornare, con diversa valorizzazione della marcatezza non tanto dello spazio, quanto della persona: di nuovo, fisime da linguisti) è stata, è e sarà la corte degli orecchianti. Essa regola infatti i propri usi e soprattutto i propri abusi in conformità con gli andazzi.
Ma ci sia o non ci sia folla intorno, in permanente compagnia di Jakobson sta un piccolo novero di persone felici. Apollonio ne fa parte. Come può, naturalmente, e con i suoi limiti, come testimonia la sommessa celebrazione qui officiata.

Nel séguito, un po' a casaccio e senza pretesa di completezza, pagine di questo diario in cui Roman Jakobson fa da (co)protagonista:







[Dall'alter ego giunge ad Apollonio il rimprovero di non avere menzionato qui anche il frutto di un suo modesto impegno. Se ne trova in effetti testimonianza nella colonna che affianca i frustoli, ma forse ha ragione e gli si accorda una ridondanza.]





Nessun commento:

Posta un commento