9 febbraio 2025

Linguistica candida (73): Nomi propri. Embè?

Il nome proprio è un ineffabile mistero, riflesso, come si sa, fin dentro le Tavole della Legge affidate a Mosè e da lui originariamente divulgate. Allo spirito grosso di Apollonio (e a quello comparabile, se non più grosso, del suo alter ego), esso si presenta però nella maniera meccanica della sintassi, che è come dire "della composizione" (non si dovrebbe mai omettere di chiarirlo, caso mai sfuggisse).
Ciò non vuole dire che siano a suo avviso infondate o, si direbbe con Galileo, "di lana caprina", le questioni che si addensano sopra il tema per ogni sorta di pensiero esoterico e di correlata pratica (religioni, logica, filosofia e chi più ne ha più ne metta). 
Non nega di averne il sospetto, tuttavia. Forse per mascherare una scarsa fiducia in se stesso. Di fronte a esse, prova infatti un senso di inadeguatezza di capacità e competenze. Ad attirarlo, al contrario, sono faccende minuscole. Un esempio? Quattro (fra gli innumerevoli possibili).
A sequenze come arrivafelice ([ar'ri:vafe'li:tʃe]), labiondacantava ([la'bjondakan'ta:va]), recitabene (['rɛtʃita'bɛ:ne]), vieneassunta ['vjɛneas'sunta], chi le ascolta assegna immediatamente e implicitamente differenti analisi e quindi valori diversi (cioè diverso significato e, si badi bene, anche se non pare, diverso significante) secondo che, per dirla con il comodo artificio concesso dall'ortografia, nel primo caso intenda felice o Felice, nel secondo, la bionda o La Bionda (Carmelo), nel terzo, bene o Bene (Carmelo), nel quarto assunta o Assunta. Perché?
Attenzione: rispondere snocciolando oppositivamente i relativi termini categoriali (aggettivo o nome proprio, nel primo caso; nel secondo, articolo e nome comune o nome proprio; nel terzo, avverbio o nome proprio; nel quarto, participio o nome proprio) è produrre tautologie. I termini categoriali, con i loro riferimenti, sono infatti mere chiose parafrastiche del problema, non sue spiegazioni. 
Nella sua interezza, la grammatica dei grammatici (che oggi passano per linguisti) ha d'altra parte questo carattere: è un modo di assegnare un nome ("proprio": cioè un termine) a qualcosa, illudendo (e forse illudendosi) che ciò equivalga a chiarirla, quando consiste soltanto nel servirsi di etichette millenarie e non pensarci più. A frequentare certe opere che si pretendono linguistiche, "Warum? Hier ist kein Warum" verrebbe fatto di commentare, per fortuna solo ironicamente, ricordando il tragico resoconto che Primo Levi fece del fallimento della ragione moderna.
Per farsi appunto una ragione di quisquilie come le menzionate, all'alter ego di Apollonio, come forse sanno i due lettori di questo diario, è capitato qualche anno fa di scrivere addirittura un libro sulle procedure con le quali nella lingua si producono (talvolta, per poi sciogliersi) quei coaguli funzionali che per tradizione grammaticale vengono appunto detti nomi propri (e anche di pubblicarlo, grazie alla benevolenza di un amico)
Vi ha messo dentro un po' delle riflessioni e delle divagazioni che ha dedicato al mistero dei nomi propri, in qualche decennio di scapestrataggine disciplinare (non vige oggi un corrivo culto degli ossimori? Si lasci che anche questo diario vi indulga, di tanto in tanto). A ispirarle, lo si ribadisce, solo il desiderio, strettamente personale, di capirci qualcosa.
Declinato intimamente, tale desiderio è in fondo solo il modesto riflesso di un'attitudine tipica dell'epoca che, nei suoi estremi bagliori, procurò la provinciale formazione di Apollonio e del suo alter ego. L'utopia (di nuovo) moderna (ma ci fu mai evo più contraddittorio?) di una conoscenza che prova a (o forse solo pretende di) ridurre un mistero, qualsiasi mistero, per sua natura indefinito, alla definizione di un problema. Meglio, di una serie di problemi, da affrontare uno per uno, ordinatamente, nella speranza di un'intelligenza che non se ne lasciasse sopraffare. 
Così insegnava un tempo, si pensi, già agli alunni e alle alunne della scuola primaria italiana, il racconto guerresco, ma per antica allegoria, della leggenda romana degli "Orazi e Curiazi", traendone l'indicazione di una prassi procedurale che, proprio in quanto tale, associava a un'etica una teoretica della ragionevolezza.

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