"Di tutti i beni terreni il migliore è non nascere | né avere mai visto gli ardenti raggi del sole, | e, nato, di passare al più presto le porte dell'Ade, | riposando sotto una spessa coltre di terra": disse più o meno questo il megarese Teognide, veridico, antipatico e impietoso, or sono quasi ventisei secoli (si tratta dei celebri versi 425-428 della sua prima elegia, secondo le edizioni correnti). Chissà quanti, prima di lui, lo pensarono e lo proferirono nei modi delle loro lingue e negli angoli più diversi del mondo. Senza la capacità di lasciarne una traccia per iscritto, però, come egli ebbe invece la ventura. Provvida e incongrua ventura.
Sulla sua scorta e come nobile tradizione, è infatti un'idea che hanno ribadita in tanti, enunciandola con accenti diversi ("...è funesto a chi nasce il dì natale"). E, se ci si pensa bene, tutte le volte che ciò è avvenuto e avviene, come qui con l'originale in figura e un'approssimativa resa italiana in esordio, lo si è fatto e lo si continua a fare ponendo l'enunciato e la sua enunciazione in un rapporto paradossale. È una testimonianza di vita (un martirio, ci sarebbe da dire con i Greci), che si manifesta per via gnomica negando valore alla vita: "E malgrado tutto, si è qui ad affermarlo ancora una volta".
Fini e cause hanno la parte del leone nelle argomentazioni. Si tratta, ragionevolmente, di ingredienti fondamentali ed endossali del "brodo di coltura" culturale che, antropologicamente, ha finito per imporsi in ogni dove. Dipinge se stesso, di conseguenza, come universale e, totalitario com'è, capita anche si spacci da "natura umana".
Chi se ne nutre d'elezione, vi cresce e vi prolifera, qualsiasi cosa faccia, dice di farla per un motivo. Bel modo, motivo, per esprimersi in proposito. Ciò che muove all'azione è fine o causa? Che importa? Ambiguamente, importa che muova... Anche quando ci si interroga sugli altri: "E il movente?", appunto.
È facile immaginare allora come la congiunzione di subordinazione perché ricorra più frequentemente di molte altre, se non di tutte, anche grazie alla sua sfacciata ambiguità (che molto somiglia a quella di motivo), risolta, caso mai e contestualmente, dal modo del verbo che la segue: Faccio così perché mi amano / perché mi amino.
L'opposizione modale si neutralizza invece sotto la portata di sebbene (come di molti suoi sinonimi): ...sebbene mi amino. Ma si tratta, va precisato, di fatto formale più che funzionale. Si consideri infatti l'equivalente ...anche se mi amano, in cui la neutralizzazione si fa sotto altra forma. Il congiuntivo, l'indicativo non sono sempre la stessa cosa, come insegna la linguistica, la vera: in un caso come questo, sono varianti combinatorie.
Nelle grammatiche, si dicono concessive queste correlazioni. L'etichetta somiglia a una vereconda cortina: copre infatti un'operazione concettuale e compositiva di ardua semplicità. Il suo paradosso si oppone in effetti al quel "brodo di coltura" endossale delle cause e dei fini.
Anche per tale ragione, ciò che dicono sebbene e i suoi sinonimi pare ad Apollonio più profondamente umano, quindi più linguisticamente rivelatore del quid dell'agire degli esseri umani, del correlato esprimersi e, in fin dei conti, del loro essere al mondo, radicalmente contraddittorio. Con la sua enunciazione, Teognide l'enunciò e, come per contraddirsi ancora più apertamente, nel momento stesso in cui lo enunciava, lo scrisse, dandogli addirittura durata.