25 maggio 2025

"Sebbene", ancora

"Di tutti i beni terreni il migliore è non nascere | né avere mai visto gli ardenti raggi del sole, | e, nato, di passare al più presto le porte dell'Ade, | riposando sotto una spessa coltre di terra": disse più o meno questo il megarese Teognide, veridico, antipatico e impietoso, or sono quasi ventisei secoli (si tratta dei celebri versi 425-428 della sua prima elegia, secondo le edizioni correnti). Chissà quanti, prima di lui, lo pensarono e lo proferirono nei modi delle loro lingue e negli angoli più diversi del mondo. Senza la capacità di lasciarne una traccia per iscritto, però, come egli ebbe invece la ventura. Provvida e incongrua ventura.
Sulla sua scorta e come nobile tradizione, è infatti un'idea che hanno ribadita in tanti, enunciandola con accenti diversi ("...è funesto a chi nasce il dì natale"). E, se ci si pensa bene, tutte le volte che ciò è avvenuto e avviene, come qui con l'originale in figura e un'approssimativa resa italiana in esordio, lo si è fatto e lo si continua a fare ponendo l'enunciato e la sua enunciazione in un rapporto paradossale. È una testimonianza di vita (un martirio, ci sarebbe da dire con i Greci), che si manifesta per via gnomica negando valore alla vita: "E malgrado tutto, si è qui ad affermarlo ancora una volta".
Fini e cause hanno la parte del leone nelle argomentazioni. Si tratta, ragionevolmente, di ingredienti fondamentali ed endossali del "brodo di coltura" culturale che, antropologicamente, ha finito per imporsi in ogni dove. Dipinge se stesso, di conseguenza, come universale e, totalitario com'è, capita anche si spacci da "natura umana". 
Chi se ne nutre d'elezione, vi cresce e vi prolifera, qualsiasi cosa faccia, dice di farla per un motivo. Bel modo, motivo, per esprimersi in proposito. Ciò che muove all'azione è fine o causa? Che importa? Ambiguamente, importa che muova... Anche quando ci si interroga sugli altri: "E il movente?", appunto.
È facile immaginare allora come la congiunzione di subordinazione perché ricorra più frequentemente di molte altre, se non di tutte, anche grazie alla sua sfacciata ambiguità (che molto somiglia a quella di motivo), risolta, caso mai e contestualmente, dal modo del verbo che la segue: Faccio così perché mi amano / perché mi amino.
L'opposizione modale si neutralizza invece sotto la portata di sebbene (come di molti suoi sinonimi): ...sebbene mi amino. Ma si tratta, va precisato, di fatto formale più che funzionale. Si consideri infatti l'equivalente ...anche se mi amano, in cui la neutralizzazione si fa sotto altra forma. Il congiuntivo, l'indicativo non sono sempre la stessa cosa, come insegna la linguistica, la vera: in un caso come questo, sono varianti combinatorie. 
Nelle grammatiche, si dicono concessive queste correlazioni. L'etichetta somiglia a una vereconda cortina: copre infatti un'operazione concettuale e compositiva di ardua semplicità. Il suo paradosso si oppone in effetti al quel "brodo di coltura" endossale delle cause e dei fini. 
Anche per tale ragione, ciò che dicono sebbene e i suoi sinonimi pare ad Apollonio più profondamente umano, quindi più linguisticamente rivelatore del quid dell'agire degli esseri umani, del correlato esprimersi e, in fin dei conti, del loro essere al mondo, radicalmente contraddittorio. Con la sua enunciazione, Teognide l'enunciò e, come per contraddirsi ancora più apertamente, nel momento stesso in cui lo enunciava, lo scrisse, dandogli addirittura durata. 

22 maggio 2025

Sommessi commenti sull'Ultra-Moderno (9): L'Intelligenza Artificiale, all'osso

Un dì lontanissimo, chi impugnò un osso e osservò che esso rompeva un cranio in un attimo e molto meglio di come si potesse farlo a mani nude provò certamente uno stupefatto entusiasmo. 
È ragionevole pensare che tale sentimento non fu diverso da quello di chi oggidì, felice o atterrito, poco importa, descrive le capacità della cosiddetta Intelligenza Artificiale nel compiere azioni che eccedono le consuete misure umane. 
Azioni siffatte vengono perciò spacciate come oltre-umane e persino come sovrumane. In realtà sono solo umane in eccesso. Sono troppo umane. Tendono moralmente di conseguenza verso quel ridicolo che si intreccia inscindibilmente con la tragedia.
E anche se l'Intelligenza Artificiale, come si dice, presto comincerà ad andare veramente da sé (c'è chi dice lo faccia già), tutto ciò che farà sarà, soltanto ingigantito, ciò che è tipico, nel bene, del poco acume e, nel male, dalla tanta stupidità della specie. Sempre ammettendo che i due àmbiti siano veramente distinguibili (à suivre).

20 maggio 2025

Sommessi commenti sull'Ultra-Moderno (8): "La serie"

Da qualche tempo e in un modo che pare al momento ineluttabile, i cosiddetti consumi culturali sono stati sommersi dalla marea della serialità. 
Ci si intenda, la serialità è un carattere specifico della temperie moderna. Ma "la serie", come ormai si usa dire, ha preso da qualche tempo i caratteri di un vero e proprio feticcio. È, conformisticamente, il modulo destinato a un'iterazione. 
Capita anche ad Apollonio di iterare, se si vuole dire così, i suoi consumi culturali. Ma preferisce allora gli incontri nuovi e singolari, quelli che (magari senza farcela, ci si intenda) si annunciano come compiuti e irripetibili. O come ripetibili ma non perché giocano sull'incompiutezza e profittano così della debolezza che sortisce dall'insoddisfazione di chi è preso all'amo del momentaneo soddisfacimento procurato da una dose. È l'estenuazione morale di una assuefazione morbosa o di una succube fidelizzazione: nello spirito del tempo, "tout se tient". Non sarebbe altrimenti lo spirito di un tempo cui il pusher, con le sue varianti, fa da emblema.
Senza pretesa di proporre chissà quale scoperta, questo frustolo suggerisce allora ai suoi due lettori di fermarsi per un attimo a guardare di sguincio il fenomeno della serialità nei consumi culturali: molto meno banale di ciò che pare, nella prospettiva ideologica. 
Sempre che sia ancora possibile e che chi sta leggendo non sia già anche lui o lei al fondo degli esiti liquidi di questo diluvio. Al fondo come un sasso, per via della pietrificazione che consegue dall'avere incrociato lo sguardo con la Gorgone.

 

16 maggio 2025

Come cambiano le lingue (20): "...non mi è stato paventato neanche per sbaglio di offrirmela..."

I segni che paventare fosse venuto a trovarsi nell'area di una frana linguistica rimontano perlomeno a or sono quattro lustri. Chissà come, chissà perché. Vicende linguistiche del genere illustrano infatti alla perfezione cosa sia un accidente. Dicono come capita appunto che qualcosa si verifichi inopinatamente. E d'altra parte illustrano come, davanti a un accidente, venga quasi sempre in mente che anche la vittima sia corresponsabile, che "se la sia andata a cercare", per dire così.
Intendiamoci: non si stanno attribuendo a una parola una (fantasiosa) disattenzione, una (misteriosa) volontà o un (perverso) desiderio. Al contrario, ci si sta chiedendo se a un essere umano, rispetto a ciò che gli capita, più spesso di quanto non si creda, non possa essere attribuita la stessa innocenza di cui si fa credito a una parola. Se non siano stati appunto il suo banale aspetto, la sua ingenua esistenza a cacciarlo in un guaio inatteso, come quello che, di botto, travolge una parola.
Il caso di paventare pare proprio di tal fatta. Un verbo dall'aria seria e pulita. Dall'uso raro e cólto. Dalla forma piana, però, e quindi particolarmente indifesa, con una coniugazione elementare e accessibile a chiunque. Pronta quindi per essere infilata nelle insalate con cui la lingua che si pretende ufficiale, tra burocrazia e politica, prova a darsi un tono. 
Orecchiato e incerto, infine, per la maggioranza, il suo valore. Non si dice "il significato": concetto sempre molto equivoco e soprattutto fuorviante, dal momento che induce a credere che una parola l'abbia per se stessa, quando invece il suo valore viene fuori per via delle relazioni di combinazione e di commutazione in cui essa entra. 
Insomma, c'è tutto per dire che paventare "se la sia andata a cercare", che fosse la vittima perfetta per le cattive intenzioni di chi volesse servirsene a suo piacimento, usandole violenza.
Già nel 2011, l'Accademia della Crusca, sollecitata in proposito, rispondeva pertanto allarmata, davanti a un caso ancora tutto sommato banale. E dopo un quinquennio, un celebre e attento osservatore delle forme espressive e comunicative nazionali scriveva: "Nel caso di paventare, converrà predisporsi alla rassegnazione". Lo faceva in uno scritto, dal titolo "Non avere paura, mettere paura / «Paventare» si è spostato". Dottamente, Cassandra vi compariva come prosopopea del buono e integro paventare d'un dì e oggetto di interesse erano, per contrasto, i paventare già in degrado esposti, come si diceva, dal discorso politico. 
Che ci fosse una frana era dunque da gran tempo evidente, ma oggi - si ha l'impressione - se ne possono osservare spettacolari sviluppi. Lo spostamento si è spinto molto avanti, come in effetti era prevedibile. Finita nello smottamento, una parola la si ritrova a valle. Il passaggio da 'avere paura' a 'mettere paura' è già di ieri. Oggi, nella Umgangssprache delle reti sociali, si è a un sinonimo di prospettare, quindi a una vox media, pari pari. 
L'immagine in alto esibisce un caso esemplare. Lo si è colto in una rete sociale, sotto la penna, si sarebbe detto un giorno, ora, meglio, sotto le dita di "un giornalista, scrittore, conduttore radiofonico e autore televisivo", recita la voce che Wikipedia dedica opportunamente al personaggio pubblico. Alla ricerca di un esempio, meglio di così, insomma, non si sarebbe potuto trovare, per i connotati enunciativi di rilievo. 
Si tratta infatti di un interprete perfetto della lingua come deve essere, della lingua di tendenza, che si esprime in una sede in cui si fa tendenza e in cui la tendenza si specchia, compiacendosi di se medesima. Da quel post, che ovviamente lo registra, verrà in effetti ancora una spinta al nuovo paventare, per via del gran numero di seguaci. 
E si conferma, caso mai ce ne fosse bisogno, che agenti del cambiamento linguistico vengono, come sempre, dal ceto semi-cólto: è insomma gente che scrive di letteratura e sui giornali, conduce spettacoli, presenta libri e, agitandosi nel mondo, coglie e fomenta i suoi andazzi.
Apollonio, come sanno i suoi due lettori, non è un aristarco. Non mena scandalo davanti ai cambiamenti. Non ha simpatia per chi lo fa e capita che di costoro rida. I reazionari non se ne rendono conto, ma sono solo un (marginale e spesso doloroso) effetto collaterale di ciò contro cui reagiscono e che, come testimonia per paradosso la loro medesima reazione, ha già evidentemente acquisito l'insopprimibile privilegio dell'esistenza: è insomma un dato osservabile della realtà.
L'ethos di questo frustolo è pertanto meramente documentario. Come cambiano le lingue, appunto: tema appassionante, da una prospettiva teoretica (e, da una etica, succulento; se il mondo non cambiasse, come se ne vedrebbero le comiche magagne?). La speranza è che, un giorno, il reperto renda un po' felice, come documento, chi farà ancora modesta professione di filologia, anche se Apollonio paventa che alla futile disciplina la tendenza non riservi un futuro.

11 maggio 2025

Sommessi commenti sull'Ultra-moderno (7): Quantità e qualità

Il tema è frusto e imponente. Questo frustolo non pretende certo di riscattarlo dal suo difetto né di esaurirne la taglia. Segnala soltanto, argomentando alla buona e molto rapidamente in proposito, che la e con cui, nell'espressione comune, si copulano le due nozioni cela la condizione ottimale per un malinteso. 
Il malinteso non è solo da ieri corrente, ovviamente, ma oggi è ben più che corrente in ogni dove, anche dove un dì sarebbe stato impensabile. E condizione assoluta per stabilire valori ed enunciare verità è che si siano contati i tokens, personalmente o, come è ormai pigra norma, affidando il compito a una macchina. Come se la macchina non rispecchiasse ciecamente e alla perfezione l'ordine umano che l'ha istituita e non fosse, eventualmente, scema come colui o colei che se ne serve.
Testualmente presentate come lo sono nel titolo, quantità e qualità si trovano in effetti a essere congiunte sopra un piede di parità. I due lettori di questo diario troveranno oltraggioso che Apollonio ricordi loro cosa è e. E che li inviti a considerare come, nei suoi usi banali (come è appunto in apparenza quello in esame), la congiunzione abbia l'ufficio di coordinare parole equipollenti. Equipollenti nella forma e nella funzione sintattica in maniera che si presta bene a equipollente interpretazione (o, come capita di sentire dire, senso, significato e così via: come si sa, in proposito non ci sono limiti all'invenzione).
Come fossero due tratti, quantità e qualità passano così come caratterizzazioni di egual peso da attribuire a ciò che, si ponga, si intende valutare. E non solo di egual peso, che già sarebbe una prospettiva meritevole di attento esame critico, ma soprattutto, nella loro fondamentale eguaglianza, atte ciascuna a qualificare indipendentemente, l'una senza l'altra, ciò cui si applicano. 
Qualificare: si faccia attenzione. Perché la lingua medesima svela a questo punto il malinteso e dice che tra quantità e qualità non c'è parità di livello ma, per dire così, gerarchia, organizzazione, sistema. Contare le ricorrenze di qualcosa è qualificarlo dalla prospettiva quantitativa. Attribuire a qualcosa una qualità è invece indipendente da qualsiasi quantificazione (ovviamente, a meno che, con una tautologia, la qualità in questione non sia una quantità). 
Indipendente in questa sede vale a dire che, nella determinazione di una qualità, qualsivoglia essa sia, l'atto di qualificare impegna chi lo compie teoreticamente e, si dirà, eticamente. Investe infatti tanto la sua dottrina, la sua capacità di discernere, quanto la sua responsabilità, quindi è cartina di tornasole della sua buona o malafede. Sono questi, com'è appena il caso di dire, ingredienti indispensabili della libertà umana. Affidata alle qualificazioni di mera quantità, la libertà umana può solo perire. 
Ma è già gravemente ammalata (e lo è - lo si ribadisce a scanso di equivoci - non da oggi) quando la coppia quantità e qualità circola, a fondamento dei pensieri e dei comportamenti, come se si trattasse di un accostamento alla pari. Una prospettiva foriera di un malinteso, come si è detto, se non pronta per un vero e proprio imbroglio, a uso di malintenzionati e malintenzionate, che non mancano mai tra gli esseri umani, non tanto quantitativamente, appunto, quanto qualitativamente.       

9 maggio 2025

Spettatore pagante (9): "Black bag" di Steven Soderbergh

Black
 e nero, bag e borsa sono parole che, grosso modo, corrispondono l'una all'altra nel lessico delle lingue da cui sono prese. Combinandosi, possono pure mantenersi piattamente denotative, tanto in inglese, quanto in italiano. Ma capita anche che scivolino figurativamente verso la connotazione e a quel punto, divenute insiemi compatti, prendono valori completamente diversi nelle due lingue. Rientrano insomma nel lessico come locuzioni: sequenze in cui, come nella poesia, secondo Roman Jakobson, la combinazione, cioè il rapporto sintagmatico, annichilisce la similarità, cioè l'eventuale commutazione paradigmatica. E la locuzione borsa nera non ha a quel punto niente da spartire con la locuzione black bag, comparsa, a quanto pare, or sono più o meno settanta anni, nella lingua speciale dell'intelligence, come ormai si dice comunemente in giro per il mondo. L'Oxford English Dictionary, a proposito di black bag, chiosa: "Designating a covert intelligence operation..." e procura anche un'attestazione.
Ecco il problema che ha dovuto risolvere chi ha curato la distribuzione in Italia del recente film sceneggiato da David Koepp e diretto da Steven Soderbergh. Il titolo originale della pellicola suona Black bag. Come mandarlo allora nelle sale italiane, senza evocare impropriamente borsa nera e dicendo di  cosa si tratta?
Ne è venuto fuori un compromesso: Black bag - Doppio gioco. All'originale è stata aggiunta un'ulteriore locuzione, come spiegazione. L'allusione è al campo semantico della fabula, utile a richiamare il pubblico e a collocare il film in un genere. Sullo schermo scorrono vicende che impegnano appunto persone professionalmente addette all'intelligence e alle azioni conseguenti. Ma la nuova locuzione è parecchio fuorviante, quanto al tema autentico del film.
Con doppio gioco si qualifica infatti la pratica di chi, in segretezza all'apparente servizio di una entità politica, presta in realtà il medesimo servizio a un'entità politica diversa e ostile alla prima. Non è il caso di nessuna figura del film di Soderbergh. Tutti e tutte lavorano a Londra per la maggiore gloria della Corona britannica. Lo fanno però con idee e progetti materiali differenti e, soprattutto, con un serpeggiante antagonismo reciproco. Questo sì celato sotto i modi della collaborazione e della colleganza, se non dell'amicizia e persino dell'amore. E, in correlazione con amore e amicizia, sotto i modi dell'opposizione tra fedeltà e infedeltà, tra verità e menzogna. Ecco la materia che agita la pellicola: combinazione e similarità; sintagmatica e paradigmatica.
Personaggi di opportuno supporto alla costruzione dell'intreccio fanno da contorno. Ma si tratta essenzialmente di ciò che succede fra tre coppie: tre donne e tre uomini. Ciascuna intreccia rapporti personali e professionali in apparenza semplici, in realtà piuttosto composti nella definizione delle reciproche unioni, quindi delle combinazioni, e delle eventuali commutazioni.
Lo si scopre via via che la narrazione procede e non si toglierà a chi legge queste note il piacere di vedere personalmente in sala come ciò avviene. Black bag è infatti una pellicola consigliabile: classicamente molto ben fatta, tanto negli aspetti diegetici quanto in quelli più specificamente cinematografici. Non vi mancano sequenze che, ispirandosi idealmente a modelli memorabili, aspirano esse stesse alla memorabilità.
Il protagonista impersona un ossimoro: ha una passione ma la esercita in modo freddo e razionale. Le motivazioni psicologiche di tale attitudine sono profonde e dolorose, si apprende di passaggio. Non sono edipicamente estranee al disordine di una menzogna nella sua famiglia di origine. La menzogna è quanto in più di un'occasione il personaggio dichiara di spregiare massimamente. Michael Fassbender presta in proposito un'interpretazione impeccabile.
Oggetto di quella passione, ricambiata, è la protagonista. Nel ruolo, Cate Blanchett, colta spesso in primi piani e in posture che ricordano grandi interpreti in opere di grandi registi del passato. Il personaggio fa da innesco della macchina narrativa. E d'altra parte a lei si devono il solo efficace uso personale di un'arma da fuoco e, come mandante, il solo scoppio che ricorre nella pellicola. Una donna elegante ed esplosiva.
Anche ciò dice come Black bag non sia ascrivibile alla corriva cinematografia di tema spionistico, in cui atti violenti e spettacolari scene di azione spesseggiano. Il film fa invece concessioni indispensabili, considerata l'aria del tempo, all'incombenza del controllo universale assicurato materialmente dalla tecnologia e spiritualmente dalla psicologia; ingrediente, quest'ultimo, che non manca di precedenti illustri, come si sa, nella storia del thriller.
Qual sia il black bag che fa da perno all'intreccio viene subito reso esplicito ma il suo recto lineare quanto enigmatico cela nel verso pieghe perverse e articolazioni inattese. Sono tutte riconducibili all'ambiguità della quarta persona grammaticale: 'noi'. Si tratta, come si è detto, di rapporti personali (amicizie, o presunte tali, e amori, o presunti tali) e 'noi', dei rapporti personali, in modo aperto o coperto, è l'architrave.
Il filo concettuale e narrativo del film appare a nudo in un momento rivelatore. A un dipresso (queste note pescano nella memoria di un semplice spettatore in sala), "Noi sappiamo dunque che non è stata tua moglie..." dice un personaggio al protagonista; è un dialogo cruciale, perché, nella prospettiva di quest'ultimo, il garbuglio si sta finalmente sciogliendo. E il protagonista di rimando: "Noi, chi?". Colto di sorpresa dalla sottile inquisizione, "Noi... tu ed io", risponde colui che ha incautamente proferito lo scabroso pronome: un vero e proprio lapsus. Nella sua spiegazione, è quindi un 'noi' che si presenta come inclusivo. Un 'noi' che include chi lo proferisce, ovviamente, ma anche chi, in linea di principio, lo subisce.
Orbene, nulla come un 'noi' inclusivo si presta bene a ingannare i gonzi, che vi finiscono dentro inconsapevoli, come dentro una trappola. Ma nulla più di un 'noi' inclusivo dichiara di essere una trappola a chi gonzo non è, a chi invece sa vedervi dentro e, del black bag, ha appunto intelligenza, etimologicamente.
Nell'attimo di quella titubanza c'è il decisivo annuncio della catastrofe e di chi ne finirà vittima. Un 'noi' saldissimo come una locuzione e senza menzogna, pur messo duramente alla prova da una contingente reticenza, smaschera i 'noi' effimeri e bugiardi che hanno attentato alla sua coesione. E quel 'noi' procede, in conclusione, a riaffermarsi, come una locuzione appunto, come una frase fatta o come il verso di una poesia. E annichilisce tutti i 'noi' concorrenti, sortiti da combinazioni finalmente accidentali, anche se volontaristicamente ordite. Un 'noi' da averne ammirata paura è forse il paradossale stigma finale del film.

1 maggio 2025

Caratteri (25)



Ottusamente, ciò che non capisce gli pare un errore. Dottamente, se ne impanca a giudice. Perversamente, gode al pensiero di correggerlo.