Black e nero, bag e borsa sono parole che, grosso modo, corrispondono l'una all'altra nel lessico delle lingue da cui sono prese. Combinandosi, possono pure mantenersi piattamente denotative, tanto in inglese, quanto in italiano. Ma capita anche che scivolino figurativamente verso la connotazione e a quel punto, divenute insiemi compatti, prendono valori completamente diversi nelle due lingue. Rientrano insomma nel lessico come locuzioni: sequenze in cui, come nella poesia, secondo Roman Jakobson, la combinazione, cioè il rapporto sintagmatico, annichilisce la similarità, cioè l'eventuale commutazione paradigmatica. E la locuzione borsa nera non ha a quel punto niente da spartire con la locuzione black bag, comparsa, a quanto pare, or sono più o meno settanta anni, nella lingua speciale dell'intelligence, come ormai si dice comunemente in giro per il mondo. L'Oxford English Dictionary, a proposito di black bag, chiosa: "Designating a covert intelligence operation..." e procura anche un'attestazione.
Ecco il problema che ha dovuto risolvere chi ha curato la distribuzione in Italia del recente film sceneggiato da David Koepp e diretto da Steven Soderbergh. Il titolo originale della pellicola suona Black bag. Come mandarlo allora nelle sale italiane, senza evocare impropriamente borsa nera e dicendo di cosa si tratta?
Ne è venuto fuori un compromesso: Black bag - Doppio gioco. All'originale è stata aggiunta un'ulteriore locuzione, come spiegazione. L'allusione è al campo semantico della fabula, utile a richiamare il pubblico e a collocare il film in un genere. Sullo schermo scorrono vicende che impegnano appunto persone professionalmente addette all'intelligence e alle azioni conseguenti. Ma la nuova locuzione è parecchio fuorviante, quanto al tema autentico del film.
Con doppio gioco si qualifica infatti la pratica di chi, in segretezza all'apparente servizio di una entità politica, presta in realtà il medesimo servizio a un'entità politica diversa e ostile alla prima. Non è il caso di nessuna figura del film di Soderbergh. Tutti e tutte lavorano a Londra per la maggiore gloria della Corona britannica. Lo fanno però con idee e progetti materiali differenti e, soprattutto, con un serpeggiante antagonismo reciproco. Questo sì celato sotto i modi della collaborazione e della colleganza, se non dell'amicizia e persino dell'amore. E, in correlazione con amore e amicizia, sotto i modi dell'opposizione tra fedeltà e infedeltà, tra verità e menzogna. Ecco la materia che agita la pellicola: combinazione e similarità; sintagmatica e paradigmatica.
Personaggi di opportuno supporto alla costruzione dell'intreccio fanno da contorno. Ma si tratta essenzialmente di ciò che succede fra tre coppie: tre donne e tre uomini. Ciascuna intreccia rapporti personali e professionali in apparenza semplici, in realtà piuttosto composti nella definizione delle reciproche unioni, quindi delle combinazioni, e delle eventuali commutazioni.
Lo si scopre via via che la narrazione procede e non si toglierà a chi legge queste note il piacere di vedere personalmente in sala come ciò avviene. Black bag è infatti una pellicola consigliabile: classicamente molto ben fatta, tanto negli aspetti diegetici quanto in quelli più specificamente cinematografici. Non vi mancano sequenze che, ispirandosi idealmente a modelli memorabili, aspirano esse stesse alla memorabilità.
Il protagonista impersona un ossimoro: ha una passione ma la esercita in modo freddo e razionale. Le motivazioni psicologiche di tale attitudine sono profonde e dolorose, si apprende di passaggio. Non sono edipicamente estranee al disordine di una menzogna nella sua famiglia di origine. La menzogna è quanto in più di un'occasione il personaggio dichiara di spregiare massimamente. Michael Fassbender presta in proposito un'interpretazione impeccabile.
Oggetto di quella passione, ricambiata, è la protagonista. Nel ruolo, Cate Blanchett, colta spesso in primi piani e in posture che ricordano grandi interpreti in opere di grandi registi del passato. Il personaggio fa da innesco della macchina narrativa. E d'altra parte a lei si devono il solo efficace uso personale di un'arma da fuoco e, come mandante, il solo scoppio che ricorre nella pellicola. Una donna elegante ed esplosiva.
Anche ciò dice come Black bag non sia ascrivibile alla corriva cinematografia di tema spionistico, in cui atti violenti e spettacolari scene di azione spesseggiano. Il film fa invece concessioni indispensabili, considerata l'aria del tempo, all'incombenza del controllo universale assicurato materialmente dalla tecnologia e spiritualmente dalla psicologia; ingrediente, quest'ultimo, che non manca di precedenti illustri, come si sa, nella storia del thriller.
Qual sia il black bag che fa da perno all'intreccio viene subito reso esplicito ma il suo recto lineare quanto enigmatico cela nel verso pieghe perverse e articolazioni inattese. Sono tutte riconducibili all'ambiguità della quarta persona grammaticale: 'noi'. Si tratta, come si è detto, di rapporti personali (amicizie, o presunte tali, e amori, o presunti tali) e 'noi', dei rapporti personali, in modo aperto o coperto, è l'architrave.
Il filo concettuale e narrativo del film appare a nudo in un momento rivelatore. A un dipresso (queste note pescano nella memoria di un semplice spettatore in sala), "Noi sappiamo dunque che non è stata tua moglie..." dice un personaggio al protagonista; è un dialogo cruciale, perché, nella prospettiva di quest'ultimo, il garbuglio si sta finalmente sciogliendo. E il protagonista di rimando: "Noi, chi?". Colto di sorpresa dalla sottile inquisizione, "Noi... tu ed io", risponde colui che ha incautamente proferito lo scabroso pronome: un vero e proprio lapsus. Nella sua spiegazione, è quindi un 'noi' che si presenta come inclusivo. Un 'noi' che include chi lo proferisce, ovviamente, ma anche chi, in linea di principio, lo subisce.
Orbene, nulla come un 'noi' inclusivo si presta bene a ingannare i gonzi, che vi finiscono dentro inconsapevoli, come dentro una trappola. Ma nulla più di un 'noi' inclusivo dichiara di essere una trappola a chi gonzo non è, a chi invece sa vedervi dentro e, del black bag, ha appunto intelligenza, etimologicamente.
Nell'attimo di quella titubanza c'è il decisivo annuncio della catastrofe e di chi ne finirà vittima. Un 'noi' saldissimo come una locuzione e senza menzogna, pur messo duramente alla prova da una contingente reticenza, smaschera i 'noi' effimeri e bugiardi che hanno attentato alla sua coesione. E quel 'noi' procede, in conclusione, a riaffermarsi, come una locuzione appunto, come una frase fatta o come il verso di una poesia. E annichilisce tutti i 'noi' concorrenti, sortiti da combinazioni finalmente accidentali, anche se volontaristicamente ordite. Un 'noi' da averne ammirata paura è forse il paradossale stigma finale del film.
Se fossi inglese, direi che dalla borsa è stato fatto sgusciare il gatto.
RispondiEliminaNon dir gatto, se non l'hai nel sacco...
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