16 maggio 2025

Come cambiano le lingue (20): "...non mi è stato paventato neanche per sbaglio di offrirmela..."

I segni che paventare fosse venuto a trovarsi nell'area di una frana linguistica rimontano perlomeno a or sono quattro lustri. Chissà come, chissà perché. Vicende linguistiche del genere illustrano infatti alla perfezione cosa sia un accidente. Dicono come capita appunto che qualcosa si verifichi inopinatamente. E d'altra parte illustrano come, davanti a un accidente, venga quasi sempre in mente che anche la vittima sia corresponsabile, che "se la sia andata a cercare", per dire così.
Intendiamoci: non si stanno attribuendo a una parola una (fantasiosa) disattenzione, una (misteriosa) volontà o un (perverso) desiderio. Al contrario, ci si sta chiedendo se a un essere umano, rispetto a ciò che gli capita, più spesso di quanto non si creda, non possa essere attribuita la stessa innocenza di cui si fa credito a una parola. Se non siano stati appunto il suo banale aspetto, la sua ingenua esistenza a cacciarlo in un guaio inatteso, come quello che, di botto, travolge una parola.
Il caso di paventare pare proprio di tal fatta. Un verbo dall'aria seria e pulita. Dall'uso raro e cólto. Dalla forma piana, però, e quindi particolarmente indifesa, con una coniugazione elementare e accessibile a chiunque. Pronta quindi per essere infilata nelle insalate con cui la lingua che si pretende ufficiale, tra burocrazia e politica, prova a darsi un tono. 
Orecchiato e incerto, infine, per la maggioranza, il suo valore. Non si dice "il significato": concetto sempre molto equivoco e soprattutto fuorviante, dal momento che induce a credere che una parola l'abbia per se stessa, quando invece il suo valore viene fuori per via delle relazioni di combinazione e di commutazione in cui essa entra. 
Insomma, c'è tutto per dire che paventare "se la sia andata a cercare", che fosse la vittima perfetta per le cattive intenzioni di chi volesse servirsene a suo piacimento, usandole violenza.
Già nel 2011, l'Accademia della Crusca, sollecitata in proposito, rispondeva pertanto allarmata, davanti a un caso ancora tutto sommato banale. E dopo un quinquennio, un celebre e attento osservatore delle forme espressive e comunicative nazionali scriveva: "Nel caso di paventare, converrà predisporsi alla rassegnazione". Lo faceva in uno scritto, dal titolo "Non avere paura, mettere paura / «Paventare» si è spostato". Dottamente, Cassandra vi compariva come prosopopea del buono e integro paventare d'un dì e oggetto di interesse erano, per contrasto, i paventare già in degrado esposti, come si diceva, dal discorso politico. 
Che ci fosse una frana era dunque da gran tempo evidente, ma oggi - si ha l'impressione - se ne possono osservare spettacolari sviluppi. Lo spostamento si è spinto molto avanti, come in effetti era prevedibile. Finita nello smottamento, una parola la si ritrova a valle. Il passaggio da 'avere paura' a 'mettere paura' è già di ieri. Oggi, nella Umgangssprache delle reti sociali, si è a un sinonimo di prospettare, quindi a una vox media, pari pari. 
L'immagine in alto esibisce un caso esemplare. Lo si è colto in una rete sociale, sotto la penna, si sarebbe detto un giorno, ora, meglio, sotto le dita di "un giornalista, scrittore, conduttore radiofonico e autore televisivo", recita la voce che Wikipedia dedica opportunamente al personaggio pubblico. Alla ricerca di un esempio, meglio di così, insomma, non si sarebbe potuto trovare, per i connotati enunciativi di rilievo. 
Si tratta infatti di un interprete perfetto della lingua come deve essere, della lingua di tendenza, che si esprime in una sede in cui si fa tendenza e in cui la tendenza si specchia, compiacendosi di se medesima. Da quel post, che ovviamente lo registra, verrà in effetti ancora una spinta al nuovo paventare, per via del gran numero di seguaci. 
E si conferma, caso mai ce ne fosse bisogno, che agenti del cambiamento linguistico vengono, come sempre, dal ceto semi-cólto: è insomma gente che scrive di letteratura e sui giornali, conduce spettacoli, presenta libri e, agitandosi nel mondo, coglie e fomenta i suoi andazzi.
Apollonio, come sanno i suoi due lettori, non è un aristarco. Non mena scandalo davanti ai cambiamenti. Non ha simpatia per chi lo fa e capita che di costoro rida. I reazionari non se ne rendono conto, ma sono solo un (marginale e spesso doloroso) effetto collaterale di ciò contro cui reagiscono e che, come testimonia per paradosso la loro medesima reazione, ha già evidentemente acquisito l'insopprimibile privilegio dell'esistenza: è insomma un dato osservabile della realtà.
L'ethos di questo frustolo è pertanto meramente documentario. Come cambiano le lingue, appunto: tema appassionante, da una prospettiva teoretica (e, da una etica, succulento; se il mondo non cambiasse, come se ne vedrebbero le comiche magagne?). La speranza è che, un giorno, il reperto renda un po' felice, come documento, chi farà ancora modesta professione di filologia, anche se Apollonio paventa che alla futile disciplina la tendenza non riservi un futuro.

6 commenti:

  1. Carissimo Apollonio, mi permetto di suggerire una piccola aggiunta a questa pagina.
    Il primo maggio, su una rivista un giorno preziosa, il direttore, ordinario di storia all’università, rispondendo in maniera sgraziata a una lettera di protesta, scrive: "l’accusa, paventata alla fine della prima lettera-appello”: è evidente che si tratta di un “paventare" semanticamente sfalsato, come quelli di cui parli qui. Aggiungo alla tua disamina una tesserina bibliografica, più ricca rispetto alla segnalazione della Crusca: Ornella Castellani Pollidori, AGGIORNAMENTO SULLA “LINGUA DI PLASTICA”, SLI XXVIII, 2002, pp. 161-196.
    Vero è che queste prodezze muovono dal ceto dei semicolti: quella che segnalo è la prima occorrenza, per quanto io sappia, proveniente non dal fatuo mezzo mondo sospeso tra giornalismo fatuo e traffico “culturale”, ma direttamente dall’accademia. Non che questo stupisca.

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    1. Apollonio Discolo16/5/25 12:03

      Grato del conforto dell'amichevole Lettore.

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  2. All'oscuro dell'invito, autorevole, alla rassegnazione e paventando l'incomprensione o l'equivoco da parte della persona alla quale mi rivolgo, coniugo sempre meno il bel verbo. Contribuisco così al sullodato sfalsamento. Ma che si può fare? Il verbo, anche quello con la minuscola, soffia dove vuole.

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    1. Apollonio Discolo16/5/25 12:18

      Non solo il verbo, ma anche il nome, l'aggettivo..., acuta Lettrice. Paventasse Apollonio di essere frainteso, si asterrebbe dal dire, nella contingenza, che anche astenersi è una scelta. Addirittura, di castità. Ma confida nel fatto che non solo Lei, ma tutti i suoi Lettori e tutte le sue Lettrici (nel solito numero inferiore alle dita di una mano) capiscano e che siano capaci di separare il grano dal loglio.

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  3. ...a un festival che mi hanno chiamato... È proprio vero, il buon giorno si vede dal mattino!

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    1. Apollonio Discolo17/5/25 11:49

      È il registro colloquiale, Lettore o Lettrice senza nome, e non c'è da stupirsene nel post di una rete sociale. Ma proprio per tale ragione è interessante la ricorrenza di paventare che fa da tema del frustolo. Dice infatti del rimarchevole slittamento cui si è trovato soggetto il suo valore. Il verbo non è più adoperato creativamente per "darsi un tono", come forse era il caso fino a qualche tempo fa. È invece entrato pienamente a fare parte della lingua di tutti i giorni, con un valore che ha ormai perso ogni collegamento con il suo d'un tempo. Il processo, più che a una figura del discorso o a un traslato semantico, somiglia a una vera e propria diluizione, a una banalizzazione. Nella lingua lì testimoniata, pare insomma che dire Gli ho paventato una vantaggiosa soluzione del problema equivalga a dire Gli ho prospettato / proposto una vantaggiosa soluzione del problema. Come forse si dice ancora nel medesimo registro, "tanta roba", insomma.

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