29 novembre 2011

Lingua loro (25): "la Squadra"

Il "Governo"? Che anticaglia! Ormai e ufficialmente "la Squadra". Nella sua Citera, giunge notizia ad Apollonio che il Mister, pardon!, il Commissario "tecnico", oops!, il Presidente del Consiglio dei ministri, insomma, il signor Mario Monti (e che fine ha fatto il buon Ferruccio Valcareggi?) ha comunicato ieri alla stampa la lista completa dei convocati: Albertosi, Anastasi, Anquilletti, Bercellino, Burgnich, Bulgarelli, Castano, De Sisti, Domenghini, Facchetti, Ferrini, Guarneri, Juliano, Lodetti, Mazzola, Prati, Riva, Rivera, Rosato, Salvadore, Vieri, Zoff.
Gli Euro(pei), stavolta, son nostri (inclusivo o non-inclusivo?).

[Era il fatale '68. E non dicano i cinque lettori di Apollonio che lui, sonnolento, non se ne era già accorto, che tira un'aria di rigore].

"...a farci male sulle ripartenze"

"Noi dobbiamo essere bravi a non fare leggerezze sul loro pressing. Loro hanno giocatori bravi a farci male sulle ripartenze".
Tra parallelismi e differenze, metafore e tecnicismi, secondo l'insegnamento di Jakobson, l'iterazione fonda, nella parola, la poesia e, anche quando si tratta delle più piatte corrività, fa del cattivo gusto una delizia.
La supponenza guasta ogni cosa. Ogni cosa sublima la naturalezza.

28 novembre 2011

Della traduzione automatica

Tra la gente di gusto, è d'uso irridere (se non deplorare) il meccanico modo di condursi dei programmi di traduzione automatica, molti dei quali disponibili in rete. 
All'alter ego di Apollonio è accaduto di osservare, per iscritto, che i maldestri tentativi dei pionieri del volo non apparvero meno ridicoli e deplorevoli. Oggi, qualsiasi stupido indossa le ali di un "aeromobile", come capita di sentire dire negli annunci aeroportuali, e (senza che nessuno rida o deplori) si trova in men che non si dica in capo al mondo. Che non sia il volare di Dedalo ed Icaro è inconfutabilmente vero. Altrettanto vero è però che si tratta di un modo di volare. Meccanico, ma di volare. 
Ragionevolmente, la stessa cosa succederà (se non ha già cominciato a succedere) con gli automi consacrati alla traduzione. Come sempre, gli ingegneri hanno ragione ad insistere e torto i poeti a scoraggiarli. Anche lì la meccanica conquisterà gli spazi pratici e di diletto garantiti dall'esistenza di un'utenza banale e sterminata. Non si tratterà delle nobili e discusse traduzioni da Dante di Pound ma di traduzioni si tratterà, in ogni caso. E non sarà questa tra le minori dimostrazioni del fatto che lo spirito avventuriero della specie umana ha sprezzo del pericolo ed è incoercibile. Vedrà chi ci sarà, naturalmente, fino a che limite e, soprattutto, fino a quando.
Fa già del resto impressione e un pizzico di umana tenerezza vedere l'esito indubitabile di un programma elementare di traduzione automatica che fa da oggetto di un tentativo di phishing trovato oggi, tra la sua posta elettronica, da Apollonio. Recita: "Noi scoprimmo l'attività irregolare sul Suo conto".
Dicano i lettori se, in italiano, non è già quasi funzione poetica: con l'enfasi pronominale, il raro passato remoto, l'arcana determinatezza dell'articolo che introduce l'oggetto diretto, l'ambiguità sintattica dello scoprire, sul conto di qualcuno, un'attività irregolare. Roba tutta meritevole, da un lato, di un'acuta incursione strutturalista alla Jakobson, dall'altro, di una fine analisi stilistica alla Spitzer.
E vien quasi voglia di fare il mecenate, pagando almeno un obolo, per un simile aereo risultato. Viene la tentazione di rispondere con le informazioni tanto maldestramente e tanto poeticamente richieste. 
Poi, interessata e bottegaia, sul gusto per la poesia della traduzione automatica prevale la prosaica ragionevolezza di chi alle traduzioni chiede d'essere, anzitutto, umane e, quindi (chissà perché, se di cosa umana si tratta), credibili. 

"La maggior parte di noi"

"Probabilmente la maggior parte di noi non ha un'idea molto chiara di che cosa sia la 'linguistica', e questa parola suona abbastanza strana, confinata all'uso di pochi specialisti". La citazione viene da un manuale italiano molto fortunato. E meritevolmente fortunato, in funzione del panorama dell'odierna offerta editoriale. Ad essere precisi, sono le parole che vi fungono da incipit (l'enfasi è stata aggiunta da Apollonio).
Anche i libri di linguistica però sono testi linguistici, com'è capitato di scrivere qui, in un frustolo di qualche tempo fa. Quando ad Apollonio succede così di dovere illustrare la differenza che, sovente implicita nelle forme grammaticali di una lingua, corre tra noi inclusivo e noi non-inclusivo, l'esempio fornitogli da quelle parole gli si presenta sempre allo spirito tra i più lampanti, oltre che come uno dei più involontariamente comici e rivelatori della natura della disciplina che pretende di professare. Sarà utile a questo punto, forse, un grossolano chiarimento terminologico. 
Si dice inclusivo un noi in cui chi lo proferisce include appunto il suo interlocutore: [Rivolta a Pinocchio che le ha appena raccontato sue disavventure] "- Si può sentir di peggio? - disse la Volpe. - In che mondo siamo condannati a vivere? Dove troveremmo un rifugio sicuro noi altri galantuomini?". 
Si dice non-inclusivo, invece, ogni altro noi e, in particolare, quello proferito escludendo particolarmente chi ascolta e talvolta indicato, per questa ragione, come esclusivo: [Rivolto al minaccioso Carlo VIII, Pier Capponi:] "Se voi suonerete le vostre trombe, noi faremo suonare le nostre campane".
Si torni adesso alle menzionate parole in apertura di un'opera che si propone di presentare a principianti la materia di cui tratta. Secondo l'attitudine espressiva sopra esemplificata, "la maggior parte di noi" è certamente scritto per includere, come interlocutori, i lettori del libro.
Vuole essere così un atto comunicativo accattivante. Sono tali in genere quelli in cui ricorre un noi inclusivo: talvolta anche troppo. Piacioni, dunque, se non peggio. Lo si è appena visto. Dietro un noi inclusivo, capita ci siano (e spesso) il Gatto e la Volpe. 
C'è del resto da chiedersi quanto sia ben educato cominciare un'opera dando obliquamente dell'ignorante a chi si prende la pena di leggerla. Magari è la verità ma proprio per questo potrebbe non essere simpatico sentirsela dire, così, ad apertura di libro. All'ingresso di un istituto di bellezza, poniamo, non la si prenderebbe certo bene se ci si accogliesse dicendo "Siamo proprio bruttini, eh?".
C'è un modo però di trovare umano e non "caporalesco" (né peloso) quel noi e di solidarizzare con esso. Profittando della povertà grammaticale e della conseguente ambiguità dell'italiano (che, lingua da imbroglioni, non ha forme diverse per i due diversi noi), il modo consiste nel fare finta di non capire, nel rifiutare (magari solo per scherzo) la scontata convenzione discorsiva secondo la quale, quando un chierico dice a un catecumeno "Ma quanto siamo ignoranti!", è ben lungi dal volergli confessare di partecipare d'una comune mancanza. 
Insomma, si tratta di prendere il noi di quel "la maggior parte di noi" come un noi non-inclusivo, come un noi che, senza volere dire nulla di chi lo legge, parla esclusivamente di chi lo sta proferendo. Gli autori del fortunato manuale (e meritevolmente fortunato, si ribadisce) sono peraltro due. Il noi che lì ricorre sarebbe quindi anche pienamente giustificato dal banale punto di vista del riferimento.
Sorridendo affettuosamente solidale e aritmeticamente turbato, il lettore potrà chiedersi a questo punto: tra i due autori, quale sarà mai "la maggior parte" della quale, fosse anche solo per ipotetico lapsus, si sta ammettendo sul principio di un libro didattico che "non ha un'idea molto chiara di che cosa sia la 'linguistica'"?
È ciò che Apollonio fa appunto ogni volta che quel passo gli capita sotto gli occhi, riflettendo sugli scherzi che gioca sempre la lingua. Meglio, riflettendosi in quegli scherzi. Cioè guardandosi senza verecondia nello specchio dell'espressione, lui linguista immaginario.

26 novembre 2011

Intolleranze (3): Solare

È venuto di moda da qualche anno tra i giovani l'aggettivo solare, coi valori metaforici che prende quando è associato a designazioni d'esseri umani o a qualificare loro attitudini o comportamenti. 
Non c'è ragazzina che non si dichiari "solare" quanto a indole, soprattutto se opportunamente sollecitata nei contesti pubblici. Non c'è metà d'una coppia d'innamorati che non magnifichi il carattere "solare" dell'altra e la conseguente qualità "solare" del rapporto. 
Apollonio non esclude si trovino ricche attestazioni di usi comparabili nella corrente narrativa di cassetta. Ne ha sottomano una (in predicato d'essere ironica?): "alla vista della solare marinaretta che sbarcava saettante dal motoscafo Riva". È tratta dal romanzo di esordio di un giovane e ormai affermato scrittore romano, capace di mettere all'opera tutte le veneri della retorica, come si evince già dal modestissimo lacerto. Non mette conto di farne esplicitamente il nome. La citazione è resa trasparente dalla menzione di un natante di marca, che equivale, in funzione dell'autore, all'apposizione di un sigillo, a una sphragìs. Un motoscafo Riva compare infatti sulla copertina dell'edizione del romanzo da cui Apollonio cita. Necessitano altre prove della topicità del passo in cui solare fa la sua comparsa?
Certo è che, col successo popolare, è venuto al solare in questione un qual inequivocabile tanfo di cattivo gusto. Non è un caso d'altra parte che, correlativamente, anche il motoscafo Riva facesse già qualche anno fa da elemento di contorno di un comunicato commerciale teletrasmesso che vedeva il suo fuoco nella vicenda d'un dettaglio anatomico progressivamente scoperto dallo smagliarsi di un già ridottissimo abitino (qualcuno dei cinque lettori di Apollonio ne serberà magari grata memoria).
Al degrado prima verso il finto lusso di massa, infine verso una piatta e corriva pretenziosità, forse l'aggettivo solare era destinato, poi, se è vero che (a credere ai lessici specializzati) esso ebbe già qualche fasto sotto la penna dannunziana e in prose d'arte correlabili.
Se non si tratta, invece, di un tanfo cimiteriale e cadaverico. Perché inquieta apprendere di una "epidemia dell'aggettivo sonnig (solare)" già in quella che Viktor Klemperer definì, col titolo del suo celebre libro, LTI: Lingua Tertii Imperii, cioè la lingua del Terzo Reich. E inquieta sapere che, secondo la testimonianza del filologo, qualunque ne fosse stata la scaturigine, "a quel tempo solare imperversava negli annunci mortuari" con cui famiglie devote al credo hitleriano annunciavano al mondo il sacrificio, in guerra, dei loro giovani rampolli, definiti appunto sempre, una volta morti, di indole "solare". 
Che tutti i solare di oggi ricorrano in realtà come decorazioni dei cippi funerari verbali, di discutibile fattura, sotto cui giacciono giovani morti inconsapevoli? Che siano malcelate autonecrologie le parole di coloro che li proferiscono per qualificarsi moralmente?
Comunque sia, anche quanto a solare, è dato verificare come dica il vero l'incipit di un famoso opuscolo di Marx, secondo il quale ci sono vicende storiche che, presentandosi una prima volta, s'illuminano dei lampi corruschi della tragedia e, presentandosi una seconda, brillano delle ridicole luminarie della farsa.

22 novembre 2011

Tira un'aria di rigore

"Il confronto a tutto campo tra i diversi schieramenti riprenderà appena la parola tornerà ai cittadini per l'elezione di un nuovo Parlamento". Sono (pare, verbatim) espressioni che vengono da chi oggi copre la più alta carica istituzionale della Repubblica italiana. 
In questo frustolo (di post, Apollonio dichiara di averne abbastanza) non ricorrono in virtù della loro portata politica. Essa è certo molto rilevante ma, sul tema, chi scrive non saprebbe proprio cosa dire, visto che non sa neppure cosa pensare. 
A colpire la fantasia di Apollonio, sono invece due dettagli linguistici. Il primo è l'uso, in funzione attributiva, dell'aggettivo composto a tutto campo. Hai voglia d'esecrare, come s'era soliti fare tra politici raffinati e intellettuali di supporto, la volgarità di una celebre "discesa in campo" di qualche anno fa! A frequentare lo zoppo, s'impara a zoppicare? Forse. Più ragionevolmente, c'è da ipotizzare che lo zoppo sia stato solo colui che, prima di altri, aveva intuito quale fosse l'andazzo. E l'andazzo inclinava verso lo zoppicare.  Comunque sia andata, la metafora sportiva del "campo" s'è evidentemente banalizzata. La figura è già catacresi. La sua volgarità "è tra noi", ormai. E compare pacificamente nelle dichiarazioni e nei comunicati ufficiali, stilisticamente accreditata (o, come si dice adesso, "sdoganata") da una fonte che non potrebbe essere più autorevole.
C'è poi quel riprenderà, in collegamento predicativo, appunto, con "il confronto a tutto campo". In un frustolo come il presente, sarebbe ozioso diffondersi sul concetto di presupposizione. Basterà osservare che la sospensione del "confronto a tutto campo" è semplicemente presupposta da chi dice riprenderà in quel contesto. Nulla potrà mai riprendere ad esistere, infatti, che non si trovi soggetto a una sospensione d'esistenza. 
Qui giunto, Apollonio ha però il sospetto di avere forse oltrepassato le linee dello sterrato campetto di periferia in cui passa oziosamente il suo tempo a palleggiare con le parole. Prega di conseguenza i suoi cinque lettori di non sollecitarlo in proposito con commenti (che, rivolti a lui, sarebbero a sproposito). Consiglia loro di rivolgersi ai dotti delle discipline morali (ivi comprese le politiche). 
Da essi potranno essere illuminati sui significati, nella teoria e nella prassi della democrazia, se non di eventuali sospensioni del confronto politico, di sue limitazioni a zone del "campo" che escludano (ohibò!) l'area di rigore, con le decisioni sul relativo tiro.

16 novembre 2011

Antonomasie e riciclaggio

"Solo ministri tecnici per il Professore", "E Pier Luigi avverte il Professore...", "Nei giorni della Grande Crisi...": tra le antonomasie che compaiono in questi giorni nella comunicazione pubblica alcune sono fresche, come, messo lì a giganteggiare, "lo Spread". Altre sono riciclate. In esordio, se ne sono menzionate un paio, tratte dalla stampa quotidiana.
Il Professore, pochi anni fa, era un altro. L'Italia è sempre stata piena di professori, del resto, e i candidati alla relativa antonomasia son legioni. D'altra parte, dopo la Grande Crisi, la Grande Crisi è sempre, come della guerra diceva il Greco della Tregua (la memoria tradisce Apollonio?). 
Gli ambientalisti della parola saranno felici: mai gettare tra i rifiuti un'antonomasia. Alcune si degradano lentamente e restano molto inquinanti, talvolta per millenni (ma non sarà questo il caso di quelle qui in questione, per fortuna). Ripulita, un'antonomasia già usata si presta ancora ottimamente ai suoi scopi.
Ecco dunque i primi effetti delle annunciate misure di risparmio. Della fantasia e dell'intelligenza.

13 novembre 2011

Sordidi ignoti e solidi noti

Ma "la solida borghesia" delle cui lodi sono piene in questi giorni le gazzette e cui sembra tocchi salvare adesso l'Italia dal flagello dei cosiddetti mercati non sarà per caso la solita borghesia fattasi solida a spese altrui? 
In breve, col pretesto di sordidi ignoti, i solidi noti.

[Modesti materiali per un'elementare esercitazione di fonologia. Se ne sconsiglia l'uso in altri contesti discorsivi].

11 novembre 2011

Lingua loro (24): "i mercati"

"I mercati non credono all'efficacia delle misure adottate dal governo", "I mercati giudicano insufficiente il piano del ministro", "La situazione politica italiana preoccupa i mercati", "I mercati vogliono che a guidare il Paese sia un tecnico" e così via: un'alluvione, un torrente che si è ingrossato e ha straripato e che, come nelle immagini televisive che qualche giorno fa documentavano i guasti subiti dalla città di Giuseppe Mazzini e di Fabrizio De André, si porta via tutto, scorrendo impetuoso e, soprattutto, lercio ben oltre ogni dire.
Sono tutte espressioni sotto le quali stanno soccombendo le ultime e sparute parvenze del sogno moderno della democrazia. Fa da sarcastico scenario alla vicenda proprio quell'Europa che fu la culla in cui celebrati dormienti si fecero propalatori di quel sogno, parendo perciò i più svegli alla luce della ragione, quando in realtà si trattava solo di sonnambuli e, come tali, irresponsabili. 
E sono tutte espressioni che dovrebbero suonare inaccettabili. Linguisticamente inaccettabili, qui si intende, se la lingua non fosse tale da sopportare, meglio, non fosse tale da incoraggiare l'evenienza non solo di ossimori (come "incolori idee verdi") ma anche di altre, numerose e rivelatrici figure. Nel caso specifico, di una metonimia.
Ci si rifletta un momento, sottraendosi ai vorticosi turbini della corrente comunicativa che, in questi giorni, trascina tutto e tutti. Verbi come credere, giudicare, volere, nella loro qualità funzionale di predicati, impongono ai loro soggetti una condizione. La medesima che, a sua volta, impone preoccupare ai suoi oggetti diretti. Coloro che vedono la cosa in termini referenziali dicono che tanto i soggetti dei primi quanto gli oggetti diretti del secondo devono designare esseri umani o altro che, agli esseri umani, sia assimilabile. Mettendola poi dal punto di vista del significato, affermano che tali designazioni devono essere di conseguenza caratterizzate dal tratto semantico 'umano'. 
Cosa valga tale tratto è poi forse difficile da definire. "Considerate se questo è un uomo..." scrisse Primo Levi, che ebbe modo di verificare quanto la questione di cosa fosse 'umano' fosse appunto divenuta indecidibile proprio in quel Moderno che di uomo, umano e umanità aveva sin da subito fatto scialo. 
Espressioni come Il tegame sporco non crede alla perizia dello sguattero, La padella surriscaldata giudica nondimeno il cuoco in buona fede, Il colabrodo vuole che Maria prepari il bollito e Lo stato del sugo preoccupa vivamente la bottiglia producono tuttavia un certo straniamento in chi qui si trova a leggerle e ciò assicura grossolanamente che nella constatazione della restrizione combinatoria di quei verbi qualcosa di solido c'è. Magari non perfettamente espresso da un tratto referenziale e semantico che avrebbe fatto arrabbiare o, piuttosto, sorridere Nietzsche. Ma la linguistica, lo si sa, è quella che è. Come dimostra questo medesimo blog, non è certo disciplina da gente fine o acuta e, di conseguenza, fa come può.
Ciò detto, accade di osservare che, nella comunicazione quotidiana e senza che nessuno se ne dica linguisticamente disturbato, oggi "i mercati credono o non credono", "giudicano bene o male", "vogliono o non vogliono". Capita pure che "i mercati", poverini, "si preoccupino" e poi, sconsolati, "tirino il fiato".  Rilevarlo non è certo fare chissà quale scoperta. La banalità dell'osservazione non deve però farsi pretesto di inconsapevolezza. E la consapevolezza linguistica vuole che da espressioni come le menzionate si concluda univocamente che anche a "i mercati" tocca il tratto referenziale e semantico 'umano'.  Si tratta dello stesso tratto che si attribuisce a la sala quando, appunto per metonimia, si dice che La sala applaude l'oratore, espressione che nessuno prende alla lettera e che, al tempo stesso, nessuno trova straniante.  La sala vale ovviamente per gli esseri umani che essa contiene.  Allo stesso modo, "i mercati" valgono precisamente per gli esseri umani che vi operano. 
Quando li si trova evocati nella comunicazione pubblica, invece, "i mercati" fanno figura d'essere una forza cieca e ineluttabile della natura. In alternativa, e secondo le preferenze dell'enunciatore, d'essere manifestazione dell'onnipotenza di un dio crudele e corrucciato. 
Cumulativamente designata per metonimia, in realtà, "i mercati" sono solo la massa (come tutte le masse, stupida e incontrollabile) di esseri umani presuntamente attenti soprattutto al loro tornaconto. Sono magari esseri umani che manovrano finanze sterminate. Restano tuttavia mortali, soggetti a sbagliarsi, piccoli e miserabili, tanto nel loro insieme, quanto presi uno ad uno. Non diversamente del resto da chi sta scrivendo questo post. E non diversamente dagli esseri umani mortali, soggetti a sbagliarsi, piccoli e miserabili che, sempre per il loro tornaconto, stanno rosicando gli ultimi resti del debito pubblico dei paesi dell'Europa mediterranea e che, magari, sperano di avere di che campare, a spese dei propri figli, dopo qualche decennio passato a prestare la loro opera (eventualmente, a fingere di prestare la loro opera).
Malgrado gli orpelli della rappresentazione, ciò che sta capitando e al cui proposito si tirano costantemente in ballo "i mercati" è 'umano', insomma. Anzi, proprio per gli orpelli della rappresentazione, 'troppo umano'. Di quell'umanità dolente e meschina che una frusta metonimia si incarica malamente di celare, di nobilitare, di concettualizzare. 
Ma cosa altro attendersi da un Moderno nato pieno di slancio e di idee e ormai putrefatto? Già ai tempi del suo ideologico splendore, la metonimia è stata il suo stigma. Da uomo a stato, da opinione pubblica a partito, da borghesia a proletariato, da razza a classe, da società ad azienda, da politica a economia, da reazione a progresso, da bambino a donna, da stampa a televisione, da cultura a rete, da lavoro a rendita, da popolo a gente, a bene comune e, oggi nel caso specifico, a mercati, di quanti fantocci sovente metonimici la metonimia del Moderno ha riempito i suoi discorsi e, con essi, le tappe del suo metaforico cammino di progresso? Per ipocrita decenza? Forse. Più decisivamente, però, perché, in un mondo in apparenza pieno di nomi e dove tutti paiono aspirare ad avere o a farsi un nome, tutto è anonimo e plurale, come "i mercati", e, ad avere veramente un nome menzionabile e che lo dica singolare, nei "mercati" e fuori, non è più rimasto proprio nessuno.

9 novembre 2011

Vive la différence!

"I don't think that cultures have tried systematically or methodically to differentiate themselves from each other. The fact is that for hundreds of thousands of years mankind was not very numerous on the earth; small groups were living in isolation, so that it was only natural that they developed characteristics of their own and became different from each other. It was not something aimed at. Rather, it is the simple result of the conditions which have been prevailing for an extremely long time.
Now, I would not like you to think that this in itself is harmful or that these differences should be overcome. As a matter of fact, differences are extremely fecund. It is only through difference that progress has been made. What threatens us right now is probably what we may call overcommunication - that is, the tendency to know exactly in one point of the world what is going on in all other parts of the world. In order for a culture to be really itself and to produce something, the culture and its members must be convinced of their originality and even, to some extent, of their superiority over the others; it is only under conditions of undercommunication that it can produce anything. We are now threatened with the prospect of our being only consumers, able to consume anything from any point in the world and from every culture, but of losing all originality".
Era il 1978. Ed era Claude Lévi-Strauss (Myth and Meaning).