"Chi governa la Chiesa?" si legge e si sente chiedere, con affettata premura, sulle gazzette scritte e parlate in questi giorni. L'attuale papa di Roma, come si sa, non sta bene e da un po' si trova in ospedale, sottoposto a intense cure.
Per chi, creda o non creda, prova a tenere in conto lo spessore culturale che al mondo conferisce una religione, qualsiasi religione, come manifestazione, appunto, di una cultura umana, c'è, in una domanda siffatta (e nelle comparabili), una lampante prova della desolante, spietata, totalitaria piattezza con cui correntemente viene ormai trattata la vicenda della specie, in ogni suo aspetto.
Caso mai ancora ci fosse bisogno di dirlo, per l'attuale e globale Weltanschauung, tutto è management. Tutto va amministrato, perché tutto è soprattutto oggetto di amministrazione (il modello? Buna Monowitz).
E con un sorriso irriverente e ben augurante per la salute di quell'uomo anziano e malato, Apollonio spera che lui, almeno lui, se sa, come probabilmente sa, della domanda, ilare stia pensando: "Che sciocchezza! Sono solo il vicario, non l'immortale CEO di questa company millenaria".
"Mamma, stasera non ritorno" è l'incipit del tormentone del momento: "tutta l'Italia, tutta l'Italia, tutta l'Italia ah...". Esso si avvia a diventare la canzone dell'estate e, sempre sotto il segno delle relazioni famigliari, si candida a fungere da (alternativa popolare all') inno nazionale, che, come si sa, si apre invece con "Fratelli...".
Di passaggio, qualche giorno fa, s'era qui fatta d'altra parte cursoria menzione della Mamma come costante tematica della canzonetta italiana: Se n'era colta una variazione timica, tra passato e presente, nella sua più recente epifania sanremese. L'immagine della Mamma italiana vi sconta infatti il declino cognitivo che, fuori di festeggiamenti che hanno l'aria di essere posticci, colpisce la nazione. Di essa è ormai appropriata sineddoche e adeguato emblema una Mamma appunto la cui senilità non si accompagna più, come un tempo, a una dolce saggezza, ma alla demenza e alla perdita della memoria. Dietro le sdolcinature del testo specifico e i suoi legittimi intenti commerciali, avrebbe potuto esserci specchio più veritiero?
Apollonio non aveva fermato ulteriormente la sua attenzione sul resto della merce presente in quella fiera musical-letteraria. Ed è stato un errore. Glielo fa notare (e quasi glielo rimprovera) una persona con cui Apollonio corrisponde da un quarto di secolo e che, di conseguenza, di Apollonio conosce e condivide parecchie fissazioni, come il gusto per l'osservazione quotidiana non tanto delle parole, ma di quelle forme e di quei concetti grammaticali che, come insegnava Edward Sapir, sono il vero nocciolo funzionale delle lingue (e del pensiero).
Ebbene, la persona in questione ha osservato, informandone Apollonio, che il quid ideologico corrente della competizione sanremese è procurato dal suo esito. Le quattro canzoni che sono risultate favorite, "il podio", come si dice adesso con metafora sportiva, e quella a immediato ridosso, pur nelle loro differenze tematiche, hanno un tratto che le accumuna. Eccolo, per specimina:
Prima classificata. Balorda nostalgia: "Io le ho risposto che vorrei vorrei vorrei vorrei vorrei vorrei vorrei tornare a quando ci bastava ridere, piangere, fare l'amore...".
Seconda classificata. Volevo essere un duro: "Volevo essere un duro che non gli importa del futuro un robot un lottatore di sumo uno spaccino in fuga da un cane lupo... Volevo essere un duro...".
Terza classificata. L'albero delle noci: "Vorrei cambiare la voce vorrei cantare senza parole senza mentire per paura di farti soffrire vorrei cantarti l'amore amore il buio che arriva nel giorno che muore...".
Quarta classificata. Battito: "Vorrei guarire ma non credo vedo nero pure il cielo vetri rotti schegge negli occhi...".
Ammesso che, nei testi e nei discorsi, le parole in quanto tali esistano (la questione è complessa e Apollonio non vuole annoiare qui i suoi due lettori), volere è sempre ben più di una parola e non c'è testo o discorso che ne alberghi un'epifania che non sia determinato dalla sua ingombrante portata predicativa.
Come espressioni, tra dire Parto e dire Voglio partire, per fare l'esempio più banale, c'è un abisso. Un abisso al cui fondo c'è, come concetto grammaticale (Sapir, appunto, e Benveniste), una caratterizzazione morale del soggetto, che nel caso specifico è una prima persona.
La faccenda diventa più gustosa e intricata quando ad attualizzare volere e il suo soggetto di prima persona sono modi e tempi che (si scusi il bisticcio) ne modalizzano appunto il valore. Vorrei (come modo) e volevo (come tempo, ma in realtà anch'esso come modo) sono due casi esemplari e, spesso, in eventuale commutazione di registro, valgono come mere varianti (Coseriu e Ambrosini). Vorrei o Volevo aggiungere qualcosa... dice per esempio e alternativamente chi si propone di intervenire in una discussione. Una voglia in sordina, che si atteggia a perenta, meglio, a non attuale.
Va a questo punto precisato, a scanso di equivoci, che forme come vorrei e come volevo, con il loro pesante portato, sono da sempre tutt'altro che rare nelle canzonette: è una parte importante di ciò che, come cascame, esse hanno ereditato dall'"io" lirico della tradizione romantica e tardo-romantica.
Il narrato di ciascuna delle quattro tuttavia permette di integrare l'osservazione generale con un'interessante e contemporanea prospettiva pragmatica. A riassumerla con una battuta, come qui è indispensabile, si è nei quattro casi davanti a un 'vorrei (o volevo), ma non posso (o non ho potuto)'. Condizione (esistenziale o, se si preferisce, di vita) che si combina bene, oggi, con un ulteriore tratto comune dei componimenti: l'inequivocabile genere maschile dei quattro "io" che vi prendono la parola. Nelle quattro canzoni, insomma, pur nelle differenze, ha uniforme presenza un "io" maschile dal volere esposto, ma ben più che attenuato. Forse, affatto frustrato. Aggiungere qualcosa, in proposito, sarebbe ridondante.
Sopra la musica popolare, è un luogo comune che si menzioni e si citi L'éloge de la mauvaise musique di Marcel Proust, ma a questo punto, ringraziando chi, ammonendo il distratto Apollonio, ha procurato lo spunto a questo frustolo, cursorio perlomeno quanto il primo, la lettura del relativo passaggio è d'obbligo: "Détestez la mauvaise musique, ne la méprisez pas. Comme on la joue, la chante bien plus, bien plus passionnément que la bonne, bien plus qu'elle, elle s'est peu à peu remplie du rêve et des larmes des hommes. Qu'elle vous soit par là vénérable. Sa place, nulle dans l'histoire de l'Art, est immense dans l'histoire sentimentale des sociétés. Le respect, je ne dis pas l'amour, de la mauvaise musique n'est pas seulement une forme de ce qu'on pourrait appeler la charité du bon goût ou son scepticisme, c'est encore la conscience de l'importance du rôle social de la musique" (Les plaisirs et les jours, XIII).
...naturalmente. Il tema è infatti molto impegnativo e chiama in causa competenze e conoscenze storiche, antropologiche, musicali, psicologiche, linguistiche.
Culturali, insomma, in più di una disciplina, se non in più di una dimensione del mondo e, in particolare, della nazione che si esprime nella lingua del sì. Ben al di là di ciò cui può attingere questo diario.
A procurare lo spunto è tuttavia l'attualità: il settantacinquesimo Festival della canzone italiana, in quel di Sanremo (sia detto di passaggio: anche la grafica del suo logo decreta che 2025 è ormai definitivamente venti-venticinque: qui, quanto si scriveva in proposito quasi un anno fa).
Ebbene, la canzone che vi sta facendo il massimo scalpore ha per tema la Mamma. S'intitola (caso mai i suoi due lettori non lo sapessero già) "Quando sarai piccola": è una straniante acutezza che, rovesciandolo, richiama naturalmente il "quando sarai grande..." che una persona adulta indirizza familiarmente a una bimba. Autore e interprete della canzone Simone Cristicchi: artista uso a mettere in versi e musica vicende sociali commoventi, godendo della relativa reputazione. Apollonio prima ne ha appreso qualcosa, quindi ne ha fatto verifica.
La circostanza è a suo modo consolante: gli Italiani non cambiano. E non si tratta, si badi, di un uso del maschile detto esteso, ma di maschile a tutti gli effetti, verrebbe fatto di pensare. Ove la canzone di Cristicchi trionfasse nella competizione (c'è chi dice avverrà: lo si saprà prima della fine della settimana in cui questo frustolo viene steso e compare), non sarebbe la prima dedicata alla Mamma a farlo.
Tra campi e cantieri, dentro e fuori dei confini nazionali, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta la si sentiva cantare. Erano anche tempi di emigrazione, soprattutto maschile, e, lasciando la patria (che curioso bisticcio tra sentimento morale ed etimologia!), si lasciava la madre: si usciva dal suo grembo. Dunque, alla madre gli Italiani, testimonia la canzone, aspiravano a tornare (si intenda la cosa nel senso che si vuole: eventualmente in quello dissacrante di una fulminante battuta di Woody Allen).
Se l'orizzonte morale degli Italiani, mammoni, non è dunque complessivamente cambiato, molto cambiata è la Mamma, nella nuova prospettiva. In ogni caso, un tratto permane, nei tre concordi campioni: la Mamma invecchia. "...e gli anni passano... le mamme imbiancano..."; "...sento la mano tua stanca... oggi la testa tua bianca...", dicevano in proposito gli stagionati.
Del capo della mamma, il più recente non procura a sua volta un'immagine esteriore, ma interiore, prodotta dall'avanzare negli anni. I toni sono quelli di una cura filiale, ma elegiaci (la presente non è epoca atta ad accettare altro), e dicono che, invecchiando e, forse anche incanutendo, la Mamma soprattutto non c'è più con la testa (dolorosamente: Apollonio lo sa).
Bisogna ammetterlo per l'ennesima volta. Non c'è specchio che renda meglio l'immagine della nazione del Festival della canzone italiana di Sanremo. Proprio in quanto nazione, dotata appunto di un comune sentire, essa vi si celebra in effetti ormai da tre quarti di secolo.
E oggi, con il suo festival di canzonette, l'Italia si riconosce in una Mamma ormai suonata (ohibò!). Una Mamma che ha perso consapevolezza di sé, della sua storia, dei suoi figli. E alla quale, con tono di amorevole condiscendenza, non resta che dire, concludendo: "...adesso è tardi, fai la brava, buonanotte".
Il nome proprio è un ineffabile mistero, riflesso, come si sa, fin dentro le Tavole della Legge affidate a Mosè e da lui originariamente divulgate. Allo spirito grosso di Apollonio (e a quello comparabile, se non più grosso, del suo alter ego), esso si presenta però nella maniera meccanica della sintassi, che è come dire "della composizione" (non si dovrebbe mai omettere di chiarirlo, caso mai sfuggisse).
Ciò non vuole dire che siano a suo avviso infondate o, si direbbe con Galileo, "di lana caprina", le questioni che si addensano sopra il tema per ogni sorta di pensiero esoterico e di correlata pratica (religioni, logica, filosofia e chi più ne ha più ne metta).
Non nega di averne il sospetto, tuttavia. Forse per mascherare una scarsa fiducia in se stesso. Di fronte a esse, prova infatti un senso di inadeguatezza di capacità e competenze. Ad attirarlo, al contrario, sono faccende minuscole. Un esempio? Quattro (fra gli innumerevoli possibili).
A sequenze come arrivafelice ([ar'ri:vafe'li:tʃe]), labiondacantava ([la'bjondakan'ta:va]), recitabene (['rɛtʃita'bɛ:ne]), vieneassunta ['vjɛneas'sunta], chi le ascolta assegna immediatamente e implicitamente differenti analisi e quindi valori diversi (cioè diverso significato e, si badi bene, anche se non pare, diverso significante) secondo che, per dirla con il comodo artificio concesso dall'ortografia, nel primo caso intenda felice o Felice, nel secondo, la bionda o La Bionda (Carmelo), nel terzo, bene o Bene (Carmelo), nel quarto assunta o Assunta. Perché?
Attenzione: rispondere snocciolando oppositivamente i relativi termini categoriali (aggettivo o nome proprio, nel primo caso; nel secondo, articolo e nome comune o nome proprio; nel terzo, avverbio o nome proprio; nel quarto, participio o nome proprio) è produrre tautologie. I termini categoriali, con i loro riferimenti, sono infatti mere chiose parafrastiche del problema, non sue spiegazioni.
Nella sua interezza, la grammatica dei grammatici (che oggi passano per linguisti) ha d'altra parte questo carattere: è un modo di assegnare un nome ("proprio": cioè un termine) a qualcosa, illudendo (e forse illudendosi) che ciò equivalga a chiarirla, quando consiste soltanto nel servirsi di etichette millenarie e non pensarci più. A frequentare certe opere che si pretendono linguistiche, "Warum? Hier ist kein Warum" verrebbe fatto di commentare, per fortuna solo ironicamente, ricordando il tragico resoconto che Primo Levi fece del fallimento della ragione moderna.
Per farsi appunto una ragione di quisquilie come le menzionate, all'alter ego di Apollonio, come forse sanno i due lettori di questo diario, è capitato qualche anno fa di scrivere addirittura un libro sulle procedure con le quali nella lingua si producono (talvolta, per poi sciogliersi) quei coaguli funzionali che per tradizione grammaticale vengono appunto detti nomi propri (e anche di pubblicarlo, grazie alla benevolenza di un amico).
Vi ha messo dentro un po' delle riflessioni e delle divagazioni che ha dedicato al mistero dei nomi propri, in qualche decennio di scapestrataggine disciplinare (non vige oggi un corrivo culto degli ossimori? Si lasci che anche questo diario vi indulga, di tanto in tanto). A ispirarle, lo si ribadisce, solo il desiderio, strettamente personale, di capirci qualcosa.
Declinato intimamente, tale desiderio è in fondo solo il modesto riflesso di un'attitudine tipica dell'epoca che, nei suoi estremi bagliori, procurò la provinciale formazione di Apollonio e del suo alter ego. L'utopia (di nuovo) moderna (ma ci fu mai evo più contraddittorio?) di una conoscenza che prova a (o forse solo pretende di) ridurre un mistero, qualsiasi mistero, per sua natura indefinito, alla definizione di un problema. Meglio, di una serie di problemi, da affrontare uno per uno, ordinatamente, nella speranza di un'intelligenza che non se ne lasciasse sopraffare.
Così insegnava un tempo, si pensi, già agli alunni e alle alunne della scuola primaria italiana, il racconto guerresco, ma per antica allegoria, della leggenda romana degli "Orazi e Curiazi", traendone l'indicazione di una prassi procedurale che, proprio in quanto tale, associava a un'etica una teoretica della ragionevolezza.
Della funzione della scuola, capita di sentire dare di tanto in tanto una suggestiva qualificazione figurata: ascensore sociale. Lamentandone spesso il cattivo funzionamento, è un modo per riferirsi agli esiti, possibilmente non solo individuali, di un'aspirazione.
Ora è un sessantennio, Paolo Pietrangeli menzionò tale aspirazione nel verso di una sarcastica strofe della sua Contessa: "Anche l'operaio vuole il figlio dottore..." (il ritornello della fortunata canzone, come si sa, spiegava il sarcasmo).
La locuzione ascensore sociale deve tuttavia essere nata ben prima di quella sua illustrazione canora e poetica. Ascensore, nel valore oggi comune, è parola esemplata sul francese ascenseur, che ancora nel 1905 Alfredo Panzini diceva circolante in italiano come prestito: "Piccola ed elegante cabina che sale o scende lungo regoli nel vano delle scale de' grandi edifici moderni, per innalzare facilmente pesi o persone. Questa parola nei dizionari recenti è fatta italiana in ascensore, ma nell'uso prevale la parola francese".
E nel corso (della prima metà) del Novecento, se non prima, sarà stato il discorso della sociologia e della politica d'Oltralpe a procurare l'ambiente propizio alla nascita di ascensore sociale, come metafora poi trasferitasi nell'italiano.
La sfera semantica che essa arricchisce è infatti un carattere tipico e generale del Moderno, contrapposto all'Ancien régime e ai suoi cascami: la mobilità sociale. Non lo si ricorda mai, ma emblematica in proposito fu e resta appunto la vicenda di quell'ufficialetto còrso che, ante litteram, montando sopra un velocissimo ascensore militare (non c'è solo lo scolastico e ne esiste anche uno ecclesiastico, come si sa), si fece imperatore. Per indubitabili meriti.
Ascensore sociale, come polirematica, non ha trovato menzione nel Grande dizionario italiano dell'uso diretto da Tullio De Mauro, ancora nel 2000, né si è affacciata, quattro anni più tardi, nel Supplemento, diretto da Edoardo Sanguineti, del Grande Dizionario della lingua italiana. In proposito, a nulla evidentemente servì la comune inclinazione ideologica e politica dei due importanti intellettuali. O forse percepirono la sottile scivolosità della questione cui la metafora presta la sua forma. Chi assicura infatti che "il figlio dottore", asceso materialmente e fattosi "dottore", continui, per ascesi morale, a sentirsi socialmente "figlio"? Gia nel 1928, con Zappatore, Libero Bovio, musica di Ferdinando Albano, aveva infatti illustrato populisticamente il caso contrario.
Quando ascensore sociale compare in un discorso, come illustrazione della funzione della scuola o della scuola tout court, si può infatti essere quasi certi che a parlare sia una parte politica che si atteggia a progressista. E siccome è un tropo, la locuzione è loquace testimone di un modo di vedere ciò cui si applica e la prospettiva che orienta lo sguardo. Come si è detto, il modo è propriamente moderno (giudichi chi legge se, in quanto tale, oggi non risulti perciò gravemente obsoleto).
Moderna e, a essere precisi, del pieno Ottocento è d'altra parte l'apparizione, con rilevanza materiale e culturale, dell'oggetto designato dalla parola ascenseur per denotazione. I lessici francesi la dicono attestata appunto dal 1867 con questo significato. E del Moderno e di tutte le sue ideologie del progresso, la figura che ne discende porta lo stigma
Andare in su è, di norma, difficile e faticoso più di andare in giù. È quindi spiegabile, per una sorta di pertinenza, che si sia fatto ricorso a un derivato dell'inusuale ascendre, piuttosto che a uno del comune descendre, per designare (peraltro, c'è da credere tecnicamente, sulle prime) la "piccola ed elegante cabina" che va appunto tanto in su, quanto in giù. Pur essendo stata chiamata e continuando a chiamarsi ascensore, ci si infila in essa tanto per salire, quanto per scendere, come sa ciascuno.
Ma quando la parola si presta a costituire una figura, il valore di connotazione emerge imperioso e la base della derivazione, di botto, si fa interpretazione esclusiva. Chi prospetta funzionalmente la scuola come un ascensore (sociale) pensa infatti a qualcosa che serve solo per andare in su e un'idea siffatta intende trasmettere.
C'è oggi da chiedersi, amaramente, se, come nel caso dello sviluppo economico e della crescita costante (di chi? a scapito di chi?), cioè di un nerbo ideologico della falsa coscienza del Moderno, una idea siffatta sia producente, non tanto come programma, quanto, si direbbe primariamente, come strumento volto a una migliore comprensione delle dinamiche sociali in atto, totalizzanti, forse meglio, totalitarie, da cui la scuola, come istituzione e come pratica, è ormai travolta.
E c'è da chiedersi se, metafora per metafora, non valga la pena di chiamare allora in causa in proposito il vecchio adagio che, meno illusoriamente (o meno furfantescamente) e prima della prima, della seconda, della terza e dell'ennesima rivoluzione industriale e tecnologica, enunciava un'elementare e permanente verità: "Il mondo è fatto a scale: c'è chi scende e c'è chi sale".