29 giugno 2025

La macchina a vapore, la bomba e il climatizzatore

Non è un'ovvietà precisarlo, come forse qualcuno può credere: per Apollonio, anche la tecnologia ha una storia, nel senso proprio. Idea molto diversa appunto da quella ormai corrente che intende storia come un mero sinonimo di sviluppo (effetto, tra i tanti, del declino della filologia e delle discipline connesse, nel clima morale, prima che culturale della temperie). 
La questione è tuttavia complessa e non è intenzione di questo frustolo di sollevarne nemmeno un lembo marginale. Questa premessa è destinata a chi intende già dove qui si andrà a parare, come certo i due lettori di Apollonio. In estrema sintesi, si proporrà infatti di periodizzare le fasi recenti di quella storia con un criterio semplice e grossolano, ma efficace e rivelatore, a giudizio di chi scrive. Ci si venga.
Ci fu un tempo in cui, pensata per dare soluzione a un problema, una tecnologia appunto risolveva il problema, producendo al tempo stesso una serie di problemi connessi ma differenti. Ciò è del resto ovvio quando si tratta dell'agire umano. Non c'è mai Endlösung, per gli esseri umani. E solo evocare l'orrendo termine e il contesto che, con scopo immondo, lo produsse dice come siano pericolosi coloro che hanno pensato e pensano a una soluzione finale, a qualsiasi proposito, anche il meno deplorevole. 
Saggezza e probità dicono in effetti che, ammesso si sia risolto un problema, dalla soluzione ne germoglia una serie di nuovi. Ma questo è appunto il passato, quello in cui, per esempio, si misero tecnologicamente a punto macchine che, con la forza del vapore, facilitarono concentrazioni produttive industriali divenute a loro volta fonti di ogni sorta di problemi.
Da qualche tempo, il rapporto tra problema e tecnologia che si pensa lo risolva è tuttavia mutato. È avvenuto quando la modernità è marcita e si è entrati nell'era storica della Modernità putrefatta. Di questa svolta, il mutamento cui ci si riferisce è anzi un segno indubitabile. Nella nuova fase, la soluzione di un problema crea, come sempre, altri problemi, ma non è più ciò che la qualifica e la caratterizza. La qualifica al contrario il fatto che è essa stessa un problema. Anzi e più precisamente: la presunta soluzione è l'amplificazione, l'accrescimento, talvolta gigantesco, del problema che sarebbe destinata a risolvere.
Evento cruciale del catastrofico mutamento storico (si ribadisce, storico) fu quello prodottosi a Hiroshima or sono ottanta anni. Fu momento emblematico della mostruosa metamorfosi di una scienza in una tecnologia che, con l'atto con cui apparentemente risolveva un problema, ne diventava essa stessa una parte. Anzi, la parte preponderante. Non se ne è fatta ancora la prova e c'è chi millanta (con quale esperienza dell'umanità?) che non la si farà mai. Ma si venisse al dunque, come sempre può capitare, il problema non sarebbe infatti la guerra e basta, ma la guerra atomica. Si dica allora se non si tratta di uno spaventoso accrescimento.
Fuori di scenari da considerare ancora eccezionali e tanto lampanti da essere risultati e da risultare accecanti, come esemplificazione si può venire a esperienze spicciole, odierne e quotidiane. 
Cos'è finalmente e in effetti un climatizzatore se non un amplificatore del problema globale che sarebbe localmente destinato a risolvere? Fa caldo per via del mutamento climatico? Milioni, se non miliardi di piccole macchine destinate a fare fresco entrano a pieno titolo nel problema, rendendolo ancora più grave.
E cosa è già, nei termini di una qualità delle relazioni umane, l'indefinita crescita delle possibilità comunicative prodottasi con l'Internet? Una splendida soluzione per il problema della comunicazione globale è divenuto il massimo problema della comunicazione, portandola alla totale insignificanza. 
E cosa sarà, cosa è già l'irrompere tecnologico della cosiddetta Intelligenza Artificiale? In funzione della stoffa delle conoscenze umane, da valutare, come spesso si dimentica, non soltanto con un quanto, ma anche con un quale e, soprattutto, con un come, l'IA si presenta già, come pretesto, da sicuro annuncio di un cataclisma di ignoranza.
Ci vuole però ironia, soprattutto riflessiva, per intuire come, nella dimensione umana e date le condizioni prodottesi con la crescita dei mezzi tecnologici, ciò che si immagina come soluzione possa in realtà essere solo un accrescimento del problema che si pretenderebbe di risolvere. 
E l'ironia, che non è appunto una tecnologia né, pare, una funzione gestibile da una tecnologia, è quanto fa da gran tempo difetto a una civiltà che, appunto perché incapace di ironia, si è spudoratamente intestata il compito di trovare le soluzioni ai problemi dell'umanità e di applicarle al mondo intero, costino quel che costino. Un compito che nessuno le ha affidato, come sa chiunque frequenti con intenzione la storia, e dal quale, con facile profezia, si può stare certi che nessuno riuscirà purtroppo a convincerla di recedere. 
 

27 giugno 2025

Sommessi commenti sull'Ultra-moderno (10): Minacce (millantate) di immortalità

Stupidi e mortali, gli esseri umani, dice un'antica e dolorosa consapevolezza. E il secondo predicato funge, si osservi, da permanente rimedio, oltre che da limite, ai guasti incessantemente provocati dal primo. Anche allo stupido più pernicioso, prima o poi, capita ineluttabilmente di morire.  
Pare adesso ci sia chi, immaginando la morte alla stregua di un morbo, promette che un giorno, se non tutti, qualche essere umano ne guarirà definitivamente, per prodigiosi sviluppi della cosiddetta Scienza. 
La fantasiosa conseguenza? Ci saranno stupidi immortali. 
Si dica allora se, già solo a guardarsi allo specchio, come sempre in proposito si deve, non sia bastevole l'esperienza riflessiva della propria stupidità mortale e, congiuntamente, della propria stupida mortalità per trarne una logica conclusione.
La promessa è una (millantata) minaccia, stupida oltremodo, cioè esageratamente umana. 

[Nella vena, una nota ispirata tempo fa all'alter ego di Apollonio da una straniante sortita letteraria: "Finché c'è morte, c'è speranza".] 

23 giugno 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (43): Plurale



Il plurale va tenuto d'occhio. Capita sia un'arma. Ignaro degli spropositi che fa, c'è chi l'impugna con sventatezza e chi invece con malizia e perciò più perniciosamente.  

22 giugno 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (42): Rispetto


Sempre negletto o contraffatto, un precetto da seguire invece con strenuo rigore per rispettare il prossimo (prassi che vale ragionevolmente ben più di amarlo) è non arrogarsi mai il diritto di parlare a suo nome. 

21 giugno 2025

Spettatore pagante (10): "Tucidide. Atene contro Melo" di Alessandro Baricco

"...c'era una differenza come quella di oggi fra Mattarella e Trump": ad Alessandro Baricco si può concedere che, nell'introduzione alla sua lezione-spettacolo "Tucidide. Atene contro Melo", riproposta a Palermo qualche giorno fa, abbia fatto ricorso a un'espressione estemporanea come questa. Gli è servita per dire, a suo parere, sapidamente della differenza che passava nel quinto secolo a. C. tra Sparta e Atene e del loro insanabile dissidio. E gli si può anche concedere che, per ottenere il medesimo effetto, l'abbia ripresa un paio di volte nel corso della serata. 
Glielo si può concedere, sorvolando sul fatto che, al di là d'ogni plausibilità del paragone e di ogni suo valore esplicativo (è "tiatro", avrebbe detto con ragione la buonanima di Andrea Camilleri, da esperto "tragediaturi"), essa ha suonato come un insulto al pubblico. Tanto a quello (una sparuta minoranza) che ne ha percepito la volgarità (perché di questo si tratta), quanto a quello che, misero, non l'ha percepita e, con l'innescata e prevedibile sonora risata, l'ha fatta sua e l'ha sottoscritta.
Nel cuore della rappresentazione, una bella e ben curata lettura (da elogiare le interpreti: Stefania Rocca e Valeria Solarino) delle pagine dedicate da Tucidide sotto forma drammatica a un episodio tragicamente esemplare delle spietate logiche adottate da Atene nel corso di quel conflitto e della conseguente violenza. Ovviamente, pagine recate in italiano (ma da chi? Apollonio non saprebbe dirlo, forse per sua storditaggine, forse perché si è trascurato di precisarlo). 
A tale lettura, Alessandro Baricco ha però fatto seguire un suo elegiaco fervorino e lo ha punteggiato di corrivi lirismi ("...le navi... il mare... i porti..."). Soprattutto, allo scopo di infiammare nel pubblico il sentimento d'essere moralmente edificato dallo spettacolo, nella sua lunga conclusione e a mo' di commento, Baricco si è servito senza risparmio, come persona grammaticale, di un vieto espediente retorico: un martellante 'noi' inclusivo. Quasi si trattasse appunto di una predica o di un comizio. Tutto ciò, nel giudizio del suo lavoro come ideatore e come regista dello spettacolo, ad Alessandro Baricco non lo si può proprio concedere.
Col pretesto, in se stesso buono e lodevole, di fare ascoltare quelle dure pagine a un pubblico sotto gli occhi del quale difficilmente esse sarebbero mai passate, l'operazione culturale, condotta alle conclusioni cui Baricco così la conduce, finisce per rivelarsi una mistificazione. È tale, del resto, anche nei suoi aspetti musicali, affidati alla vena esagitata di Giovanni Sollima e alla scenografica conduzione di Enrico Melozzi. 
Una mistificazione di tal fatta piacerà forse a molti e a molte, consapevoli o inconsapevoli, ma, come si diceva, in teatro, non la si può concedere proprio a nessuno. Al massimo, come sintomo del tempo presente e del suo clima, si può tentare di capirne le ragioni. Per farlo bisogna però partire da lontano. Dalla stessa Grecia presa a pretesto da Alessandro Baricco per costituirsi nell'occasione in una sorta di capopopolo. Se ne farà tema, caso mai, di un frustolo futuro.

[Frattanto prodotto: lo si legge qui.]

15 giugno 2025

Linguistica da strapazzo (54): Congiuntivo? Ma mi faccia il piacere...

Le si chiamano parole e ci si immagina siano come le cose ordinarie del mondo o che, alle cose ordinarie del mondo, corrispondano idealmente. Nel loro piccolo, sono invece meri aggregati di relazioni. Rigorosamente. 
Sono tali d'altra parte anche le cose del mondo, se si esce dalla loro considerazione ingenua. Una prova, quanto alle parole, la si spiattella nei corsi elementari di linguistica. Tratta dalla faccetta in funzione della quale è più facile e immediato produrla. Spesso i discenti non ne intendono però la portata. Forse perché, a dire il vero, non la intendono nemmeno i docenti. A loro volta, discenti che, un tempo, non la intesero: la si chiama tradizione culturale ed è fatta appunto anche di incomprensioni.
Per la prova di cui si diceva, basta infatti una coppia minima, come la si considera in fonologia. Si prenda sera, per esempio. Si cambia un frammento, c- al posto di s-, e il risultato non è, come ci si potrebbe pure aspettare, la 'cosa' di prima con la piccola differenza del frammento mutato: insomma, una sera che comincia per c
Perché no? La parola in questione è composta da quattro segmenti, come, si ponga, un tavolo ha quattro piedi. Se, dei piedi di legno del tavolo, se ne mette via uno e al posto se ne inserisce uno di metallo, il tavolo non resta un tavolo? Certo che lo resta! Un tavolo, bruttino, con un piede di metallo e tre di legno. Punto. E invece, nel caso della parola, il risultato è una 'cosa' globalmente diversa. Incomparabile con ciò che era in partenza.
Si osservi: a meno che non si vada a caccia di rime in -éra ("Per molto tempo | diedi la cera | quasi ogni sera..."), poco importa che una parte, la parte in apparenza preponderante, delle due 'cose' così ottenute sia perfettamente eguale. Basta quella minima commutazione e esse entrano a comporre quadri diversi: pezzi instabili di un puzzle che si stabilizza mentre si fa, ma, stabilizzandosi precariamente, non smette mai di determinare i suoi elementi quanto a ciò che conta. 
Lo si dica tecnicamente, com'è possibile da poco più di un secolo: ciò che conta è la relazione tra signifié e signifiant. Se al secondo si può fare corrispondere significante, non si deve fare il catastrofico errore di pensare che il primo valga l'italiano significato, come sostantivo: come participio medio di significare, eventualmente, a cui del resto va ricondotto anche significante, con diatesi diversa e complementare. Ma queste sono sofisticazioni da autentici amatori...
Non c'è chi invece non veda come Passo di solito la cera con la lucidatrice e Passo di solito la sera con la lucidatrice indirizzino lo spirito verso fantasie differenti. Tutto in apparenza identico. Solo una c-al posto di una s-, ma, a catena e in modo inarrestabile, una catastrofe. 
E, sembra incredibile, ma c'è ancora chi pensa si possa parlare sensatamente della lingua, in ogni suo aspetto, senza tenere presente una rigorosa e sempre operativa nozione di sistema, quando, come si vede, basta una banalità del genere a squadernare fatti incomprensibili se non come effetti di rapporti sistematici. Diversamente, misteriosi, arcani, irragionevoli. 
Perché cera non è, si ponga, una sera incipiente? "La luce non se n'era ancora andata: era ancora solo cera...". E perché sera non è una cera molto scivolosa? "Il corso era in discesa e, dopo il passaggio vespertino della processione, il giorno dopo, la sera caduta sul selciato rendeva pericoloso il transito delle automobili" (fuori di sera, è l'ineccepibile descrizione di una circostanza reale e di un incidente occorso a chi scrive, ora è più di mezzo secolo in quel di Castellammare del Golfo). 
Ebbene, un frustolo di qualche giorno fa, facendo mostra di filosofeggiare (dissimulazione che capita Apollonio assegni alla bell'e meglio alle sue pedanterie), ha tirato fuori la piccola differenza formale che c'è tra Faccio così perché mi amano e Faccio così perché mi amino. Era una faccia del nocciolo di quel discorso. Causa o fine? S'immagini la zuffa in termini filosofici, quando si tratta di nozioni siffatte e della trovata che le coniuga: "causa finale", si sono inventati i filosofi fin dall'antichità. Nei crudi termini di una linguistica da strapazzo, è invece faccenda che si risolve in una coppia minima: amano e amino. Si pensi quanto pensiero c'è in una -i- e in una -a- che giocano ad alternarsi. 
Qualcuno dirà: e il congiuntivo? Non è il congiuntivo a fare quel gioco? Ecco affacciarsi l'idea che il congiuntivo valga appunto per sé. Chissà cos'è il congiuntivo, fuori di quello che fa credere una millenaria tradizione grammaticale che, per mettersi al carro di una corriva concezione del mondo, l'ha duplicata nella lingua con un'ontologia parafilosofica...
Ma, a dire il vero, non è nemmeno qui il bello della faccenda che stava nel cuore di quel frustolo pretestuoso. Proseguendo, vi si mostrava infatti che, ammesso che qualcosa come il congiuntivo esista, c'è congiuntivo e congiuntivo. ...perché mi amino e ...sebbene mi amino presentano infatti forme verbali identiche. Al congiuntivo. Ma si sbaglierebbe grossolanamente se si pensasse che, nella lingua, l'una vale quanto l'altra. 
Il valore dell'amino che segue perché viene precisamente dal fatto che al suo posto potrebbe trovarsi amano (e viceversa). È questo contrasto implicito che indirizza, da un lato, verso il 'fine', dall'altro, verso la 'causa' (per dirla come vogliono le grammatiche). Insomma, sopra un livello compositivo diverso, ...perché mi amano e ...perché mi amino manifestano lo stesso rapporto reciproco che corre tra sera e cera...perché mi amano e ...perché mi amino sono, sintatticamente, una coppia minima. 
L'amino che segue sebbene non è invece commutabile con amano. Meglio (e in modo ancora più rivelatore), lo è nei fatti, ma il risultato non è globalmente diverso, per signifié e signifiant; non c'è un ...sebbene mi amino 'concessivo' e un ...sebbene mi amano 'non-concessivo'. A passare da congiuntivo a indicativo, resta solo una piccola differenza locale: un tavolo con tre piedi di legno e uno di metallo, brutto a vedersi, ma nulla di più. Il risultato della commutazione si configura infatti come violazione di una norma, cioè come un errore; privo di correlati, nel sistema della lingua, e soltanto soggetto ad attirare sopra o sotto di sé il frego blu di un correttore umano o automatico.
Che valore linguistico ha allora il congiuntivo che segue sebbene? Come congiunzione di subordinazione, anche se è sostanzialmente equivalente a sebbene. Ma se a sebbene si sostituisce anche se, il rapporto tra i modi del verbo si capovolge: a ...sebbene mi amino corrisponde infatti ...anche se mi amano. E l'eventuale ...anche se mi amino finisce per essere una violazione della norma. Un errore, ma particolare. Una sorta di eccesso di zelo: un ipercorrettismo. E dunque? 
Dunque, amino ed amano, in questo caso tra loro non commutabili, valgono come effetti della combinazione da un lato con sebbene, dall'altro con anche se. In altre parole, congiuntivo e indicativo si equivalgono, nei contesti differenti: sono varianti combinatorie, elementi la cui presenza è determinata da qualcosa che li precede o li segue nella catena. 
Il rapporto tra amino e amano, tra congiuntivo e indicativo è simile in un caso siffatto a quello che passa la s-, sonora, di sbagliare e la s-, non-sonora, di spagliare. A determinare che l'una sia sonora e che l'altra non lo sia, nella catena, è l'assimilazione alla consonante che le segue. Ci deve essere una sorta di impalpabile assimilazione a produrre l'amino che segue sebbene e l'amano che segue anche se, dice il modestissimo esperimento.
Conseguenza? Di nuovo un costrutto concessivo: sebbene di forma identica, sebbene inseriti dalle grammatiche in tabelle morfologiche fondate appunto sulla forma, l'amino di ...perché mi amino e quello di ...sebbene mi amino, da un parte, e l'amano di ...perché mi amano e quello di ...anche se mi amano sono radicalmente diversi; sono pezzi diversi di composizioni diverse. 
Conclusione: congiuntivo? Sì, ma opposto a che cosa? Combinato con che cosa? Insomma, valori che sortiscono da rapporti sintagmatici e da rapporti paradigmatici e da niente, ma proprio niente altro. Se, alla ricerca di come sia fatta la vita, c'è allora un briciolo di etica nella scelta di subordinare causa e fine a qualcosa di più sottile, la lingua dimostra, con il gioco tra funzioni e forme, che tale etica non manca della sua faccetta teoretica.
Per quale causa o con quale fine nel frustolo già più volte citato e qui ancora lo si scrive? Lo si scrive. Sebbene, quantunque, benché, malgrado, nonostante, per quanto non ne valga la pena. O anche se non ne vale la pena:



12 giugno 2025

Ragionare per tratti (1): "Honoris causa"

...o ad honorem. L'uso degli atenei di concedere titoli accademici "per chiara fama o in riconoscimento di alti meriti" era piuttosto sporadico ancora negli anni, non remotissimi, in cui l'alter ego di Apollonio, giovane, si accostava all'accademia. E, come si intende, rarità e valore stavano in rapporto direttamente proporzionale. 
Pur se rara, la pratica non sfuggiva tuttavia alla rivelatrice tagliola del caustico spirito dell'ethos accademico di un tempo. E Apollonio udì in proposito un utile criterio di giudizio da un prezioso testimone di quell'ethos, a dire il vero, già allora sostanzialmente perento. Ma per tale ragione, tanto l'ethos, quanto il suo ormai sparuto testimone, ancora più cari ad Apollonio e all'alter ego, cultori di anticaglie. 
Considerandone l'intenzione (concetto della fenomenologia congeniale alle cogitazioni sperimentali di quell'uomo di scienza), un conto, diceva, è una laurea honoris causa che onora il laureato, un conto diverso è quella che (si ribadisce, nell'intenzione) onora chi la dà. 
Il cinema non era una passione di quel maestro, che ne aveva di più nobili. Lo è invece, con dilettantesca modestia, di Apollonio, come sanno i due lettori di questo diario. E a illustrare il secondo caso, ove fosse necessario un chiarimento, nulla soccorre meglio, ritiene Apollonio, dell'episodio con cui Federico Fellini, in Amarcord, rese conto del nomignolo che a Rimini era stato assegnato a una rilevante figura professionale della società cittadina: "la Gradisca". 
A ragionare per tratti, l'opposizione tra 'onore per chi la riceve' vs. 'onore per chi la dà' può dunque essere rappresentata come specificazione del tratto [α Gradisca]'. Il metodo ha d'altra parte il merito di definire anche i casi di neutralizzazione del tratto, tanto nell'evenienza, rarissima anche nel passato, di un onore reciproco, tanto in quella di un disonore reciproco e di norma, tra le pompe, completamente inconsapevole: circostanza che, di certe cerimonie, con il contributo dei media, amplifica l'involontaria comicità.
Diversamente da un tempo, oggi una laurea honoris causa pare non si neghi più a nessuno intorno al quale, per qualsivoglia ragione, il mondo abbia fatto un po' di chiasso. E, correlativamente, pare che, proprio alla maniera di quel professionale personaggio felliniano, qualsiasi istituzione accademica sia pronta a darla, ricavandone, ritiene, il relativo lustro: "...signor Principe, gradisca...".

[ Ove fosse necessario un ripasso: https://youtu.be/KfmwmEYP77A?si=4Z4aDGGUFi_qnv24 ]




1 giugno 2025

A frusto a frusto (143)


Non ci sono vizio e stortura che l'arte non sia in grado di riscattare. La prima cantica del poema dantesco lo prova incontestabilmente. Chi amerebbe altrimenti, per migliaia e migliaia di versi, le sortite furenti e indignate di un intollerabile moralista?