6 luglio 2025

Séguito del frustolo "Spettatore pagante (10)": dalla catarsi all'autocompiacimento

"Tragedia è [...] mimesi di una azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti [...]; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da siffatte passioni": Manara Valgimigli dà qui voce italiana ad Aristotele che, nella Poetica, fissò una volta per tutte la nozione di catarsi. 
Si può essere anti-aristotelici, ma non si può negare che, in funzione di un'estetica consapevole, questa nozione colga un punto cruciale della fruizione artistica e, quindi, dell'essenza funzionale (cioè di relazione) dell'arte. Succede forse perché, in fin dei conti, la nozione di catarsi concettualizza un dato di base della psicologia umana (ci si perdoni il pleonasmo), oltre che un rito di uno specifico ethos antropologico. Un rito presente nella civiltà greca antica, ancor prima di Aristotele, come prassi per la cura del corpo e dello spirito. 
Ritualmente e effettivamente, la mimesi artistica di ciò che indigna, muove a pietà, fa orrore conduce a una purificazione e a una sublimazione di chi, con intenzione, se ne fa destinatario. Lo si può dire anche aggirando la zavorra (aristotelica) dell'idea di rappresentazione implicita nella nozione di mimesi. Fare esperienza del male per segni (si dica, semiologicamente) secondo i modi di un'arte, quindi grazie a un'azione teatrale, per esempio, è catartico. 
Ma si lasci pure da parte la catarsi, in senso stretto. Si passi a cose meno antiquate. Sulla scena, c'è un tale che, ispirato, ancor più che incoraggiato dalla consorte, accoltella nella notte il capo, ospite a casa sua. Poi, visto che ne vuole prendere il posto, assolda e manda sicari ad assassinare proditoriamente un possibile rivale nella successione e così via. Fino al momento in cui, come gli era stato predetto da certe megere, non vede gli alberi di una foresta venirgli incontro per chiedergliene conto. Un tipaccio, insomma. 
Come lui, proprio non ci si comporta, se si è perbene (anche se un pensierino, talvolta...). Se lo si fa, si è un Macbeth. Nell'umano consorzio, i Macbeth (e signore) non sono mai mancati né mai mancheranno. Attenzione: non c'è tuttavia bisogno che qualcuno spieghi cose simili a chi assiste al relativo spettacolo. E in effetti, non ritenendo stupido il suo pubblico, il Bardo si guardò bene dal farlo, aggiungendo chiose e chiarimenti. È teatro, non è scuola, tanto meno chiesa. 
Scendendo un po' di livello, ma nella stessa vena: chi non ricorda la feroce sparatoria di Taxi Driver di Martin Scorsese? Presente per colmo di abiezione una (attrice) ragazzina. Si dice che la censura fece scolorire il rosso del tanto (finto) sangue che vi scorre, ma niente fervorino finale né sottotitoli a chiarire che non è forse quello un modo commendevole per mettere nei suoi giusti cardini un angolino del mondo che, come fece Amleto con il suo, si giudica, con ragione, poco ammodo, anzi, propriamente stomachevole.
Non sarà catarsi, tecnicamente: filologia e filosofia, concordi, contesterebbero con ragione la spiccia equivalenza. Si dirà che è fiducia nei destinatari e nella loro intelligenza, già matura o sulla strada della maturazione? Basta, in effetti. Perché è precisamente quella che troppo spesso manca ormai quando si mettono su spettacoli e rappresentazioni con intenti artistici, che, come è quasi sempre indispensabile, contano perlomeno un vilain (anche collettivo) e il suo codazzo. 
Si pensa invece sempre più infantile il proprio pubblico, se non per età, certo per spirito. E forse c'è anche (o soprattutto?) il timore di prendersi e di essere presi su quel seriosissimo serio che è ormai attribuito alla più piatta superficie dei segni (parole, immagini, suoni e così via). 
Arriva così una scolastica spiegazione. O forse ancora peggio, arriva, nell'oscurità, come oltre-moderno deus ex machina, il barlume di speranza, "la luce in fondo al tunnel" che, si badi bene, è funzionalmente altra cosa da un fiabesco happy end o da una riparazione miracolosa dell'ordine del mondo. 
La sua destinazione morale non è del resto una purificazione né lo straniamento razionalmente critico del cosiddetto teatro epico. È un'indignazione rabbiosa per il male. Un sentimento che si accompagna, in chi ha assistito e vi ha aderito, al dolciastro autocompiacimento di sentirsi farisaicamente dalla parte del bene.

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