Le si chiamano parole e ci si immagina siano come le cose ordinarie del mondo o che, alle cose ordinarie del mondo, corrispondano idealmente. Nel loro piccolo, sono invece meri aggregati di relazioni. Rigorosamente.
Sono tali d'altra parte anche le cose del mondo, se si esce dalla loro considerazione ingenua. Una prova, quanto alle parole, la si spiattella nei corsi elementari di linguistica. Tratta dalla faccetta in funzione della quale è più facile e immediato produrla. Spesso i discenti non ne intendono però la portata. Forse perché, a dire il vero, non la intendono nemmeno i docenti. A loro volta, discenti che, un tempo, non la intesero: la si chiama tradizione culturale ed è fatta appunto anche di incomprensioni.
Per la prova di cui si diceva, basta infatti una coppia minima, come la si considera in fonologia. Si prenda sera, per esempio. Si cambia un frammento, c- al posto di s-, e il risultato non è, come ci si potrebbe pure aspettare, la 'cosa' di prima con la piccola differenza del frammento mutato: insomma, una sera che comincia per c.
Perché no? La parola in questione è composta da quattro segmenti, come, si ponga, un tavolo ha quattro piedi. Se, dei piedi di legno del tavolo, se ne mette via uno e al posto se ne inserisce uno di metallo, il tavolo non resta un tavolo? Certo che lo resta! Un tavolo, bruttino, con un piede di metallo e tre di legno. Punto. E invece, nel caso della parola, il risultato è una 'cosa' globalmente diversa. Incomparabile con ciò che era in partenza.
Si osservi: a meno che non si vada a caccia di rime in -éra ("Per molto tempo | diedi la cera | quasi ogni sera..."), poco importa che una parte, la parte in apparenza preponderante, delle due 'cose' così ottenute sia perfettamente eguale. Basta quella minima commutazione e esse entrano a comporre quadri diversi: pezzi instabili di un puzzle che si stabilizza mentre si fa, ma, stabilizzandosi precariamente, non smette mai di determinare i suoi elementi quanto a ciò che conta.
Lo si dica tecnicamente, com'è possibile da poco più di un secolo: ciò che conta è la relazione tra signifié e signifiant. Se al secondo si può fare corrispondere significante, non si deve fare il catastrofico errore di pensare che il primo valga l'italiano significato, come sostantivo: come participio medio di significare, eventualmente, a cui del resto va ricondotto anche significante, con diatesi diversa e complementare. Ma queste sono sofisticazioni da autentici amatori...
Non c'è chi invece non veda come Passo di solito la cera con la lucidatrice e Passo di solito la sera con la lucidatrice indirizzino lo spirito verso fantasie differenti. Tutto in apparenza identico. Solo una c-al posto di una s-, ma, a catena e in modo inarrestabile, una catastrofe.
E, sembra incredibile, ma c'è ancora chi pensa si possa parlare sensatamente della lingua, in ogni suo aspetto, senza tenere presente una rigorosa e sempre operativa nozione di sistema, quando, come si vede, basta una banalità del genere a squadernare fatti incomprensibili se non come effetti di rapporti sistematici. Diversamente, misteriosi, arcani, irragionevoli.
Perché cera non è, si ponga, una sera incipiente? "La luce non se n'era ancora andata: era ancora solo cera...". E perché sera non è una cera molto scivolosa? "Il corso era in discesa e, dopo il passaggio vespertino della processione, il giorno dopo, la sera caduta sul selciato rendeva pericoloso il transito delle automobili" (fuori di sera, è l'ineccepibile descrizione di una circostanza reale e di un incidente occorso a chi scrive, ora è più di mezzo secolo in quel di Castellammare del Golfo).
Ebbene, un frustolo di qualche giorno fa, facendo mostra di filosofeggiare (dissimulazione che capita Apollonio assegni alla bell'e meglio alle sue pedanterie), ha tirato fuori la piccola differenza formale che c'è tra Faccio così perché mi amano e Faccio così perché mi amino. Era una faccia del nocciolo di quel discorso. Causa o fine? S'immagini la zuffa in termini filosofici, quando si tratta di nozioni siffatte e della trovata che le coniuga: "causa finale", si sono inventati i filosofi fin dall'antichità. Nei crudi termini di una linguistica da strapazzo, è invece faccenda che si risolve in una coppia minima: amano e amino. Si pensi quanto pensiero c'è in una -i- e in una -a- che giocano ad alternarsi.
Qualcuno dirà: e il congiuntivo? Non è il congiuntivo a fare quel gioco? Ecco affacciarsi l'idea che il congiuntivo valga appunto per sé. Chissà cos'è il congiuntivo, fuori di quello che fa credere una millenaria tradizione grammaticale che, per mettersi al carro di una corriva concezione del mondo, l'ha duplicata nella lingua con un'ontologia parafilosofica...
Ma, a dire il vero, non è nemmeno qui il bello della faccenda che stava nel cuore di quel frustolo pretestuoso. Proseguendo, vi si mostrava infatti che, ammesso che qualcosa come il congiuntivo esista, c'è congiuntivo e congiuntivo. ...perché mi amino e ...sebbene mi amino presentano infatti forme verbali identiche. Al congiuntivo. Ma si sbaglierebbe grossolanamente se si pensasse che, nella lingua, l'una vale quanto l'altra.
Il valore dell'amino che segue perché viene precisamente dal fatto che al suo posto potrebbe trovarsi amano (e viceversa). È questo contrasto implicito che indirizza, da un lato, verso il 'fine', dall'altro, verso la 'causa' (per dirla come vogliono le grammatiche). Insomma, sopra un livello compositivo diverso, ...perché mi amano e ...perché mi amino manifestano lo stesso rapporto reciproco che corre tra sera e cera. ...perché mi amano e ...perché mi amino sono, sintatticamente, una coppia minima.
L'amino che segue sebbene non è invece commutabile con amano. Meglio (e in modo ancora più rivelatore), lo è nei fatti, ma il risultato non è globalmente diverso, per signifié e signifiant; non c'è un ...sebbene mi amino 'concessivo' e un ...sebbene mi amano 'non-concessivo'. A passare da congiuntivo a indicativo, resta solo una piccola differenza locale: un tavolo con tre piedi di legno e uno di metallo, brutto a vedersi, ma nulla di più. Il risultato della commutazione si configura infatti come violazione di una norma, cioè come un errore; privo di correlati, nel sistema della lingua, e soltanto soggetto ad attirare sopra o sotto di sé il frego blu di un correttore umano o automatico.
Che valore linguistico ha allora il congiuntivo che segue sebbene? Come congiunzione di subordinazione, anche se è sostanzialmente equivalente a sebbene. Ma se a sebbene si sostituisce anche se, il rapporto tra i modi del verbo si capovolge: a ...sebbene mi amino corrisponde infatti ...anche se mi amano. E l'eventuale ...anche se mi amino finisce per essere una violazione della norma. Un errore, ma particolare. Una sorta di eccesso di zelo: un ipercorrettismo. E dunque?
Dunque, amino ed amano, in questo caso tra loro non commutabili, valgono come effetti della combinazione da un lato con sebbene, dall'altro con anche se. In altre parole, congiuntivo e indicativo si equivalgono, nei contesti differenti: sono varianti combinatorie, elementi la cui presenza è determinata da qualcosa che li precede o li segue nella catena.
Il rapporto tra amino e amano, tra congiuntivo e indicativo è simile in un caso siffatto a quello che passa la s-, sonora, di sbagliare e la s-, non-sonora, di spagliare. A determinare che l'una sia sonora e che l'altra non lo sia, nella catena, è l'assimilazione alla consonante che le segue. Ci deve essere una sorta di impalpabile assimilazione a produrre l'amino che segue sebbene e l'amano che segue anche se, dice il modestissimo esperimento.
Conseguenza? Di nuovo un costrutto concessivo: sebbene di forma identica, sebbene inseriti dalle grammatiche in tabelle morfologiche fondate appunto sulla forma, l'amino di ...perché mi amino e quello di ...sebbene mi amino, da un parte, e l'amano di ...perché mi amano e quello di ...anche se mi amano sono radicalmente diversi; sono pezzi diversi di composizioni diverse.
Conclusione: congiuntivo? Sì, ma opposto a che cosa? Combinato con che cosa? Insomma, valori che sortiscono da rapporti sintagmatici e da rapporti paradigmatici e da niente, ma proprio niente altro. Se, alla ricerca di come sia fatta la vita, c'è allora un briciolo di etica nella scelta di subordinare causa e fine a qualcosa di più sottile, la lingua dimostra, con il gioco tra funzioni e forme, che tale etica non manca della sua faccetta teoretica.
Per quale causa o con quale fine nel frustolo già più volte citato e qui ancora lo si scrive? Lo si scrive. Sebbene, quantunque, benché, malgrado, nonostante, per quanto non ne valga la pena. O anche se non ne vale la pena:
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ‘ miei, caro Apollonio. E non è la prima volta. Naturalmente con un di più di finezza e di giustificazione, e quindi di insegnamento.
RispondiEliminaL’occasione è stata una riflessione sul congiuntivo con un gruppo di maestre, disponibili nonostante i 36 gradi a mettersi in gioco ma tempestate di messaggi e avvisi su un presunto abbandono del congiuntivo (il solito allontanamento dall’età dell’oro, vero, Apollonio?). Che il congiuntivo valga per sé, e che sia una catastrofe la mancanza di rispetto verso tanta maestà, è il presupposto da tante incomprensioni e a volte di una spocchia insoffribile.
35 anni fa un maestro napoletano vinse alla lotteria del libro da milioni di copie inventandosi un titolo, “Io speriamo che me la cavo” che sembrava l’ideale per mettere insieme paternalismo e disprezzo per il locutore, presunta sgrammaticatura e traccia di una condizione sociale irredimibile. Ci fu una linguista di scuola padovana, Paola Benincà, che con intelligenza mostrò trattarsi invece di una espressione ricca e non perfettibile. Insieme aun non autorizzato “anacoluto” (io speriamo) avrebbe infatti segnato negativamente quella frase di uno scolaro lumpen quel non congiuntivo “cavo” che sembra fatto apposta per confortare la chiacchiera semicolta sull’allergia al congiuntivo nelle giovani generazioni. Era proprio speriamo (e il su eventuale sostituto spero) a impedire che si dicesse altrimenti. Il bambino avrebbe potuto dire speriamo che lui se la cavi, ma non spero che io me la cavi, per una “restrizione”, ovvero per uno di quei giochi di relazioni cui tu da tempo, caro Apollonio, ci educhi. La cosa che mi colpiva è che non è il congiuntivo a essere portatore di una nobilitazione dello spirito capace di farci assumere nell’eliso degli “uomini della possibilità” (vedi Musil, capitolo IV dell’Uomo senza qualità). È insomma come l’anche se che occupando una posizione tenuta da sebbene impone lo slittamento sull’indicativo, ma senza ripercussioni meccaniche sull’insieme della frase. Se è così, mi vene il dubbio che il feticismo del congiuntivo che fa scegliere sebbene sarebbe spesso un segno di una distinzione sociale o culturale. Vero, Apollonio, o stravedo?
Con aumentata deferenza.
Al Lettore che con generosità lo trova con sé concorde, Apollonio dice un sentito grazie. Ma gli segnala, sommessamente, che anche il congiuntivo, nel caso specifico, è solo un pretesto, per dire di cose appunto tanto più semplici da fare figura di arcane sciocchezze. Sappia poi che, da quando Marcello D'Orta tirò fuori la perla dal tema di un suo scolaro e la rese nota, "Io speriamo che me la cavo", felicissima espressione per contenuto morale e tessuto linguistico, è divenuta forse la principale divisa di Apollonio e, con maggiore ragione, del suo alter ego.
EliminaGrazie, Apollonio per aver affidato al dialogo una confidenza così intima. Il pudore che manifesta e cerca di proteggere è un segno di grande dignità, in un momento storico così difficile per i gesti umani. E il "forse" aggiunge un di più di delicatezza. Mi preme precisare che la mia diffidenza nei confronti del maestro D’Orta (che poi fece convertire Leopardi rovesciando il senso di un passaggio notissimo anche agli adolescenti: “All’apparir del vero”) non si estende, anzi, allo scolaro e al suo apoftegma, sì, rivelativo.
EliminaPurezza e durezza della linguistica come scienza moderna, ho letto di recente l'Alter Ego di Apollonio 'dirne' riferendosi a Riccardo Ambrosini: <>. In quest'ordine si ritrovano anche le cantonate d'una millenaria tradizione di 'grammatica' e quanto neppure i docenti intendono. Manifestazioni anch'esse che lo studioso della lingua assume a pretesti. Molto utile averlo precisato e chiarito. Benchè desumibile da una quantità di passaggi, non era affatto scontato.
RispondiEliminaGrazie al Lettore o alla Lettrice senza nome per la correlazione. Sì, una disciplina pura e dura, nella sua semplice radicalità, è quanto balugina, confusamente, nei pensieri di Apollonio. Una linguistica infantile. Gli pare la sola capace di descrivere la natura della lingua che, per permanere tra gli esseri umani, dove, chissà come, chissà quando si insediò, non si affida, va detto, alle sofisticate speculazioni di filosofi e grammatici, ma allo spirito acuto e alla capacità di ascolto e di osservazione del bambino, della bambina che, nascendo e incontrandola, se ne fanno intridere e così la continuano.
EliminaCause, fini e concessioni... mi ha sempre incuriosito che il 'però', che può esprimere in modo diverso la concessione, derivi da un 'per hoc', non poi così lontano dal 'perciò'. Chissà cosa passava nella mente di coloro che da un 'perciò' ricavarono un 'però'.
RispondiElimina(non) S.A.
In quel "non" che allusivamente premette alla Sua sigla, gentile Lettore, c'è forse la chiave di una risposta alla Sua curiosità. E "∅-per questo" vs. "non-per questo", come termini di una correlazione che appunto li qualifica, sono molto più prossimi di quanto, a prima vista, potrebbe parere. La negazione come marcatezza è un gran tema e, come altri grandi temi, risiede crucialmente nella lingua (a chi avesse interesse, Apollonio segnala in proposito, di Riccardo Ambrosini, "Negazione e trasparenza", di recente ripubblicato in Scepsi linguistica, per la cura dell'alter ego e grazie alle Edizioni ETS di Pisa). Grazie per l'acuta sollecitazione.
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