26 novembre 2025

Linguistica candida (80): Lingua e "erba voglio"

Il latino non desiderava gli articoli, secondo l'opportuna sentenza di Quintiliano. Ma non c'è lingua che ne discende che non li abbia, come elementi di straordinaria portata funzionale. Quando fu emanato e, soprattutto, da chi fu emanato il decreto che istituiva l'articolo come indispensabile all'espressione e alla comunicazione?
Non c'era il condizionale, in latino. Ciò che si doveva dire o scrivere lo si diceva o scriveva, quanto a modi finiti del verbo, soltanto con indicativo e congiuntivo. Un'innovazione più che importante. Decisa da chi?
Non c'era nemmeno il passato composto, senza il quale oggi non si saprebbe proprio come fare tema di ciò che è trascorso. E passerebbe da matto chi cercasse gli atti ufficiali o gli ufficiosi che, a partire da un certa data, prima raccomandarono, poi imposero l'uso del passato composto e la progressiva obsolescenza del perfetto.
Anche con le mancanze e le abolizioni non è difficile farsi un'idea conseguente. La declinazione nominale, con i suoi casi, quando fu messa fuori corso? Quando al centro o nelle provincie giunse il dispaccio delle autorità che ne sospendevano temporaneamente l'uso, in attesa della sua eliminazione (con l'eccezione dei pronomi personali)?
E come fu che il neutro, quel valore del genere grammaticale latino che sospendeva la manifestazione formale dell'opposizione sintattica tra oggetto diretto e soggetto, finì per sommergere tanto il maschile, quanto il femminile? Una manifestazione differenziale in funzione della sintassi, questi due generi in effetti l'avevano e ciò li faceva ambedue diversi dal neutro. In italiano, non più. Né i nomi maschili né i femminili sono formalmente sensibili a differenze sintattiche. Tutti neutri, insomma, e per giunta senza darlo a vedere e andando in giro come se nulla fosse cambiato, in proposito. Per ordine di chi questo mutare di valori e questo camuffamento? Per conformarsi a quale credo?
Un briciolo di dottrina basta insomma per sorridere di qualsiasi sortita si proponga di modificare aspetti del sistema di una lingua sul fondamento di un programma ideologico. Ma il sorriso si fa più saporito (dolce o amaro, decida chi legge) se alla dottrina si accompagna l'intuizione, nativa e amorevole, di cosa la lingua sia, di come ecceda non solo singolarmente la volontà e il pensiero di ogni essere umano, ma anche quelli di ogni consorzio politico che gli esseri umani hanno costituito, costituiscono e costituiranno, nella loro storia. Con ciò che gli esseri umani fanno della lingua e delle loro lingue, la lingua e le loro lingue fanno poi quanto è conforme alla loro permanenza e ai loro sistematici sviluppi.
Ne sortisce una considerazione (di nuovo, dolce o amara, decida chi legge). Ogni volta che, come capita regolarmente da qualche secolo, qualcuno s'alza e, secondo il suo capriccioso gusto, dice che la lingua ha da fare o da non fare così e così, ecco una prova (ulteriore) di essere capitati in un evo bamboccio, cui nessuno ha insegnato che "l'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re" e che è d'altra parte incapace di impararlo da sé.   

23 novembre 2025

Lingua loro (54): "Imperdibile", "memorabile"

Con intento imbonitore, imperdibile spesseggia da tempo nel discorso che promuove le manifestazioni culturali o, meglio, ciò che fa da loro surrogato nella tendenza. Non passa quasi giorno che non si legga e non si oda di un "evento" nel cui annuncio manchi tale qualificazione: "un reading, una lectio, una presentazione, con firma-copie, imperdibile". 
Come attributo, imperdibile dà all'"evento" una sfumatura connotativa sostanziale: 'effimero, transeunte, fugace, perituro'. Da lì la necessità, a cose fatte, che il discorso che lo ha promosso come "imperdibile" lo riqualifichi come "memorabile". Da imperdibile a memorabile scorre così la filza degli avvenimenti cui non si potrebbe mancare per avere poi qualcosa da ricordare e da dire.
C'è tuttavia in proposito un'altra considerazione, forse più rivelatrice. La fortuna di imperdibile potrebbe essere marginale effetto lessicale della rappresentazione linguistica di un mondo alla rovescia. La profetizzò George Orwell in un'opera celeberrima e la esemplificò con esempi di isotopia perversa: "guerra" come pace, "libertà" come schiavitù... 
Una isotopia di tal fatta e una correlazione morfologica elementare mettono in effetti in paradossale, ma sintomatico rapporto l'aggettivo imperdibile e a perdere, locuzione aggettivale che qualifica di norma un vuoto.

20 novembre 2025

Linguistica al volo (3): "Six seven", comunione fàtica

Tra gli e le adolescenti di mezzo mondo, quale che sia la loro lingua nativa, pare si sia diffusa, a partire dagli Stati Uniti, la consuetudine di proferire "six seven" in modo che si direbbe inopinato, fuori cioè della pertinenza o della rilevanza dei contesti comunicativi, e accompagnando l'enunciazione con gesti variabili. 
"Non vuole dire nulla, non ha un significato", si legge nei commenti che stanno dedicando al fenomeno media di ogni genere. E l'insensatezza pare meritevole del valore che si assegnerebbe alla notizia che un postino ha morso un cane. L'inverso, un cane che morde un postino, è infatti quanto si presume comparabile con ciò che caratterizza i fiati articolati che sortiscono dalle bocche degli esseri umani: avere un senso.
Ebbene, un antropologo polacco, naturalizzato britannico, Bronisław Malinowski, nel secondo decennio del secolo scorso, aveva proficuamente speso nel Pacifico occidentale gli anni che lo preparavano a conseguire il suo dottorato londinese. Muovendosi tra un'isola e un'altra e interagendo profondamente con le popolazioni locali, che allora non ci si peritava di qualificare come "selvagge", aveva acquisito le conoscenze che sul principio del decennio successivo gli avrebbero permesso di comporre Argonauts of the Western Pacific, un monumento dell'antropologia qualificata come funzionalista (vivamente messa in discussione, per i suoi fondamenti e le sue conclusioni concettuali, nella seconda metà del Novecento; riserve condivise da Apollonio, ma qui poco importa).
A Malinowski fu anche chiesto di collaborare a un libro che portava il titolo The Meaning of Meaning e il sottotitolo A Study of the Influence of Language upon Thought and of the Science of Symbolism. Ne erano autori C.K Ogden and I. A. Richards. L'antropologo procurò così un supplemento, "The Problem of Meaning in Primitive Languages". 
La menzionata attuale vicenda di "six seven" sarà certamente effimera e, probabilmente, non perfettamente pertinente, ma la si può cogliere al volo per leggere un paio di pagine di quel contributo e per farne oggetto di una piccola riflessione conclusiva (la traduzione del passo, condotta alla buona, è di chi scrive): 

"Penso che, parlando del ruolo della lingua nelle semplici relazioni sociali, ci troviamo di fronte a uno degli aspetti fondamentali della natura dell'essere umano nella società. In tutti gli esseri umani c'è la ben nota tendenza a riunirsi, a stare insieme, a godere della compagnia reciproca. Molti istinti e tendenze innate, come la paura o la combattività, tutti i tipi di sentimenti sociali come l'ambizione, la vanità, la passione per il potere e la ricchezza, dipendono e sono associati alla tendenza fondamentale che rende la semplice presenza degli altri una necessità per l'essere umano.
Ora, la lingua è strettamente legata a questa tendenza, perché, per un essere umano naturale, il silenzio di un altro essere umano non è rassicurante, ma, al contrario, qualcosa di allarmante e pericoloso. Lo straniero che non parla la lingua è per tutti i membri di una tribù selvaggia un nemico naturale. Per la mente primitiva, sia tra i selvaggi che tra le nostre classi non istruite, l'essere taciturni equivale non solo a ostilità, ma anche a cattivo carattere. Ciò varia senza dubbio in funzione dei diversi spiriti nazionali, ma resta vero come regola generale. Rompere il silenzio, la comunione delle parole, è il primo passo per stabilire legami di amicizia, che si consumano solo con la condivisione del pane e del cibo. L'espressione inglese moderna “Nice day today” o la frase melanesiana [che corrisponde a un] “Whence comest thou?” sono necessarie per superare la strana e spiacevole tensione che gli esseri umani provano quando si trovano faccia a faccia in silenzio.
Dopo la prima formula, le parole cominciano a fluire: gratuite espressioni di preferenza o avversione, resoconti di avvenimenti irrilevanti, commenti sul perfettamente ovvio. Queste ciacole, tipiche delle società primitive, differiscono solo leggermente dalle nostre [...].
Senza dubbio, si tratta qui di un nuovo tipo di uso linguistico - comunione fatica, sono tentato di chiamarla, spinto dal demone dell'invenzione terminologica - un tipo di discorso in cui i legami di unione sono creati da un semplice scambio di parole.
Guardiamolo dal punto di vista specifico che ci interessa; chiediamoci che luce getta sulla funzione o sulla natura della lingua. Le parole nella comunione fatica servono principalmente a trasmettere un significato, il significato che è il loro, in quanto simboli? Certamente no. Esse svolgono una funzione sociale e questo è il loro scopo principale, ma non sono né il risultato di una riflessione intellettuale, né suscitano necessariamente una riflessione nell'ascoltatore. Ancora una volta possiamo dire che la lingua non funziona qui come mezzo di trasmissione del pensiero.
Ma possiamo considerarla una modalità di azione? E in che rapporto si trova con la nostra concezione cruciale del contesto della situazione? È ovvio che la situazione esterna non entra direttamente nella tecnica del parlare. Ma cosa si può considerare situazione quando un gruppo di persone chiacchiera senza uno scopo preciso? Consiste proprio in questa atmosfera di socievolezza e nel fatto della comunione personale di queste persone. Ma questo si ottiene in realtà attraverso la lingua, e la situazione in tutti questi casi è creata dallo scambio di parole, dai sentimenti specifici che formano la convivialità, dal dare e avere di espressioni che costituiscono il chiacchiericcio ordinario. L'intera situazione consiste in ciò che accade linguisticamente. Ogni espressione verbale è un atto che serve allo scopo diretto di legare l'ascoltatore al parlante con un vincolo di qualche tipo di sentimento sociale. Ancora una volta la lingua ci appare in questa funzione non come uno strumento di riflessione, ma come una modalità di azione.
Vorrei aggiungere subito che, sebbene gli esempi discussi siano stati tratti dalla vita selvaggia, potremmo trovare tra noi paralleli esatti per ogni tipo di uso linguistico finora discusso. Il tessuto connettivo verbale che unisce l'equipaggio di una nave in caso di tempesta, le parole convergenti di una compagnia di soldati in azione, le espressioni tecniche che accompagnano un lavoro pratico o un'attività sportiva: tutti somigliano essenzialmente agli usi primitivi della lingua da parte dell'uomo in azione e la nostra discussione avrebbe potuto essere condotta altrettanto bene su un esempio moderno. Ho scelto quanto sopra riferito da una comunità selvaggia perché volevo sottolineare che tale è la natura del linguaggio primitivo e nessun'altra.
Anche nelle semplici conversazioni sociali e nei pettegolezzi usiamo la lingua esattamente come fanno i selvaggi e il nostro parlare diventa la “comunione fatica” analizzata sopra, che serve a stabilire legami di unione personale tra persone riunite dal semplice bisogno di compagnia e non serve ad alcun scopo di comunicazione di idee. “In tutto il mondo occidentale si concorda sul fatto che le persone devono incontrarsi spesso e che non solo è piacevole parlare, ma è anche una questione di comune cortesia dire qualcosa anche quando non c'è quasi nulla da dire” — come osservano gli autori. In effetti non c'è bisogno, o forse non ci deve essere, nulla da comunicare. Finché ci sono parole da scambiare, la comunione fatica conduce tanto i selvaggi, quanto i civilizzati in un'atmosfera piacevole di rapporti sociali educati.
È solo in certi usi molto speciali all'interno di una comunità civilizzata e solo nei suoi usi più elevati che la lingua viene adoperata per formulare ed esprimere pensieri. Nella produzione poetica e letteraria, la lingua è utilizzata per dare corpo a sentimenti e passioni umane, per rendere in modo sottile e convincente certi stati d'animo e processi mentali. Nelle opere scientifiche e filosofiche, si utilizzano tipi di lingua altamente sviluppati per controllare le idee e renderle proprietà comune dell'umanità civilizzata.
Anche in questa funzione, però, non è corretto considerare la lingua come un semplice residuo del pensiero riflessivo. E l'idea che la lingua serva a tradurre i processi interiori di chi parla a chi ascolta è unilaterale e ci dà, anche per quanto riguarda gli usi più sviluppati e specializzati della lingua, solo una visione parziale e certamente non la più rilevante.
Per ribadire la posizione principale raggiunta in questa sezione, possiamo dire che la lingua nella sua funzione primitiva e nella sua forma originale ha un carattere essenzialmente pragmatico; che è un modo di comportarsi, un elemento indispensabile dell'azione umana concertata. E, in senso negativo, che considerarlo come un mezzo per incarnare o esprimere il pensiero significa adottare una visione unilaterale di una delle sue funzioni più derivate e specializzate".

"Comunione fatica" (e non "comunicazione", si badi bene) divenne "funzione fatica", come si sa, nell'esplicita ma fulminea ripresa che, trascorsi ancora degli anni, Roman Jakobson fece di queste osservazioni. La ripresa avvenne nel clima di una nascente scienza della comunicazione, con correlata tecnologia. E va forse detto che, in proposito, Jakobson si rese in realtà responsabile di una irenica riduzione che, con la sua esibita facilità meccanicista, disperse gran parte della portata provocatoria del punto di vista (lo si condivida o no) di Malinowski. "Six seven".   

18 novembre 2025

Linguistica da strapazzo (60): Articolo determinativo ["Syntactic Structures" e "Le strutture della sintassi"]

La modestia non è mai stata tra le virtù principali di Noam Chomsky, ma va detto che egli ha sempre avuto ragioni non trascurabili, personali e sociali, per non farne la propria divisa. Non si è un Chomsky per nulla. 
Pur se molto giovane (e la gioventù capita sia condizione contraria al ritegno), Chomsky fu tuttavia lodevolmente temperante quando diede un titolo, va detto, memorabile al libro che gli avrebbe assicurato una fama immediata e straordinaria: Syntactic Structures
Passa una dozzina di anni e il libro viene tradotto in italiano. Al titolo crescono gli articoli determinativi: Le strutture della sintassi.
Ora, con la determinazione e con l'articolo determinativo, sua più aperta manifestazione, l'italiano è certamente più lasco e tollerante dell'inglese. Ma, anche facendo la tara, per dire così, delle differenti confezioni, è difficile sostenere che Le strutture della sintassi e Syntactic Stuctures abbiano pesi equivalenti. 
"Le strutture...": 'tutte, ma proprio tutte tutte? Non è che per caso ne fosse sfuggita qualcuna?'. E "Le strutture...", 'proprio loro, loro per eccellenza'. Fanno così gli osti, cercando un'enfasi sbardellata nelle loro carte: "le pappardelle...", "il filetto...", "la coda alla vaccinara...", "gli gnocchi...". 
Adoperato spesso da chi crede che faciliti il sollevarsi in volo di una espressione, l'articolo determinativo, soprattutto nei titoli e negli elenchi compendiosi, come gli indici, è in effetti e al contrario una gravosa zavorra e finisce per connotare pesantemente, come palese millanteria, i nomi che introduce. 
Il caso di Syntactic Structures divenute Le strutture della sintassi fu poco o per nulla osservato all'epoca, ma fu tanto più curioso e improvvido, perché capitava alla traduzione di un'opera che, dato il suo soggetto, si sarebbe dovuta presentare come estremamente sensibile e attenta in proposito. Se, cose del genere, non le si nota tra chi professa la disciplina dedicata, chi mai le noterà? 
Ma nella dozzina d'anni che era passata dall'epifania di Syntactic Structures a quella di Le strutture della sintassi la credenza di una palingenesi della disciplina s'era affermata, tanto al centro, quanto e soprattutto alla periferia della ricerca linguistica. E, di conseguenza, alla tumescenza del titolo contribuì forse l'idea, frattanto fattasi ovvia e, a dire il vero, rimasta tale, che in quel libro, per gli studi sintattici, avesse appunto cominciato a germogliare definitivamente "il Verbo".

12 novembre 2025

A frusto a frusto (147)

La consapevolezza che arriva presto e di necessità il momento di congedarsi dal mondo sul quale solo per caso è capitato di affacciarsi non basta a mitigare gli effetti del vizio assurdo di provare, d'altronde vanamente, a capirci qualcosa.

9 novembre 2025

Linguistica candida (79): "...pour unique et véritable objet la langue envisagée en elle-même et pour elle-même"

Da millenni, è in funzione della realtà che la lingua interessa ai filosofi. Ed è in funzione dei testi che interessa ai filologi. Si dirà: "Vecchi discorsi che oggi non toccano i temi caldi della ricerca". Ma gli avatar sotto cui si presentano i due punti di vista sono sempre nuovi, anche perché, a pensarci un momento, essi si fondano, come luoghi comuni, sopra trite ovvietà. Ci sono nomi (e il resto) perché ci sono cose. E, fuori dei testi, la lingua dove sarebbe mai? 
Ma basta grattare la crosta di sbardellate novità, come la cosiddetta filosofia della mente, per vedere guizzare e prosperare il primo nelle semantiche referenzialiste (e anche nelle non referenzialiste: realtà infatti ce ne sono quante se ne desiderano e il virtuale non è invenzione dei giorni nostri). Ed è una feroce ironia della storia osservare come il secondo, degradando sino a farsi caricatura, trovi modo di ringalluzzirsi per metamorfosi con la linguistica dei corpora
Non cessa mai dunque la necessità di liberare mente e braccio dall'ipoteca che comportano tali prospettive, perché baleni (e accade molto raramente) una disciplina che abbia "pour unique et véritable objet la langue envisagée en elle-même et pour elle-même". Una disciplina ancorata solidamente al suo punto di vista diverso e originale e al suo correlato oggetto. Sopra quest'ultimo c'è da ricercare e da riflettere molto più di quanto non ne abbiano mai sognato e oggi non ne sognino filosofia e filologia, comunque mascherate. E all'interazione critica della linguistica con l'una e con l'altra, sempre possibile e in fin dei conti auspicabile, fanno da condizioni una preliminare presa di distanza e una accurata distinzione.

6 novembre 2025

Linguistica da strapazzo (59): "Paghiamo?"


A differenza di Apollonio, che esiste senza vivere, il suo alter ego sconta la sua esistenza con una vita e con i relativi impicci. "Paghiamo?", si sente dire perciò dall'addetta alla riscossione del saldo delle parcelle all'uscita da uno studio medico in cui ci si è occupati di lui (niente di preoccupante; o il contrario: l'età). E - benedetta perversione! - malgrado l'onere, se ne sente divertito e ne sorride, in compagnia dell'inseparabile Apollonio che qui ne rende rapida testimonianza, per condividere lo spasso con i suoi due lettori. 
C'è un'interrogazione che pretende di attenuare la cogenza di un invito e paradossalmente l'enfatizza. E c'è una quarta persona, altrove paternalistica e comune nell'interazione, sottilmente autoritaria, di chi cura verso chi è curato ("Prendiamo la medicina?", "Controlliamo la temperatura?). Dalle corsie e dalle sale operative si deve essere estesa alla cassa e alle correlate pratiche commerciali. 
Non c'è 'noi', d'altra parte, che non deve inquietare chi, spesso innocente, vi si trova coinvolto, ha osservato da sempre l'alter ego di Apollonio. Se pare buono, quel 'noi', perché suona a torto o a ragione come inclusivo (e questo è un caso), deve inquietare ancora di più: "Armiamoci e partite". Chi bada ai suoi interessi e non ai tuoi (casca a fagiolo, questa bella seconda persona) è sempre meglio averlo di fronte che alle spalle: "Tu paghi e noi [non inclusivo] incassiamo".
Oltre che nel lessico che, come si sa, è un fantasmatico cafarnao, non c'è dunque aspetto di quella sortita estemporanea che non giochi nello spazio concesso dalla lingua, come sistema, tra funzioni e forme. Si è inventata un'etichetta specifica, pragmatica, per designare l'attenzione specialistica a circostanze linguistiche come la menzionata. Del resto, con semantica, se ne era già molto tempo prima inventata una per rendere lo stesso servizio all'attenzione per il significato (ohibò! E il significante?). Complicazioni inutili. O meglio, utili a moltiplicare le presunte specializzazioni, i correlati insegnamenti accademici, i congressi, le riviste e il resto dell'apparato che promuove (e spesso soffoca) la curiosità per la lingua, forma principe dell'espressione umana, nei luoghi deputati.
Forme e funzioni, s'è detto invece e semplicemente, e gioco sistematico dell'espressione che a tutto provvede, fuori del procurare un supporto all'ingenua credenza della cruciale corrispondenza del detto alla realtà.