20 ottobre 2010

Da Lc. 9, 60

Come i suoi due affezionati lettori sanno, ormai da qualche anno Apollonio ha eletto a dimora, sempre più esclusiva, una Citera interiore ma per nulla solitaria. Tiene lontano da essa, come può ma con cura, il suo povero affaccendarsi medesimo, oltre che l'altrui, la cui eco gli giunge fievole ma non tanto da non rendergli palese che, non solo nella sua disciplina ma nell'insieme di fenomeni sociali e culturali che riguarda la lingua (e l'italiano in particolare), c'è un rinnovato agitarsi.
Accade periodicamente: un tempo l'agitarsi che aveva a pretesto la lingua (e l'italiano in particolare) aveva cadenze che superavano la brevità di una normale vita umana. Nell'epoca presente, quella che gli piace definire modernità putrefatta, succede a ritmi più serrati, tanto che, nell'arco di sua vita fin qui trascorso, Apollonio ha potuto farne più di un'esperienza: sono anche effetti collaterali del prolungarsi (quanto di valore?) di un sempre più largo e generale permanere delle esistenze, tra le quali la sua medesima.
Gente pensosa ha ricominciato ad agitarsi intorno alla lingua, dunque, ed è tutto un fiorire di iniziative, in cui c'è chi dice come, con la lingua, dovrebbe andare e invece, a suo parere, non va; c'è chi va a caccia di cariatidi disciplinari eleggendole a feticci di presunte restaurazioni di antichi valori; c'è chi continua a fare l'insignificante nulla che ha sempre fatto, verniciandolo (con l'aiuto di interessati complici) della qualificazione di nuovo (o novo, come per memoria ascoliana verrebbe fatto di scrivere), certo del potere di ulteriore inebetimento che l'evocazione di tale disgraziato aggettivo ha sempre esercitato sulle menti già sciocche.
Un formicolare che, Apollonio non sa perché, nella sua laica memoria risveglia il ricordo di catechismi infantili, con quella tremenda sentenza, di cui già allora si chiedeva ragione e di cui solo adesso, rovesciandola, ha l'impressione di intuire (ma solo appena) il valore, pacificandosi con il mondo se non con se stesso: "Lascia i morti disseppellire i loro morti".

13 ottobre 2010

À la mode de Bouvard et Pécuchet

Syntaxe: Studia come le parole si combinano fra loro quando si uniscono per produrre testi, orali e scritti. Moyenne, diathèse: Mancante in italiano [...]. Attraverso la forma media è [...] possibile, all'interno della coniugazione verbale, indicare una più intensa partecipazione del soggetto all'azione. Finales, propositions: Indicano con quale fine viene compiuta o verso quale obiettivo tende l'azione espressa nella proposizione reggente.
Il s'agit de quelques passages tirés de grammaires italiennes réputées et très répandues. À l'instar de Gustave Flaubert, on les a simplement mis sous la forme qu'ils auraient en tant qu'entrées exemplaires d'un dictionnaire des idées linguistiques reçues, sans les changer d'une virgule et comme échantillon d'un travail qui mériterait bien d'être mené jusqu'au bout.
Les références ne sont pas importantes, ici. L'une grammaire vaut l'autre et même le choix de l'italien, ce n'est qu'un prétexte. Il n'est pas même dit qu'il soit le prétexte le meilleur. Dans les grammaires, toutefois, l'accent ne tombe pas sur la langue mais sur la métalangue. N'importe quelle langue, même l'italien, si déjà soumise au traitement des grammairiens, et l'italien l'a largement été, est donc appropriée à la besogne. En effet, peut-on imaginer une grammaire d'une langue quelconque où une proposition appelée finale n'indique pas con quale fine viene compiuta o verso quale obiettivo tende l'azione espressa nella proposizione reggente?
D'ailleurs, on n'a pas cité ces exemples typiques d'une prose grammaticale pour les censurer ni pour dire, par rapport à la langue qui leur donne l'occasion d'exister, qu'il s'agit d'affirmations incorrectes ou bien fautives. La grammaire est le missel d'un rite qui se réalise en soi même. Elle n'est pas soumise à la preuve. Sa Stimmung dépasse toute question de correction car, à vrai dire, elle fonde la correction même. Elle est la source de toute pensée grammatically correct.
Vox populi, vox Dei est l'une des deux épigraphes qui introduisent le Dictionnaire des idées reçues et, parmi les voix par lesquelles la civilisation occidentale s'exprime, celles des grammaires et des grammairiens ne manquent pas de "popularité" et, donc, de "divinité". D'où l'hypothèse que, comme on l'a toujours conçue et comme on ne peut que la concevoir, la grammaire n'est à vrai dire qu'un dictionnaire déguisé: un dictionnaire d'idées reçues. L'hypothèse pourrait peut-être contribuer à éclaircir quelques aspects d'un mystère véritable: l'inefficacité de la linguistique. Contre la grammaire, fatras d'indéracinables idées reçues, les efforts de toute intelligence raisonnable sont vains. Deux siècles de linguistique prétendue scientifique le démontrent de manière irréfutable et, d'ailleurs, Ferdinand de Saussure l'avait bien prévu.
À l'Université de Montpellier, début 2011, avec toute la gravité nécessaire, un synédrion de grammairiens francophones va se poser la question "comment peut-on écrire une grammaire?" "Mais à la mode de Bouvard et Pécuchet - c'est la réponse que Apollonio, d'un esprit solidaire et fraternel, veut leur proposer, en tant que modeste suggestion -. Sous des formes toujours variées, ne l'avez-vous pas fait jusqu'à présent? Soyez tranquilles, chers et aimables collègues: vous continuerez à le faire".

10 ottobre 2010

Futuro

Il passato è svanito. Averne consapevolezza è sempre stato faticoso, del resto.
Il presente è disgustoso. Le sue prassi sono certo più facili di quelle imposte dalla consapevolezza del passato. Sono però tutt'altro che esenti da rischi e responsabilità.
Agli uomini pubblici non rimane dunque che il futuro. Parlarne, facendo sembiante di frequentarlo come fosse il cortile di casa, è agevolissimo, non comporta responsabilità di sorta ed è privo di controindicazioni, se non per l'intelligenza propria e di chi ascolta. Ma di quella, com'è noto, e grazie al cielo, non importa niente a nessuno: ciò è garanzia, nei rarissimi attimi in cui balugina, della sua autenticità.
I due lettori di Apollonio l'hanno di certo già notato: futuro è la parola del momento. Il futuro ha insomma un grande presente e, tra le ragioni del suo presente successo, c'è anche, in chi lo nomina (il numero fa ormai legione), il desiderio di obliterare così il ricordo di passati imbarazzanti e neanche troppo remoti.
Ora, le grammatiche scrivono che il futuro è un tempo e i loro propalatori, creduloni, come tale l'impartiscono alle anime innocenti che sono loro affidate, quando ci riescono (ormai sempre più di rado).
Invece, nella lingua, prima di essere un tempo, il futuro è un modo. Se gli capita (come gli capita) di fare il tempo, glielo consente appunto la sua natura di modo.
Così non fosse, non sarebbe possibile allontanarsi dalle frotte di ciarlatani che oggi e sempre abusano di futuro e del futuro con il solo breve commento che, accompagnato da una scrollata di spalle, meritano i loro vuoti discorsi: "Sarà...".

11 settembre 2010

"Carnalivaru o cu ci va appressu"?

"Il mondo in balia di un idiota" è il titolo dell'articolo di spalla che oggi, 11 settembre 2010, compare sulla prima pagina di un importante quotidiano italiano. Lo firma il direttore. L'idiota (è appena il caso di dirlo) è quel religioso americano amante, a suo dire, dei roghi.
A margine delle dichiarazioni di intenti del pastore, dell'articolo dell'illuminato direttore e di tutto l'assordante e caotico rumore che intorno a quelle dichiarazioni è stato fatto, nessun commento è migliore, a parere di Apollonio, di quello fornito dalla saggezza popolare espressa in un tradizionale detto siciliano: "Cu è chiù fissa, Carnalivaru o cu ci va appressu?" [Chi è più stupido, Carnevale o chi gli va dietro?].
Il mondo in balia di un idiota? Quando mai! Come sempre, il mondo in balia degli innumerevoli stupidi che stanno nel codazzo di un idiota, anche solo per atteggiarsi facilmente a critici, e che amplificano con le proprie idiozie l'eco delle sue, altrimenti insignificanti, sovente per calcolo sconsiderato di interessi meschini.

3 settembre 2010

Frammento di un breviario d'osservanza

Quanto alla conoscenza, il limite destinerebbe l'uomo a una sola, negativa certezza: quella dell'ignoranza e dell'errore.
In ogni àmbito sperimentale, all'apparire di uno spirito orientato alla scepsi può seguire il formarsi, teoretico e metodologico, di una scienza. Si sta naturalmente dicendo di una vera scienza, non delle parodie, tanto più grottesche quanto più benavventurate, che ne usurpano il nome, in ogni campo dell'umana esperienza.
Lo spirito zetetico della scienza ha come bersaglio ogni assoluto, anche l'estremo: la certezza dell'ignoranza e dell'errore. Teorie e metodi della scienza mettono alla frusta, aleatoriamente (di più non si potrebbe), tale certezza.
Ne segue che, in funzione della conoscenza, con la scienza l'uomo aspira a privarsi anche della sua ultima giustificazione morale, del sicuro riparo procuratogli dalla sua naturale destinazione all'ignoranza e all'errore. Più si riduce l'ombra pietosa di tale riparo, più cresce la luce della responsabilità: cresce, in principio, verso l'infinito. E la luce, cruda e impietosa, svela che a portare la responsabilità è un essere che ha nel limite il suo stigma e, se di salute si tratta, forse la sua sola salute.
Il paradosso è lancinante ed è la condizione d'esistenza di una conoscenza saggia e, per quanto si può, cosciente: fuori della violenza ipocrita e dell'efficace imbroglio che si impadroniscono sovente di intraprese che si dicono scientifiche, rendendole false sin dai loro primi vagiti.
Una scienza che vende certezze, colpevolmente priva della consapevolezza d'essere invece chiamata a incalzare la certezza fino al suo estremo ridotto, una scienza reticente quanto al paradosso da cui prende origine e che inflessibilmente la determina, una scienza imbonitrice e consolatoria è impostura, lo si sappia. Gonfiandosi e insuperbendo, l'impostura diventa troppo umana. Può muovere perciò chi la smaschera a una sdegnosa rabbia.
Se le accade di diventare troppo umana, tuttavia, è perché l'impostura è semplicemente umana, in fondo. È faccetta inalienabile e rivelatrice di ciò che è proprio dell'uomo: la povertà di spirito che gli impone d'affaccendarsi, senza requie. A chi la scorge (e oggi non ne mancano occasioni), la scienza come impostura può solo ispirare, dunque, la riflessiva e amara simpatia, la compassione solidale ma non complice che si destina al ciurmatore colto sul fatto.
Un esempio recente, che sfiora pericolosamente la linguistica, e la sua momentanea conclusione.

2 agosto 2010

Lubrificare il mutamento



Con un po' d'olio, il meccanismo del mutamento (linguistico) si muove meglio, sarebbe il caso di commentare. E si sta movendo all'unisono chi guarda, ascolta e legge questo annuncio (che passa oggi in televisione) e, giustamente, non ci trova nulla di strano: la pubblicità asseconda le tendenze, quelle linguistiche prima di tutte le altre e chi la guarda si guarda allo specchio. Chi, invece, nota qualcosa non s'impanchi a censore, per carità, ma goda del piccolo spettacolo, condita sineddoche (con altra facile associazione figurata) del grandioso e inesausto movimento della lingua.

12 luglio 2010

Lingua nel pallone (3): Scolio ai Mondiali 2010

Terzino (destro o sinistro), centromediano (metodista) e poi stopper e libero, ala (destra o sinistra), mezzala (destra o sinistra), centroavanti: amati ruoli del gioco del calcio dei tempi della giovinezza di Apollonio, dove siete finiti mai? Quale erebo alberga oggi le vostre misere spoglie linguistiche, rivelatesi mortali? Sopravvissuto alla catastrofe è solo portiere e sarà soltanto per l'opera benemerita di uno scoliaste, se domani resterà ancora interpretabile "Una vita da mediano".

10 luglio 2010

Scomparire

"È scomparso improvvisamente questa notte nella sua abitazione di Pisa Francesco Orlando": così il blog del Maggio musicale fiorentino, lo scorso 22 giugno. Ma (vien fatto di chiedere) siete sicuri? E avete provato a guardare dentro l'armadio o sotto il divano?
Si badi bene: la morte di Orlando ha molto colpito Apollonio e, quando sarà passata l'emozione, di lui (comparso nel mondo e andato via come un personaggio letterario) gli accadrà forse di parlare ancora. Del resto, per un morto, c'è mai stato nulla di più onorevole di un funerale che lo rivela e scioglie così in una risata la tragicità della vita?
La lingua ha poi le sue ragioni che quelle del cuore non possono oscurare. Con la puntigliosa determinazione locale, l'espressione dell'anonimo autore del "coccodrillo" ha messo a nudo il carattere di corrivo eufemismo di scomparire. Lo si sa: tra le persone a modo e di livello, morire è cosa che non si fa e quando a qualcuno magari sfugge inopinatamente di morire, per mascherare l'atto inelegante, benevoli sodali non gli attribuiscono una morte ma una scomparsa. Così, a proposito di Orlando, si sarebbero appunto espressi l'ambasciatore Tancredi Falconeri e la di lui consorte, Angelica.

16 giugno 2010

Copy? Quel diavolo di Denis!

Dal finestrino di un autobus, un manifesto fa l'occhiolino a Apollonio, che, catturato, ne cattura al volo il messaggio: "Se il mio Breil potesse parlare". È questione, a quanto pare, del bijou della splendida ragazza nella foto: un bijou indiscret o che, a credere all'annuncio, amerebbe diventarlo.
Vecchio impenitente libertino di un Denis Diderot! C'è sovente il tuo riconoscibile zampino nelle imprese moralmente più dubbie. Oggi che di Encyclopédie non vuol più saperne nessuno e che, tra il plauso dei peggiori bigotti, i più imbiancati sepolcri si spacciano per illuministi, sono felice di vedere che, freelance, sbarchi il lunario come copywriter e ti fai pagare per raccontare storielle inventate quasi trecento anni fa.

12 giugno 2010

Laudator temporis acti

"Multa senem circumveniunt incommoda, vel quod / quaerit et inventis miser abstinet ac timet uti, / vel quod res omnis timide gelideque ministrat, / dilator, spe longus, iners, avidusque futuri, / difficilis, querulus, laudator temporis acti / se puero, castigator censorque minorum" (Molti incomodi assediano il vecchio: cerca qualcosa ma, meschino, si astiene da ciò che trova e teme di farne uso, fa ogni cosa timidamente e freddamente, rimanda, spera lungamente, sta inerte, è avido di futuro, difficile, lamentoso, loda il tempo andato, quando era un fanciullo, fustiga e censura i giovani).
È (di nuovo) Orazio e un celebre passaggio dell'Ars poetica. Apollonio se lo ripete, come tacita e laica orazione, appena gli vien voglia di pensare (e, il Cielo non voglia, anche solo di accennare) alla decadenza del presente (e, siccome è vecchio, la voglia gli viene spesso).
Usa Orazio per scacciare la tentazione di imboccare la scorciatoia che la vita apre alla pigrizia dei vecchi: e lui pigro è sempre stato, vecchio, appunto, quando meno se l'aspettava, è diventato. E sta lì, sempre in procinto di prendere la via che conduce al baratro della rinuncia a capire. Non a condannare e a indignarsi né a giustificare e ad approvare: a tali attitudini ha volentieri rinunciato da gran tempo, non appena ha capito che sono quelle tipiche dei pigri di tutte le età. Chi non vuole fare lo sforzo di capire, condanna, s'indigna o, conversamente, approva e giustifica. Provare a capire è del resto la cosa che, al mondo, richiede la fatica maggiore e rende di meno: roba che si può fare solo per diletto, giammai per mestiere. Si passerebbe giustamente per matti. Bisogna quindi essere comprensivi con chi condanna e s'indigna, giustifica e approva: è gente che, come sa e può, cioè pigramente e cercando di scansare la fatica, lavora. E bisogna capire i vecchi, allora, quando, comprensibilmente, se mai l'hanno fatto, smettono di provare a capire e, in rapporto al presente, cominciano a condannare e a indignarsi. E a lodare il tempo che fu.
Cosa che Apollonio tenta di non fare (e che Orazio, come diceva, l'aiuta a non fare) anche perché lasciarsi andare alla lode del tempo andato e al correlativo dispregio per il presente finirebbe per confliggere con qualche sua personale e radicata convinzione sulla decadenza.
Egli è fortemente convinto infatti che la decadenza sia tra le poche cose al mondo che non decadono mai. Essa è permanente. C'è sempre stata. La pensa così non tanto perché Shakespeare non sapeva il greco e Omero non sapeva l'inglese, come ricordava Ennio Flaiano a chi gli faceva notare i guasti culturali e l'ignoranza del suo tempo: lo stesso che, essendo andato, oggi si sente lodare spesso. Quanto perché essere è niente di più e niente di meno di decadere. Sei? Pensa Apollonio. Allora non ci son santi: decadi.
Ne segue (sempre a parere di Apollonio) che non c'è tempo andato che non sia decaduto esattamente come decade il presente.
Questa è la premessa di fatto. Si venga adesso all'effetto percettivo. I giovani d'ogni epoca non s'accorgono in genere della decadenza del loro tempo. Perché? Perché essi decadono alla sua stessa velocità e al suo stesso modo. Si tratta insomma di puro effetto relativistico. Essi stanno sul vettore del loro tempo, ne fanno pienamente parte, quindi fanno parte della sua decadenza, del suo essere.
Rispetto al tempo, i vecchi, invece, perdono velocità, provano a inseguirlo, arrancano, cadono, si rialzano ma quello se n'è già andato. In loro, nasce quindi la percezione soggettiva del decadimento del tempo che vivono, in funzione della memoria di quello che hanno vissuto, col quale, da giovani, decadevano ovviamente in perfetta sintonia e della cui decadenza, quindi, non hanno serbato alcuna memoria. Non c'è mai stato, non c'è, mai ci sarà quindi un presente che non sia decadimento per i vecchi che lo vivono e che, semplicemente, non capiscono di esser stati loro medesimi, festosamente inconsapevoli, ad avere accompagnato il mondo sulla soglia di quel baratro che vedono improvvisamente spalarcarsi davanti ai suoi piedi, davanti ai loro medesimi piedi.
Tutto là. Del resto, è naturale che sia così. La perdita di velocità del vecchio è anticipo del suo definitivo fermarsi, del suo uscire dalla decadenza e dall'essere: un'uscita che mette fine a quella disarmonia, a quella cacofonia e la sposta verso altri lamenti, verso altre querimonie: in eterno.

9 giugno 2010

Dogmi

Un'amica lettrice richiama l'attenzione di Apollonio sopra un articolo di Angelo Panebianco, comparso sul Corriere della Sera di un paio di giorni fa. I pericoli che "scienza" e "scienziati" corrono nella temperie presente e quelli, congiunti, che fanno correre al prossimo (che si tratti di altri "scienziati" o no) vi sono pacatamente discussi, nelle loro ragioni tanto contingenti quanto permanenti.
Tra le contingenti e tipiche della modernità marcia, il contatto con un'opinione pubblica che, ormai orfana di Dio e dei preti anche quando va alla messa ogni domenica, è sempre alla spasmodica caccia di predicatori consolatori o apocalittici (tra i quali, in prima fila da qualche tempo gli studiosi del clima).
Tra le permanenti, il dogmatismo (cui è dedicata l'enfasi del titolo) di chi, tra gli "scienziati", si comporta come se avesse ragione per principio, stando sull'onda dell'andazzo, che, padrone della società, non risparmia certo laboratori e biblioteche: anzi.
La conclusione del pezzo è divertente, poi, con la vicenda delle mucillagini adriatiche di tempo fa e dell'unico esperto, tra i molti intervistati in tv e subito pronti a tromboneggiarne spiegazioni, che risponde: "Non so. Il fenomeno è complesso. Devo studiarlo". Per tale risposta, egli si merita oggi la lode di affidabile e saggio studioso da parte di Panebianco e non diversamente l'avrebbe pensata Leonardo Sciascia. Non tutti avranno ancora memoria del fatto che, chiamato a dire la sua, come grande esperto di cose siciliane, su una delle peggiori stagioni palermitane di crude mattanze, quella degli inizi degli anni Ottanta, Sciascia rispose: "Non si capisce", lasciando tutti di stucco.
Grazie perciò all'amica lettrice della segnalazione: tutto condivisibile. Facilmente. Troppo facilmente?
Nel fondo dolceamaro dello spirito di Apollonio, a lettura conchiusa, resta infatti un'insoddisfazione. La sua legnosa testa è rósa da uno di quei tarli che egli trova (ma forse si illude) salutari per una anche minima circolazione interna di pensieri diversi dai soliti.
Ma sì, che lo si dica apertamente. Malgrado paia che critichi duramente e faccia il burbero, Panebianco, con la "scienza" è fin troppo benevolo; è fin troppo condiscendente. Verso essa ha l'attitudine tipica del chierico di una moderna religione. Un'attitudine intelligente, certo, ma su cui pende sempre un'implacabile condanna: quella di abbassare il capo, di sospendere, a un certo punto, la critica e di sottomettersi speranzosi alla fede nelle sorti magnifiche e progressive, delle quali alla "scienza" (ora che tutto il resto è crollato e non solo i sogni moderni ma anche i presunti rimedi a tali sogni si sono rivelati incubi) è rimasta la massima e messianica parte. La condanna ha poi un'aggravante. Fede e speranza non si possono perdere, tanto meno pubblicamente: "Però l'errore dogmatico è, col tempo, rimediabile. Data la natura antidogmatica della scienza, il dogmatismo che talora pervade scuole e settori scientifici resta fondamentalmente un corpo estraneo. Non dipende dalla scienza ma dalle debolezze umane degli scienziati. Prima o poi, è l'attività scientifica stessa, nel suo procedere, a sviluppare gli anticorpi e a sconfiggere il dogmatismo...": con un altro dogmatismo, visto che, come ogni altra prassi umana, ne produce di continuo? O è blasfemo chiederlo, perché la "scienza" è per principio l'eccezione e va, per ciò stesso, santificata? E ciò che Panebianco ci racconta, consolante, della differenza tra "scienza" e "debolezze umane degli scienziati", ciò che, come esperto, ci dice delle mucillagini del dogmatismo, che resterebbe in ogni caso "estraneo" alla "scienza", priva (per grazia di chi?) dei miserabili difetti umani, non lo si è mille volte sentito raccontare, pari pari, da un pulpito? Basta sostituire "peccato" a "dogmatismo", "religiosi" a "scienziati" e "chiesa" a "scienza" e si vedrà che Panebianco, da buon chierico, sta in sostanza facendo il solito fervorino edificante: il vostro "scienziato" (come il vostro parroco) è solo un pover'uomo vanesio e conformista, quindi dogmatico alla bisogna, ma la "scienza" che egli serve sublima queste miserie, corregge i suoi umani errori: la "scienza" è la "Scienza".
No. Diversamente dall'uomo saggio e pensoso che dice di avere ammirato (e che solo per caso, di professione, fa lo "scienziato"), con questo scritto Panebianco non ci ha detto: "Bah! non so. Il caso della scienza e del dogmatismo è complesso. Devo studiarlo". E mille e più di mille, cara amica lettrice, sono i travestimenti sotto cui viaggiano i pensieri dogmatici.

3 giugno 2010

Pace (e guerra)

Questa foto circola in rete. "Pacifisti, di ritorno a Istanbul": è più o meno la glossa che le riservano i mezzi di informazione che la pubblicano. Il riferimento è ai tragici fatti accaduti un paio di giorni fa, nelle acque di Gaza, che hanno visto morire una decina di esseri umani. Valeva evidentemente la pena morissero perché, ridendo, si alzassero due dita aperte in segno di vittoria. Vittoria su cosa?
Niente di nuovo, naturalmente. Pace e guerra (come amore, odio, solidarietà etc.) sono tra le parole che si prestano meglio a ogni mistificazione e non c'è stata epoca in cui a qualcuno non è venuto in mente di mettere in guardia gli esseri umani da tale loro capacità trasformistica (che dell'espressione umana è risorsa e bellezza). Mettere in guardia inutilmente: è ovvio. Talvolta vestiti da agnelli, talaltra da lupi, gli esseri umani sono ciò che sono: la loro espressione, i loro ghigni, i loro gesti ne celano la natura. Celandola, ne rivelano sempre però il turpe celamento.

25 maggio 2010

Transgender

"Cambridge: imbarazzo per l'errore ortografico sulla porta dell'ateneo": è il titolo di un pezzo che compare nell'edizione in rete del solito grande quotidiano nazionale. Vi si racconta di un'epigrafe greca in cui inopinatamente compare una lettera dell'alfabeto latino (sopra è riprodotto il dettaglio).
La prosa fa naturalmente della spiritosa ironia sull'incidente occorso alla nobile istituzione culturale e nel sommario si legge "Gaffe Cambridge: storpiato Aristotele... Sulla porta dell'ateneo l'errore in una frase del filosofo: anziché la sigma greca la esse latina".
L'epoca è propizia alle mutevolezze di genere, se non proprio alle sue indeterminatezze, come ognun sa. Sigma era neutro in greco ed è arrivato come maschile in italiano. Se il grande quotidiano nazionale, come del resto Wikipedia, sotto la spinta profonda di un implicito "lettera", l'assegna al femminile, il sigma deve esser frattanto passato da Casablanca. Sarà stato per rendersi più accetto ai tempi.
Incertezze quanto al genere, peraltro, deve averne tradizionalmente suscitate. Alla voce sigma, per es., il Battaglia annota: "sm. e f.". Tutte le attestazioni che dà, tuttavia, paiono maschili. Per maschile, del resto, lo trattano le buone vecchie grammatiche greche, se la memoria dei suoi tremendi anni ginnasiali non tradisce Apollonio, che (come sanno i suoi due lettori) è sempre ben disposto alle innovazioni ma, ancora come allora, inguaribilmente affezionato al delta.

Ultimissime: Alle 20 la pagina risulta ritirata dal sito del grande quotidiano nazionale: eccesso di zelo? Ipercorrettismo? Gli amatori ne trovano trasparente traccia, però, grazie al motore di ricerca ivi messo a disposizione, cercando "sigma".

18 aprile 2010

Oggetto con preposizione

Nell'orale dei colti, l'oggetto con preposizione è comune non da oggi. Nello scritto, ad Apollonio, non era invece mai accaduto di registrarne una ricorrenza come quella che sta oggi a p. 49 del supplemento culturale del Sole 24 Ore, sotto la penna di Carla Moreni: "A noi oggi spaventa il titolo, ostico. Ai nazisti, negli anni Trenta, il contenuto, l'originalità della scrittura, l'indipendenza dell'autore rispetto al regime. Di fatto Die Gezeichneten (si pronuncia ghe-zaich-ne-ten) del viennese Franz Schreker, messa al bando come musica 'degenerata' (si pronuncia 'follia-degli-umani') arriva solo oggi in Italia, in prima esecuzione al coraggioso Teatro Massimo di Palermo".
C'è naturalmente, in questa ricorrenza, tutto quello che si trova, di norma, in altre e che funge da condizione adiuvante: il predicato psicologico (spaventare), il pronome personale (noi), su cui s'addensa l'enfasi dell'apertura del nesso. Di specifico, c'è il fatto che il modulo ha la forza di proiettarsi, per ellissi, nel nesso successivo, producendo ai Nazisti: pollone nominale di un rizoma sintattico, che esorbita dal consueto e apre un fronte di crescita per l'oggetto con preposizione in un registro di lingua che più corrivamente snob sarebbe difficile immaginare e che, per questa ragione, registra meglio di ogni altro la tendenza. Tutto avviene fuori dell'influenza di varietà centro-meridionali che invece produce nel sub-standard fenomeni solo in apparenza eguali.
Ad usum di storici della lingua del futuro (se la lingua avrà storici, nel futuro).

12 aprile 2010

"Tutti altoatesini"

Nel momento in cui Apollonio scrive questo post, l'edizione on-line del maggiore quotidiano italiano porta, come principale, il seguente titolo: "Merano, frana sul treno dei pendolari. Nove morti, tutti altoatesini". Fosse successo nei pressi di Tradate (il Cielo ne scampi i tradatesi, naturalmente, come ogni altro essere umano), il Corriere avrebbe sentito il dovere di precisare: "Tutti lombardi?" E se nei pressi di Fara in Sabina, "Tutti laziali?"
Per implicito riferimento, l'infelicissima espressione ricorda la formula in uso in occasione di tragedie foreste: "...tra le vittime non si contano italiani". Ci si commuova, nei tinelli nazionali dove risuonano lingua e dialetti del sì, con un sospiro di sollievo: gli italiani stavolta ci sono ma "tutti altoatesini".

Ultimissime: alle 23.10, "tutti altoatesini" è scomparso dal titolo, come c'era da augurarsi facesse, per carità di patria.

11 aprile 2010

"Quando c'è la nebbia, non si vede"

La particella italiana generalmente detta riflessiva (e, quando non riflessiva, impersonale) è emblema di una sorta di Malström fenomenico. Il gorgo ingoia costruzioni differenti, tutte "colpevoli" però d'essere passate da un collasso funzionale, modularmente diverso, di soggetto e oggetto diretto. Dopo averle ingoiate, sputa in superficie un ambiguo e sparuto relitto: si o, nel caso di soggetto grammaticale diverso dalla terza persona, singolare o plurale, mi, ti, ci, vi, prefissi del verbo, variabili esattamente come le sue desinenze personali. Meglio di come mai potrebbe Apollonio (fioco per lungo silenzio: ma di ciò, forse, un'altra volta), lo illustrano Antonio e Peppino Caponi, in un famoso gag tratto da Totò, Peppino... e la malafemmina, film di Camillo Mastrocinque del 1956:



2 marzo 2010

Traditore. Traduttore?

Nel 1963 Nicolas Ruwet cura in Francia la pubblicazione d'una raccolta di scritti di Roman Jakobson: sono i famosi Essais de linguistique générale, destinati a diventare, con pochi altri, libro di riferimento di un'importante stagione della linguistica moderna (l'ultima, fino a questo momento).
Jakobson si trova a vivere e a insegnare da un ventennio negli Stati Uniti: li ha avventurosamente raggiunti negli anni Quaranta, fuggendo a più riprese e con diverse tappe la marea del totalitarismo politico, dell'antisemitismo, della guerra che sommerge l'Europa. Così, parecchi (forse tutti) gli articoli compresi nella raccolta sono originalmente comparsi in inglese: l'allora giovane curatore belga li traduce in francese.
Tra i saggi tradotti, c'è On linguistic aspects of translation, apparso nel 1959 in un volume miscellaneo consacrato alla traduzione. In originale, ecco la sua conclusione: "If we were to translate into English the traditional formula Traduttore, traditore as 'the translator is a betrayer', we would deprive the Italian rhyming epigram of all its paronomastic value. Hence a cognitive attitude would compel us to change this aphorism into a more explicit statement and to answer the questions: translator of what messages? betrayer of what values?".
Ruwet adatta la conclusione al francese: "S'il nous fallait traduire en français la formule traditionnelle Traduttore, traditore, par 'le traducteur est un traître', nous priverions l'épigramme italienne de sa valeur paronomastique. D'où une attitude cognitive qui nous obligerait à changer cet aphorisme en une proposition plus explicite, et à répondre aux questions: traducteur de quels messages? traître à quelles valeurs?".
Tre anni dopo la pubblicazione francese, gli Essais di Jakobson escono in edizione italiana. È la stagione in cui l'Italia si apre, con entusiasmo ma non senza resistenze, alle novità del movimento battezzato sommariamente strutturalismo, di cui Jakobson è ritenuto un campione. Le traduzioni di linguisti e semiologi spesseggiano. Nei Saggi di linguistica generale, curati da Luigi Heilmann (alle traduzioni collabora Letizia Grassi), non c'è ovviamente ragione che la traduzione assegnata per ipotesi da Jakobson al detto Traduttore, traditore appaia nell'adattamento francese di Ruwet. Del resto, dichiarano esplicitamente curatore e sua collaboratrice, l'edizione italiana è condotta sugli "originali inglesi". La conclusione del saggio sulla traduzione si presenta però come segue: "Se si dovesse tradurre in inglese il detto italiano tradizionale: traduttore, traditore, con 'the translator is a traitor', si toglierebbe all'epigramma il suo valore paronomastico. Di qui un'attitudine conoscitiva che ci obbligherebbe a svolgere questo aforisma in una proposizione più esplicita, e a rispondere a queste domande: traduttore di quali messaggi? traditore di quali valori?".
Apollonio non è naturalmente in grado di escludere che esista una versione inglese del saggio di Jakobson diversa da quella oggi nota e più volte pubblicata dal 1959. Da tale ipotetica versione il curatore italiano e la sua collaboratrice potrebbero avere tratto quel discordante (e peraltro innocuo) traitor.
Non si può tuttavia evitare di pensare, in concorrenza, a una sottile e gustosa ironia del destino. Nella traduzione di un saggio di Jakobson sulla traduzione, evocatore dell'inevitabile tradimento del traduttore, l'infedeltà si spinge fin dove non ci si attenderebbe di trovarla, perché a essere fedeli sarebbe stato per una volta sufficiente (e necessario?) attenersi semplicemente all'originale. Ammesso naturalmente che lo si avesse veramente presente e non lo si stesse ricostruendo a partire dalla traduzione francese.
Jakobson ebbe certamente tra le mani l'edizione italiana dei suoi Saggi. Mai gli sarà caduto l'occhio sulla discordanza di ritorno, innocente per lui ma non per i suoi traduttori italiani? La circostanza l'avrà divertito e ne avrà solleticato lo spirito impagabilmente perverso.

PS. I due lettori di Apollonio non avranno mancato di notare che nel 1966 l'inglese (e francese) cognitive era (ancora) l'italiano conoscitiva. Naturalmente, l'aggettivo cognitivo, in italiano, c'era già da molti secoli ma, tra i "filosofi", non era di moda (notava Tommaseo). Oggi, tra i "filosofi", è invece in auge, sull'onda dell'inglese: lo è tanto da avere oscurato, a sua volta, conoscitivo e da essere divenuto emblema di un andazzo.

22 febbraio 2010

L'italiano al telefono

Più di 20000 pagine di trascrizioni di conversazioni telefoniche: a Citera giunge la notizia. Che si aggiungono al numero imprecisato, ma certo astronomico, di quelle raccolte negli ultimi decenni. Un corpus sterminato, un'impresa titanica di accertamento linguistico cui si è consacrata una parte importante dell'apparato dello stato, peraltro (e qui sta l'aspetto delizioso) senza intenzione. Le vie della Provvidenza sono veramente infinite. Lo dice un grande nume nazionale: lassù c'è certamente qualcuno che si occupa dei miseri e quindi delle discipline miserelle, come appunto la linguistica (italiana), che mai avrebbe avuto addetti e strumenti adeguati alla bisogna.
Apollonio non sa quanto tale corpus serva alla ricerca delle verità processuali (c'è chi dice moltissimo e chi l'esatto opposto, pare, sostenendo che servono soprattutto ai giornali). Per lo sviluppo della ricerca di una lingua al telefono, esso è risorsa che è difficile pensare abbia pari al mondo. Nell'ancora favolosa Cina, forse, potrebbe esserci qualcosa di comparabile: lì tutto, pare, sia sotto controllo, anche la rete: ma trascritto?
Ammesso naturalmente che ci sia qualcuno capace di gestirlo scientificamente, il dono grazioso e provvidenziale di quelle pagine, e non ci anneghi, sommerso dalla sovrabbondanza. In ogni caso, le premesse perché l'italiano diventi, almeno in qualcosa, la prima lingua al mondo ci sono tutte. Sarebbe un peccato sciuparle: orsù, linguisti italiani, con solerzia, è l'ora di produrre al competente ministero le adeguate richieste di finanziamento, spiegando che, in condizioni come quelle del ricercatore (e del ricercato) italiano, oggi, non c'è nessuno.

19 febbraio 2010

"L'italiano una lingua in coma": un punto di vista

Un giorno, a Ginevra, Ferdinand scrisse un appunto che diceva quanto segue. Per uscire dal circolo vizioso in cui si trovano da sempre i discorsi sulla lingua (nessuno escluso), è indispensabile sostituire, una volta per tutte, la discussione dei «fatti» (scrisse proprio così, usando le virgolette) con quella dei punti di vista, perché "non c'è la minima traccia di fatto linguistico, la minima possibilità di cogliere o di determinare un fatto linguistico fuori dell'adozione preliminare di un punto di vista".
L'articolo di Paola Mastrocola "L'italiano una lingua in coma", oggi sulla Stampa (nel giornale in edicola, pare, addirittura in prima pagina), parla di lingua. Di professione insegnante e scrittrice, l'autrice vi illustra il lamentevole stato in cui versa la didattica linguistica nelle istituzioni scolastiche italiane: come darle torto? Del resto, geremiadi di tenore comparabile sono comuni in ogni epoca. Diventano ancora più comuni in quelle critiche (la presente pare tale) e soprattutto sotto la penna dei titolari di matita rossa e blu, cui spetta d'elezione additare la decadenza dei costumi (linguistici). Il pezzo propone del resto anche misure per fare fronte allo stato della calamità culturale che descrive e, anche lì, poco da dire: chi non approverebbe una scuola che volesse insegnare di più, anche più grammatica, a chi la frequenta appunto per imparare?
Un dubbio, a dire il vero, qui resterebbe. Di insegnare più grammatica fuori delle ore canoniche di lezione, secondo la Mastrocola, si dovrebbero far carico "i giovani precari disponibili". Ora accade che, nei loro studi superiori, la grammatica non è stata insegnata neanche a costoro (né alla stragrande maggioranza dei loro colleghi con posto fisso). C'è da chiedersi se tanti di loro passerebbero il test linguistico di ingresso che la Mastrocola propone per gli studenti che s'iscrivono alle superiori. Per carità di patria e per tenersi al tono edificante (e in fondo corporativo) dello scritto, tale dubbio può però essere qui messo a tacere.
Quando la Mastrocola, in un passaggio decisivo, scrive però "vorrei timidamente avvertire che ci sarebbe un problemino da risolvere con urgenza: il fatto che i ragazzi hanno di fatto perduto la conoscenza della lingua italiana" (i corsivi sono di Apollonio), la questione del rapporto tra "fatto" e punto di vista si presenta in tutta la sua evidenza.
Come sanno i suoi due lettori, Apollonio vive nella sua Citera e del mondo poco sa. Dal poco che sa, però, il fatto non gli risulta. Non gli risulta che i giovani italiani siano diventati d'improvviso alloglotti e che, invece della lingua neolatina che sta in bocca ai loro genitori, parlino e scrivano inglese o cantonese, poniamo. Tanto meno gli risulta che siano tornati all'espressione dialettale dei loro bisnonni (magari fosse così! Si potrebbe snobisticamente dire, per certi aspetti).
Cosa significa allora che la Mastrocola dica che è un fatto che di fatto i ragazzi hanno perduto la conoscenza della lingua italiana? Significa che si esprimono in un italiano scolasticamente inadeguato, in un italiano che non è tale dal suo punto di vista di professoressa. L'articolo non sta parlando di un fatto, dunque, tanto meno lo sta descrivendo. Sta parlando di un punto di vista (da cui l'esistenza del presunto fatto dipende) e lo sta illustrando con l'appoggio di un'evidenza spacciata per assoluta, perché non ne è reso chiaro l'implicito punto di vista.
Ci si occupi della prassi e non delle prediche. Non condividono il punto di vista della professoressa attori sociali numerosi e rilevanti: tutti i mezzi di comunicazione di massa, per es., che per rivolgersi ai giovani si esprimono ovviamente in italiano (non in cantonese né in dialetto; qualche volta, è vero, in inglese) e in un italiano che è condiviso, per necessario presupposto comunicativo. Si pensi alla pubblicità (e di conseguenza a giornali, televisioni ecc., che ne sono semplici emanazioni): chi getterebbe tanti soldi, per non farsi capire? Sarebbe allora interessante sapere se, per la Mastrocola, di fatto, non sia italiana neanche l'espressione dei media e di tutto il complesso sociale ed economico che i media rappresentano, quando si rivolgono ai "ragazzi".
Un esempio: ad Apollonio viene sovente fatto di pensare che chi scrive sulla Stampa di Torino non conosce l'italiano e sogna di suggerire, conseguentemente, corsi di recupero linguistico per redattori e collaboratori. La consapevolezza che si tratta di un punto di vista tuttavia lo trattiene dallo scrivere una tale grossolanità, moderandola nell'affermazione di gusto personale che, sulla Stampa, non si scrive in italiano come lui amerebbe si scrivesse, cioè seguendo quel costume e quelle norme di comportamento che egli ritiene adeguate a una scrittura giornalistica di qualità.
E così appare d'improvviso che la questione del rapporto tra "fatto" e punto di vista conduce a domande di una certa rilevanza non solo teoretica, ma anche operativa, anche morale. La Mastrocola vende il suo punto di vista come fatto; lo rende così assoluto, da poter concludere che bisogna "restituire ai giovani l'ancora prezioso e insostituibile dono della parola", quasi che i giovani italiani fossero d'improvviso divenuti tutti afasici (non sarà per caso la scuola a esser divenuta sorda?). Fa ciò certamente per il bene di tutti: i professori fan sempre tutto per il bene di tutti. È sicura però, e con lei si è tutti sicuri che l'italiano che lei immagina tale sia quello che garantisce non si abbiano difficoltà non tanto all'università (che sempre scuola è) ma "nella vita tout court..."?
A parte il fatto che a leggere articoli di notisti di grido del suo stesso giornale non parrebbe (i due lettori di Apollonio ne avranno memoria), non bisogna dimenticare che i "ragazzi" non conosceranno l'italiano (come vuole la Mastrocola) ma scemi non sono. Sentono parlare i loro insegnanti e i loro genitori, sentono la TV e (talvolta) leggono i (loro) giornali. Insomma, come "i bambini" del film di Vittorio De Sica, "ci guardano": per imitazione o per contrasto, fanno ciò che vedono fare, anche linguisticamente. I "ragazzi" sono diagnosi e prognosi della società adulta: le dicono da subito ciò che essa è e, in anticipo, ciò che essa sarà sul fondamento di ciò che è.
E d'altra parte, ammesso e non concesso che l'italiano cui pensa la Mastrocola sia indispensabile per avere successo nella vita, è sicura lei, si è tutti sicuri che, anche per insegnare l'italiano che a lei piace (che non è forse lo stesso che piace ad Apollonio), non sia anzitutto pedagogicamente necessario considerare, ascoltare e conoscere (con l'amorevolezza che richiede la passione per lo studio) non solo l'esplicito punto di vista di una professoressa che scrive articoli sui giornali ma anche, e per democrazia, quello implicito dei "ragazzi"?
Forse, costoro considerano italiano, il loro italiano, ciò che hanno sulla bocca e chissà come considerano ("una lingua in coma"?) la lingua che (di tanto in tanto) insegnano i loro professori, visto che la società che sta loro intorno parla la loro, di lingua, e parla poco o per nulla quella che la scuola pretende o si ricorda talvolta di avere.
Insegnare la grammatica, dice poi la Mastrocola. Ma quale? Quell'incomprensibile e astruso miscuglio di tautologie che neanche chi insegna capisce, tanto meno ama, con le quali si pretenderebbe di surrogare la pratica delle buone letture, delle buone conversazioni, della riflessione interiore sulla propria espressione? E poi, qualunque grammatica si voglia insegnare, per saperlo fare, bisogna anzitutto avere compreso che la grammatica è sempre comparativa: contiene sempre punti di vista da confrontare. Ciò varrebbe forse la pena d'insegnare, se lo si sapesse fare, per capire, prima di impancarsi a professori, la propria, di grammatica, e quella dei "ragazzi": perché anche l'espressione dei "ragazzi" ha una rigorosissima grammatica. Molti insegnanti lo ignorano, dal momento che non hanno mai studiato veramente grammatica né sanno cosa sia.
Non lo scopre certo Apollonio: insegnare è mestiere difficilissimo, ma non per le ragioni che normalmente adducono i sindacati degli insegnanti. Lo è perché mette continuamente chi lo pratica a repentaglio, incoraggiandolo, col possesso della matita rossa e blu, a diventare un ridicolo trombone, a prestare fede ai palloni che gli si gonfiano in capo, a credere di conseguenza all'esistenza dei "fatti", a prendere facili scorciatoie normative.
All'inizio del secolo scorso, Ferdinand era un professore di linguistica in un'università di provincia, teneva i suoi corsi e prendeva le sue note segrete (quella da cui si è partiti, la si conosce solo da pochi anni). Niente "fatti" senza punto di vista, pensava. Estremo degrado del relativismo culturale? Infelice e nichilista paradosso di un uomo fallito professionalmente e personalmente? No. Modesta misura di buon senso, spillo che fa esplodere i palloni pieni d'aria di cui la testa di tutti è incessantemente riempita, quella dei colti e competenti non meno (Apollonio direbbe di più) di quella degli incolti e incompetenti.
Mai trascurare i matti e i falliti. Anche della vita pulsante e quotidiana della società, oltre che dell'altro mondo, vedono cose che i savi di successo non vedono.

PS. Nel "compitino" in classe della Mastrocola, sotto la ripetizione di fatto lo stupido e arcigno Aristarco che, ingabbiato e impotente, ruggisce mal represso in Apollonio avrebbe messo due segni rossi.

5 febbraio 2010

Quinto Orazio Flacco e l'inviato speciale

"U frat d'Carmela". "Se ne devono andare, se non siete in grado voi, lassate fare a nui". "Menamooo!". "Porta un niro". "Tutta l'Africa 'sta cca'". "Vulimm' ca spariscono". "Noi siamo monnezza, mo basta". "Spingimm! Spingimm!". "Nun vulimm chiacchiere". "Risolvete la situazione in due ore o li lassat ind'e mani nostr".
Piccoli lacerti espressivi pseudo-dialettali: un mese fa, facevano effetto di verità e colore locale nel servizio dell'inviato speciale d'uno dei maggiori giornali nazionali, in occasione della fiammata xenofoba di Rosarno, centro agricolo della Calabria meridionale.
Piccoli, ma già così pieni di luoghi comuni: non quanto al significato, come si pensa di norma accada coi luoghi comuni, ma quanto al significante, che (lo capì Ferdinand de Saussure - e pochi altri dopo di lui) è anch'esso pensiero, né più né meno del significato. Ne viene fuori un'immagine linguistica che con Rosarno ha poco da spartire: un meridionalese generico, con grossolani tratti apulo-campani come marche prevalenti.
La dialettologia non è disciplina che si studia sui quotidiani, naturalmente, ma i quotidiani pretendono d'essere specchi fedeli della realtà e sono sempre i dettagli a rivelare inconfutabilmente l'autenticità di una persona o di un'istituzione, perché la verità, come ognuno sa, sta nel dettaglio. Il falso dialetto rende dunque fondato il sospetto che l'intero servizio abbia poco da spartire con Rosarno e con gli incresciosi fatti che vi si sono svolti; che, insomma, a Rosarno, l'inviato non ci sia mai stato. Ciò non significa naturalmente che, a spese del suo giornale, egli non vi abbia eventualmente riscaldato il letto di un albergo per una notte e non vi abbia consumato a colazione un cappuccino e una brioche, dettando poi al suo giornale un pezzo intriso dei luoghi comuni che il suo occhio e il suo orecchio lo hanno abilitato rapidamente a percepire.
Coelum non animum mutant qui trans mare currunt ammoniva saggiamente Orazio, del resto, e l'antica massima pare trovare ancora piena applicazione alla vicenda tutta moderna e tutta culturale dell'inviato speciale.

31 gennaio 2010

Il glottologo e l'antropologia comparata

"Mentre in Toscana l'ostentazione delle proprie ricchezze e del proprio stato sociale elevato è considerata un valore negativo e guardata persino con sospetto, in Sicilia è un comportamento legittimo e naturale ed ha una valutazione positiva: la diversità del costume si manifesta come diversità di significato [di mafia, nelle due aree linguistiche]" (Alberto Nocentini, Camorra e ma(f)fia, Archivio Glottologico Italiano (2009), 1, p. 86).

30 gennaio 2010

Funzione poetica

La serata è già andata troppo per le lunghe: il libro è interessante ma coloro cui se n'è affidata la presentazione sono stati prolissi. Apollonio tra loro: ha detto inoltre cose piatte e colme di ovvietà. Scrutate dalla cattedra, le facce degli intervenuti al rito sono quelle di chi, passate due ore, è pur sempre disposto al martirio: eroico esercizio della pazienza cui accostuma l'accademia? Torna ancora la parola ad Apollonio e rischia, a detta di chi la elargisce, di non essere la conclusiva: altre, più conclusive, si riservano di procrastinare la conclusione, minacciose. "Buon Cielo, aiutami tu", pensa Apollonio mentre gli si consegna l'incombenza. "Fa' ch'io trovi un modo di porre fine al piccolo strazio di questa brava gente". Dal principio dell'incontro tra giuristi e linguisti (tra i secondi, lui), gli frulla insistente per il capo il verso "Dal dì che nozze e tribunali ed are..." e non sa il perché dell'affiorare lì, dal naufragio delle sue letture liceali, di tale relitto: forse il perché è troppo evidente? Comunque sia, gli si aggrappa per non affondare. Per farne cosa, però? Buono per giuristi e religiosi: ma i linguisti? A nozze, nel verso, per valori formali si può fare equivalere lingue, tuttavia. Proviamo, si dice. "Dal dì che lingue e tribunali ed are...: basta questo verso del Foscolo...". Nessuno fa una piega. Forse per la stanchezza. O forse per pietà, solidarietà, gratitudine. Non importa se consapevole o inconsapevole. "Miglior conclusione..." gli fa da eco. Missione compiuta: contenti i linguisti, e più contenti i giuristi. La paracitazione consente a tutti, esausti, di abbandonare l'aula: "Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima dea, fugge i simposi".

24 gennaio 2010

"Me Tarzan you Jane"?

A spasso per librerie aeroportuali:
"Che cosa fa di un uomo un "vero" uomo?"
Vito Mancuso, La vita autentica

15 gennaio 2010

Parole che parlano (3): Stimare

Dal Web: "Haiti: almeno 50.000 vittime stimate". Da parte di chi la gestisce e solo adesso, benevolo, la elargisce, per far cassetta con lo scalpore, la stima giunge ancora una volta troppo tardi per gli abitanti di Haiti in questione, a quanto pare.

Che tempo fa?

Il tempo: un dì, tema di conversazione futile e inconcludente per eccellenza, il più neutro che ci fosse, da evocare quando si voleva esser sicuri di non urtare la suscettibilità di nessuno: in molte lingue, le descrizioni dei suoi eventi non sono appunto sintatticamente impersonali? Questione da mettere sul tappeto perciò, quando si intendeva intrattenersi con chicchessia, parlando in realtà proprio di nulla e mettendo solo a frutto così la funzione che Roman Jakobson chiamò fàtica.
Ebbene, ci avranno fatto già caso i due vigili lettori di Apollonio, il tempo è divenuto negli ultimi decenni (e oggi fragorosamente) uno dei soggetti più vivi e presenti nella comunicazione, e non solo in quella che si svolge sugli ascensori condominiali. Nugoli di scienziati l'hanno eletto a centro dei propri interessi. Uomini politici di rilievo mondiale costruiscono le loro fortune e ricevono premi cospicui e attestati di stima universale mostrando di preoccuparsene molto. Conferenze internazionali gli sono continuamente dedicate, con contenziosi sterminati e contestate firme di trattati, poi sottoposti all'approvazione di assemblee politiche nazionali e sceverati, in tutte le loro pieghe, dagli organi di stampa e dall'opinione pubblica più avvertita, che nel frattempo si tiene al corrente senza distrazioni su bollettini meteo che, più di quelli di guerra nei tempi delle guerre, lanciano allarmi a ripetizione e turbano i sogni già agitati della fetta grassa dell'umanità. Pioverà? Non pioverà? E se nevicherà, sarà troppo o mai abbastanza? Quanto estremo sarà il fenomeno atmosferico? Da quanto tempo, in luglio, non faceva tanto caldo? E quante migliaia di vittime si dovranno attribuire a tale picco? O alla violenza degli elementi?
Il tempo: insomma, uno dei temi più presenti del presente, e dei più caldi, anche nella vita quotidiana. Ad affrontarlo a cuor leggero si rischia di ferire, come con la religione, risentite suscettibilità, convinzioni radicate, credo profondi. Apollonio non esagera: gli è accaduto qualche tempo fa di essere in proposito giustamente ripreso da una studentessa, per un esempio linguistico costruito con improvvida e scherzosa spensieratezza a partire dai fiocchi di neve che si vedevano scendere di là dai vetri della finestra dell'aula. E ha chiesto scusa, perché il tempo è appunto adesso marca del presente, tema sensibile, su cui si sono addensati (dire perché sarebbe facile ed è quindi inutile) i nembi tempestosi dei sensi di colpa umani più ancestrali, come di quelli più estemporanei: con l'incombenza dell'ineluttabile punizione. Tanto più tremenda perché appunto, attraverso il tempo e come dice la sintassi delle lingue, impersonale: cielo senza dei, cieco boia, con una saetta, di un autolesionismo umano che continua a gonfiarsi smisuratamente e sembra perciò sempre più prossimo ad esplodere.
Apollonio pregusta perciò già il giorno (non lontano, c'è da pensare) in cui lascerà questo mondo, trasferendo la sua anima sui Campi Elisi, mai turbati da tempeste, nell'eterna ed immutabile mitezza del clima: lì, che egli senta discutere del tempo è improbabile. Ma non è solo ciò a rendergli desiderabile quel giorno. A caccia di autografi sui libri che, nell'ora di quel passaggio, l'accompagneranno moralmente, pregusta ancora di più l'incontro con anime grandi dei tempi che furono e con qualche buon sodale frettoloso e già prematuramente trasmigrato. È certo: curiosi ma supponenti, molti gli chiederanno: "E dicci, stupida recluta dal numero alto, qual è oggi la principale ambascia del mondo? Quali pensieri agitano il consorzio umano da cui vieni? Di cosa mai si discute lassù, tra i momentaneamente vivi?". "Del tempo", risponderà allora Apollonio a quegli spiriti accarezzati dai freschi zefiri elisei: e sogghignerà, sicuro di lasciarli, lui, quel dì, stupefatti.

13 gennaio 2010

Eccellenti insegnamenti

Un giovane finanziere cinese dona 8.888.888 dollari americani alla Yale School of Management. In quella istituzione accademica statunitense, arrivato pochi anni prima dalla patria Università del Popolo, egli ha conseguito due master nel 2002. Tre anni più tardi ha dato avvio al fondo Hillhouse Capital Management, che oggi dirige e gestisce e i cui profitti gli hanno permesso, in breve tempo, di fare quella donazione da Paperone.
Notizie che Apollonio trova sulla stampa. Dagli articoli che ne riferiscono deborda l'ammirazione tanto per il gesto munifico quanto per il sistema accademico ed educativo in cui è esso maturato e che lo ha reso possibile. Al suo modello, le istituzioni che provvedono all'istruzione superiore in tutto il mondo dovrebbero ispirarsi. Negli stessi scritti infatti s'alza la complementare riprovazione per quei sistemi che renderebbero impossibili tali miracolose evenienze, non perseguendo (come farebbe invece l'università americana) l'eccellenza e il merito: ovvio e non implicito, in proposito, il riferimento alla derelitta università italiana, da redimere quasi per intero.
Apollonio è solo un autodidatta. Non sa cosa si insegna nelle scuole di eccellenza. Dubita tuttavia che vi si insegni ciò che gli ammirati articoli che egli ha letto pare vogliano lasciare credere: cioè che il danaro cresca spontaneamente sui rami degli alberi e che quindi il grande merito di chi ne fa tanto sia di sapere in quale Eden ciò si verifica.
A credere alla stampa, del resto, sembra non si debbano al fortunato giovanotto invenzioni, scoperte, avanzamenti della conoscenza tali da far pensare che la tanta ricchezza che ha sì velocemente accumulata e che gli ha consentito l'obolo sesquipedale, se è arrivata alle sue tasche, non sia venuta via, come di norma accade, da quelle di altri. Anzi, come sempre succede quando il denaro è veramente tanto, dalle povere tasche di molti altri: con ogni probabilità, e per vie neppure troppo indirette, messi a lavorare proprio in Cina per lui e per i profitti del suo fondo.
Il dono alla Yale School of Management è quindi riconoscimento e grata ricompensa per l'istituzione che gli ha insegnato i mezzi più efficaci ad operare simili trasferimenti, per designare i quali il lessico comune delle modeste lingue umane dispone di crude parole, già certamente affacciatesi allo spirito acuto dei due lettori di Apollonio.
Insomma, ne sortisce una vicenda da autentico anti-Robin Hood, perfetta illustrazione della Neolingua, che chiama dono ciò che è ben altro e che cantori del mondo che verrà, illuminati (o forse solo abbagliati dal sinistro riverbero dell'oro?), vorrebbero stesse a fondamento espressivo (quindi teoretico, oltre che morale) della più alta istituzione educativa dell'erigenda società globale.

12 gennaio 2010

Ah! le bricoleur du dimanche...

"Todo el mundo conoce la figura de De Saussure en su faceta de creador del estructuralismo lingüístico. Pero son muchos menos los que saben que él fue de profesión indoeuropeísta, disciplina a la que hizo aportaciones de trascendencia. Hombre no demasiado prolífico, no demasiado constante, fue más propenso a abrir caminos nuevos que a recorrerlos hasta el final" (Francisco Villar, Los indoeuropeos y los orígenes de Europa, Editorial Gredos, Madrid 1996, p. 200).

31 dicembre 2009

Schivare il genere

In italiano, schivare il genere, ove il genere è (divenuto) materia sensibile, non è facile: ma non è impossibile. Tentarci è dunque doveroso, se si ha a cuore (come si dovrebbe) la correttezza politica dell'espressione. Sotto si mostra, a prova e suggerimento per chi ne avesse eventuale interesse, come si sarebbe potuto farlo per una vicenda recente, qui presa a pretesto.
Il caso è esemplare, perché estremo per qualche suo non marginale aspetto. Solo a poche righe di distanza o, oralmente, nello stesso discorso, chi ne ha riferito è incappato infatti (e Apollonio è lungi dal credere che ciò sia accaduto per malcelata tartuferia) in buffe alternanze d'articolo (il o la?), in cangianti designazioni (gli amici o le amiche?) in accordi mutevoli (è stato interrogato o è stata interrogata dal giudice?). Sodali di Apollonio particolarmente vigili (e così si schiva il genere anche qui) l'avranno certo notato e ne serberanno vivida memoria. Comunque sia, ecco come si sarebbe potuto riassumere il complesso garbuglio, non attribuendo a un genere determinato nessuna delle personae coinvolte e quindi mantenendo al proposito immacolata e politicamente correttissima la propria prosa.
Ad uso di benpensanti plaudenti e voraci di scritti e spettacoli stomacanti, monta traboccante (così s'espresse grande e abruzzese ierofante) "vil canizza gazzettante". Strombazza che, simili a delinquenti e qual sicofanti, agenti, anzi, per precisione, piedipiatti militari insistentemente postulanti, complici confidenti turpi e vociferanti, avrebbero accertato e propalato, video-incontrovertibilmente, storia triste e scottante, fin lì latente, di eminente politicante, dirigente e pubblicamente dominante (ormai tuttavia declinante, auto-flagellante e languente in convento), privatamente debole e intemperante, poco lungimirante e per nulla raziocinante, cliente di amanti bivalenti, mestieranti e aberranti, che semi-demente pagherebbe, insieme con stupefacenti, in gran contanti. Gaudenti? Dolenti? Felici? Infelici? Non si sa. Certo, tutt'altro che fini ed eleganti, anzi proprio disavvenenti e niente affatto galanti. Però, come sembrerebbe evidente, per l'utente, sebbene convivente con coniuge piacente, molto piccanti, attraenti ed eccitanti, forse perché perturbanti, erranti e transeunti. In possibile nesso, accade inoltre urente incidente, malauguratamente con conseguente non più vivente: indagano inquirenti zelanti e valenti. Morale: "Sic transit gloria mundi" e, in ispecie,"concupiscentia eius".

28 dicembre 2009

Parole che parlano (2): Agguato

Chi subisce un'aggressione non è necessariamente vittima di un agguato. Eventualmente solo potenziale, un agguato è un'aggressione dai modi particolari di insidia e di tranello. Un buon sinonimo di agguato è imboscata: trasparente. È il caso di ricordare simili banalità a chi padroneggia un italiano anche solo approssimativo? No.
Cosa significa allora il fatto che agguato ricorra bellamente al posto di aggressione non solo in discorsi pubblici (sarebbe nulla: si sa che sono sempre approssimati per eccesso) ma anche in conversazioni private? Perché lamenta d'essere stato oggetto di un agguato chi, in modo più generico e non necessariamente meno grave, è stato aggredito?
Rolando vittima dei Mori, ispirati da Gano: ecco cosa fa agguato. Istituisce un eroe e un anti-eroe. E con una più grave riprovazione per l'anti-eroe, fellone, mette nel racconto del fatto il carico d'una supplementare compassione per l'eroe, magnanimo fin sul baratro di un'esiziale ingenuità.

23 dicembre 2009

Bolle d'alea (11): Tennyson

"For nothing worthy proving can be proven / nor yet disproven: wherefore thou be wise, / cleave ever to the sunnier side of the doubt / and cling to Faith beyond the forms of Faith".
Una fede di là dalle forme è fede nel dubbio. Forse abbagliato dalla luminosità dell'aria della sua soleggiata Citera, Apollonio legge così questi versi di Alfred Tennyson, poeta laureato. E così li gira ai suoi lettori, come messaggio coerente con la stagione. Godano di fede nel dubbio e di buona disposizione d'animo. Sono ricchezze umane modeste ma, tra le morali, è dubbio che ce ne siano di più preziose.

19 dicembre 2009

Ordini dei nomi (e cognomi)

Muore un vecchio giornalista. La rubrica dei necrologi del quotidiano per cui scriveva si gonfia di bei nomi della stampa, in maggioranza uomini. Fra loro, alcuni associano una donna alla loro partecipazione al lutto: ragionevolmente la moglie, la compagna (designazione che fa tanto vecchia politica, però) o, forse, la fidanzata (come s'usa dire oggi, per far mostra di leggerezza). L'ordine con cui le coppie nominano se stesse è vario e di un certo valore, suppone Apollonio, per chi si interessa della lingua, della cultura e della società italiane contemporanee e delle loro stratificazioni e tendenze, perché (come al solito) poco è più rilevante di un dettaglio.
Sotto il segno dell'esibizionismo neoperbenista, che vuole al primo posto le donne, a qualsiasi costo, c'è da un lato, piccolo-borghese, la "norma a rovescio": Elisa e Massimo Gramellini si stringono... C'è dall'altro, radical-chic, "la norma? La si fa nuova noi": Alice Oxman e Furio Colombo si uniscono...
Sotto il segno invece dello stile veteroliberale, che sa che talvolta passano avanti gli uomini, c'è da un lato, funzional-paritario, l'"ogni cosa al suo posto, un posto per ogni cosa": Enzo Bettiza e Laura Laurenzi abbracciano... C'è, dall'altro, il conservatore "il classico non passa mai": Carlo e Daniela Rossella partecipano...
Ciò detto, pensino i due lettori di Apollonio quanto tempo si risparmia a leggere i necrologi invece degli articoli dettati da tante firme prestigiose e quanto sia utile a intendere il mondo d'oggidì il quadrato del vecchio filosofo bizantino Michele Psello (cui la modesta applicazione di Apollonio malamente s'ispira).

28 novembre 2009

"Ne dites pas à ma mère...


















...que je suis dans l'université. Elle me croit pianiste dans un bordel".

Fiorello: a Sanremo mai
Fiorello dice no a Sanremo. Quest'anno se lo si intende in veste di ospite, per sempre se lo si volesse conduttore del Festival. Lo spiega lui stesso agli studenti della Cattolica di Milano. "Non è il mio mestiere. Voglio stare da solo sul palco, sono un egocentrico".

La Stampa, sabato 28 novembre 2009, p. 37 ("Cultura & Spettacoli": appunto).
[A Jacques Séguéla il merito della felice espressione, qui presa a prestito con una piccola variazione].

22 novembre 2009

Babele

La storia è nota ma vale la pena di rifletterci un po', per provare a capire quante cose può raccontare.
Dio crea separando e opponendo: si potrebbe diversamente? Solo il caos è globale. Distratto, il caso specifico dell'espressione umana doveva essergli sfuggito, nel corso dei celebri sei giorni e per qualche seguente settimana. E così, eguale per tutti, la lingua era rimasta chiaramente creazione incompiuta, anche perciò foriera di intraprese umane stupide e deliranti. Tale dovette presentarsi al creatore l'abbozzo della famosa torre: prima costruzione a cui fondamento stava l'idea del mattone. Decise quindi di benedire quella genia che egli medesimo, dandole una sola parola, aveva fatta sconsiderata e ne perfezionò per quanto possibile la natura con la confusione delle lingue. Pose così anche lì il solo seme fruttuoso per un'eventuale intelligenza umana: il seme della differenza comparabile e della percezione del limite. Troppo tardi, però.
Le cose erano infatti andate già avanti. L'imperfezione creativa della parola stupida e eguale per tutti aveva avuto tempo di sedimentarsi e di lasciare così il suo veleno nel fondo dell'animo umano. Di lei si alimenta il sogno violento e nichilista di indistinzione, il cupio dissolvi che attraversa la storia intera dell'umanità, tanto nella forma dell'assoluta separatezza di un idioma, quanto in quella della sua assoluta prevalenza e affermazione, equivalente all'assoluta prevalenza e affermazione di un solo punto di vista, che l'essere eventualmente quello giusto o il più efficace non salva dagli effetti rovinosi della stupidità.

8 novembre 2009

La reazione chomskiana

"From now on I will consider a language to be a set (finite or infinite) of sentences, each finite in length and constructed out of a finite set of elements. All natural languages in their spoken or written form are languages in this sense, since each natural language has a finite number of phonemes (or letters in its alphabet) and each sentence is representable as a finite sequence of these phonemes (or letters), though there are infinitely many sentences".
È un celebre passo in apertura di Syntactic Structures di Noam Chomsky e, per le discipline che hanno per oggetto l'espressione umana, un'auto-ribadita sentenza di reclusione.
Per una scienza autentica, la natura del suo oggetto è sempre altamente problematica, se non misteriosa. In proposito, la linguistica è caso particolarmente malavventurato. Una ricca tradizione le fornisce infatti un modo comodo e facile per aggirare il cruciale problema: l'ipostasi del luogo comune grammaticale (questione che fu vivamente presente a Ferdinand de Saussure e, purtroppo, a pochi altri dopo di lui).
La natura di lingue e linguaggio viene così aprioristicamente determinata e i fantasmi metalinguistici della grammatica diventano gli enti elementari che qualificano e costituiscono l'oggetto di indagine.
Lingue e linguaggio? Fatti di un insieme finito di elementi, indefinitamente combinabili. L'immagine emblematica? Naturalmente i fonemi, ridotti per rivelatrice comparazione al formato concettuale delle lettere dell'alfabeto. Nella versione chomskiana di tale erronea banalità, resta da stabilire come tali elementi si combinano, in modo infinito, e il muro di mattoni che imprigiona da sempre la scienza dell'espressione umana è così ancora una volta innalzato, dietro la vanteria d'avere in tal modo dato vita a una svolta epistemologica epocale.
Ma dove stanno i mattoni prima di stare nelle composizioni, dove i fonemi (e le parole) prima di stare nei discorsi? Ci sono parti, nell'attività espressiva umana, che esistono prima dei sistemi in cui analiticamente le si rileva? E non è l'integrazione in tali sistemi (e solo essa) a renderle parti analiticamente rilevabili?
Lettere e alfabeto sono oggetti comodi, come molti altri prodotti dell'ingegno umano, pigro e utilitario. Prenderli, per pregiudizio ontologico, come le collezioni degli enti elementari dell'espressione umana, così peraltro caratterizzandola, significa consegnarsi (consapevolmente?) a un imbroglio e abbandonarsi a un'erranza. Significa far finta di occuparsi di lingue (e linguaggio) per continuare invece a fare ciò che la più cieca e retriva dottrina grammaticale fa da millenni: parlare di se medesima, avvitandosi su se stessa all'infinito.
Poche righe, come si vede. Passarono per eversive e sembrarono subito alla moda: un nuovo andazzo, ben accetto perché era ed è compatibile con antichi pregiudizi e persistenti luoghi comuni, sotto le spoglie up to date sempre necessarie al mantenimento d'ogni ideologia (scientificamente) reazionaria.
Poche righe bastevoli für ewig a caratterizzare come corrivo un programma che chi le concepì e le scrisse e i suoi innumerevoli epigoni pretesero e continuano a pretendere rivoluzionario, proposto perciò col contorno d'incessanti contorsioni e complicazioni: apparente inquietudine, fin qui servita a nascondere la cruda nudità di idee passatiste e, da sempre in materia di linguaggio, sovrane.