In certe serate solitarie e davanti alla consolazione di una calda bevanda, il suo sparuto alter ego mondano dice ad Apollonio, per passatempo, dei fasti accademici d'oggidì.
Il racconto si fa allora summa d'altri racconti raccolti dalla voce di colleghi di nazioni diverse. Apollonio ascolta incantato ma non riesce a perdersi, come forse anche lui dovrebbe per far felice il narratore, dietro la fantasmagorica meraviglia dei dettagli: tutti meritevoli della massima cura, della massima attenzione. Cura e attenzione che, appunto, ricevono. Ovunque. Per andazzo globale. E perché "o si fa così o si muore".
Per una delle sue solite associazioni prive di disciplina, quello spirito malnato si rappresenta invece con l'aiuto d'una riassuntiva scena allegorica quanto apprende. Pretende di coglierne così il sistema d'insieme.
Gli si para allora davanti l'eletta schiera transnazionale impegnata, dove più, dove meno ma sempre in modo parossistico, a scavare la fossa in cui, completata che sia appena l'opera, proprio quell'andazzo globale curerà di piombarla con una piccola spinta, prima di seppellirla viva. E come, tra la folla, si danno da fare gli zelanti, spronando i più pigri a scavare anche loro! Qualcosa, gli zelanti, devono aver capito ma son convinti che la fossa non a loro toccherà, ma agli altri.
Apollonio evita però di mettere a parte di tale immagine incongrua il suo alter ego. Rispetta il suo sonno. Meglio che, bevuto il suo tè, vada a letto, dice lui, incosciente. E sogni, abbracciato al suo Wilhelm von Humboldt di peluche.
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