Inaugurato criticamente da Tacito, il millenario rapporto tra l'Urbe, come sineddoche dell'Italia, e la Germania s'arricchisce oggi d'un nuovo brandello. Si tratta della recentissima campagna pubblicitaria della solita grande casa automobilistica tedesca, destinata, c'è da credere, solo al mercato italiano:
Per capire cosa dice la nuova campagna italiana della Volkswagen, è utile cogliere, quasi fosse la chiave che apre la porta di un sistema di relazioni espressive e comunicative, la fugacissima combinazione tra l'immagine e la formula "protezione sottoscocca", come ricorre in questo annuncio.
La pubblicità, come si sa, vende illusioni. Al momento, pare però che agli Italiani, illusioni, non se ne possano proprio più vendere. Sono, e consapevoli, in brache di tela. E visto che, con gli "esigenti" Tedeschi, è in arrivo l'atteso e canonico calcio, una "protezione sottoscocca" è indispensabile.
Un sarcastico "W il calcio", col celebre simbolo della casa automobilistica al posto della semplice vu doppia, è del resto l'espressione riassuntiva sotto la quale viaggia l'intera campagna. E, come segnala ad Apollonio un sodale, essa compare iscritta, a conclusione dell'annuncio, in una stilizzata area di rigore.
Malgrado la "protezione sottoscocca", è del resto chiaro che si tratta di una presa per i fondelli per niente metaforica, anzi letterale. E, correlativamente, di un'Urbe e d'una nazione che, ridicolmente (e masochisticamente?) patite del calcio, sono ridotte alle pezze al culo e alle marchette: "...questo è marketing...". Con arrogante sprezzo del pericolo, ecco ciò che sembra vogliano dire tanto il committente quanto l'agenzia.
Hanno evidentemente molta e ben riposta fiducia nella capacità italiana di mettere sempre sul ridere le proprie disgrazie (anche un po' carognescamente, se è necessario) e sulla grande risorsa nazionale del "ma guarda che s'ha da fa' pe' campa'". Il rischio, insomma, è stato certo sociologicamente ben calcolato, dal punto di vista della resa commerciale:
Un sarcastico "W il calcio", col celebre simbolo della casa automobilistica al posto della semplice vu doppia, è del resto l'espressione riassuntiva sotto la quale viaggia l'intera campagna. E, come segnala ad Apollonio un sodale, essa compare iscritta, a conclusione dell'annuncio, in una stilizzata area di rigore.
Malgrado la "protezione sottoscocca", è del resto chiaro che si tratta di una presa per i fondelli per niente metaforica, anzi letterale. E, correlativamente, di un'Urbe e d'una nazione che, ridicolmente (e masochisticamente?) patite del calcio, sono ridotte alle pezze al culo e alle marchette: "...questo è marketing...". Con arrogante sprezzo del pericolo, ecco ciò che sembra vogliano dire tanto il committente quanto l'agenzia.
Hanno evidentemente molta e ben riposta fiducia nella capacità italiana di mettere sempre sul ridere le proprie disgrazie (anche un po' carognescamente, se è necessario) e sulla grande risorsa nazionale del "ma guarda che s'ha da fa' pe' campa'". Il rischio, insomma, è stato certo sociologicamente ben calcolato, dal punto di vista della resa commerciale:
Sbaglierebbe chi credesse, tuttavia, che suoni così e con tali crude note il fischio finale dell'eterna partita.
In effetti la risorsa nazionale è grande ma, mi permetto di segnalare, nei luoghi d'origine ricorre con formazione segnatamente differente rispetto alla lezione accolta nella lingua comune. Mai "guarda", bensì "viri che s'a da fa p'e campà"; frequentemente, a marcare esasperazione "viri [nu poco] che s'a da fa p' campà", laddove il "vedi" evoca lo scarso impegno occorrente a constatare un'evidenza vistosa ed il "poco" persino del fulmineo vedere che occorre, ne accentua l'appariscenza. Insomma, percepisco spazi interpretativi meno ampi, tono drammatico e dolente, lontano dalla (diversa) propensione a mettere sul ridere le proprie disgrazie.
RispondiEliminaHa ragione, attento Lettore. Ma ridere di sé e delle disgrazie alle quali contribuisce la propria indole è talvolta più penetrante del lagnarsene, senza per questo essere meno balsamico. Anzi.
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