25 gennaio 2025

Primo Levi e le vernici

"Io sono un chimico montatore, questo gliel'ho già detto, ma non le ho detto che sono specialista di vernici. Non è una specialità che me la sia scelta io, per qualche motivo personale: è solo che dopo la guerra avevo bisogno di lavorare, bisogno urgente, ho trovato posto in una fabbrica di vernici, e ho pensato «fai che ti basti»; ma poi il lavoro non mi dispiaceva, ho finito con lo specializzarmi, e in definitiva ci sono rimasto": è La chiave a stella di Primo Levi e a parlare è il personaggio che vi fa anche da narratore. Una proiezione dell'autore nei modi che rendono autentica e impareggiabile la prosa di Levi: scevra di soggettivismi, tanto quanto di infingimenti. Una prima persona specchiata, com'è rarissimo, e non solo in letteratura. Una prima persona miracolosamente priva dei viluppi del narcisismo e che, come una vernice fatta a regola d'arte, cola perciò liscia "dall'ugello del viscosimetro".
Se chimico Primo Levi fu per vocazione giovanile, specialista di vernici divenne quindi per accidente. Per accidente, d'altra parte, egli era divenuto sciente di Auschwitz e, sopravvivendo per accidente, se ne sarebbe fatto testimone, da casuale "salvato". Ma cosa più del caso è tratto costitutivo pertinente di un destino? Il destino: Erlebnis bizzarra e sempre disponibile di ciò che sta oltre l'umano. Nel "fare vernici" c'è dunque l'impronta del destino di Levi. E "fare vernici", lo dice lo stesso narratore dopo il passo che si è menzionato, è "un mestiere strano".
La chiave a stella lo sancisce, per quel personaggio narratore in cui l'autore si specchia. Le avventure del montatore Tino Faussone ne occupano la gran parte, ma gli episodi che, con l'intermezzo di "Le zie", concludono e, si può dire, perfezionano l'opera ("Acciughe, I" e "Acciughe, II") sgorgano dall'esperienza di chimico specialista di vernici del narratore e, celandosi dietro i titoli metonimici, ittici e alimentari, parlano in effetti di vernici.
Sull'opera e sulla vita di Primo Levi, c'è una letteratura così sterminata che è impossibile a un lettore dilettante come Apollonio dire se la circostanza sia mai stata messa nella luce dovuta e conseguentemente proiettata tra le osservazioni che potrebbero qualificare la sua vicenda complessivamente, ivi inclusa e principalmente, come è ovvio, quella di scrittore. Forse no. È questa l'impressione che si ricava dalla consultazione della voce "Vernici" presente in Primo Levi di fronte e di profilo, prezioso baedeker che, ora è un decennio, Marco Belpoliti ha donato alla comunità dei lettori e delle lettrici di Levi, traendolo generosamente dalla sua pluridecennale militanza nel campo.
Ma ecco ancora La chiave a stella, invece, e il suo narratore: "...in sostanza, [fare vernici] vuol dire fabbricare delle pellicole, cioè delle pelli artificiali, che però devono avere molte delle qualità della nostra pelle naturale, e guardi che non è poco, perché la pelle è un prodotto pregiato. Anche le nostre pelli chimiche devono avere delle qualità che fanno contrasto: devono essere flessibili e insieme resistere alle ferite; devono aderire alla carne, cioè al fondo, ma la sporcizia non deve aderirci su; devono avere dei bei colori delicati e insieme resistere alla luce; devono essere permeabili all'acqua e impermeabili, e questo appunto è talmente contraddittorio che neanche la nostra pelle è soddisfacente, nel senso che resiste bene alla pioggia e all'acqua di mare, cioè non si restringe, non gonfia e non si scioglie dentro, però se uno insiste gli vengono i reumatismi: è segno che un po' d'acqua passa pure attraverso, e del resto almeno il sudore deve passare per forza, ma solo da dentro verso fuori. Vede che non è semplice." Non fu semplice, d'altra parte, farsi una vernice, cioè una pelle, resistente ad Auschwitz, permeabile e impermeabile, e salvarla, la pelle, per un'inspiegabile combinazione.
Attraverso una similitudine al quadrato, la vernice come pelle, la pelle come attributo umano materiale e morale, la concretezza di Primo Levi procede infatti per allegoria. Il suo realismo è allegorico ed è la ragione profonda per la quale la sua opera, nella sua interezza e non solo per gli scritti di testimonianza, è comparabile alla dantesca. Del resto, nessun realismo autentico può essere diverso: è la figura che sostanzia qualsiasi rendiconto della realtà; è la figura che, dandole una lingua, la fa parlare. 
Insomma, anche per via di un'estrema esperienza di vita, il chimico (della materia e della parola) Primo Levi non smise mai di "fare vernici", come gli era stato assegnato dal destino. E di farle con coscienza, fin quando poté. Perché c'è più del sospetto che, come chimico, come scrittore, come persona, abbia infine constatato che di fare un'onesta vernice, in faccia alla vita, non fosse più il caso. Per una scelta vanamente ribelle al destino. 


 
      

17 gennaio 2025

"Mi è piaciuto" / "Non mi è piaciuto", come segnali del fallimento della formazione umanistica

Si cerca una prova del fallimento del modello di educazione alla conoscenza e alla fruizione delle arti e delle lettere che vige nel modello scolastico nazionale (dalle elementari all'università)? 
La si ha ogni volta che si sente un italiano istruito o un'italiana istruita commentare, se non unicamente, certo crucialmente con un "mi è piaciuto" o un "non mi è piaciuto" la propria esperienza di un libro, di un film, di un quadro, insomma, di un qualsivoglia prodotto di un impegno artistico. 
Varianti correnti e più enfatiche, come oggi si deve, sono in proposito "mi ha emozionato" o "non mi ha emozionato" e simili. 
Negli ultimi decenni, una situazione già grave si sta in effetti ulteriormente aggravando, in proposito. E quel che sembra innovazione è solo deteriore conferma di un tratto persistente di una cultura nazionale che non ci si deve peritare di qualificare, oggi più che mai, anche come popolare (e scadente).
Sono tutte lampanti e crescenti dimostrazioni che da anni di insegnamento, per dire così, umanistico (presente in misura variabile nella scuola italiana di ogni ordine e grado), gli italiani e le italiane ricavano soltanto "io" (o "noi", come sua superfetazione) come criterio e come strumento deputati allo sviluppo e all'espressione di uno sguardo critico sul mondo dello spirito.
Si trovano in pratica dotati e dotate solo di quel parametro infantile e grossolano che ciascuno possiede già da prima di entrare nel sistema della formazione e che sostanzia un gusto nativamente costituito, si direbbe con rivelatrice figura, nell'esperienza alimentare dei cucchiaini di pappa ingoiati nella più tenera infanzia. 

14 gennaio 2025

A frusto a frusto (140)



Persa che si sia l'occasione di diventare adulti da giovani, non lo si diventa mai più. 

12 gennaio 2025

Spettatore pagante (8): "Emilia Pérez" di Jacques Audiard

Del romanzo Écoute di Boris Razon chi scrive questa nota sa soltanto, per averlo appreso in rete, che ha fornito il soggetto al film di Jacques Audiard e che, a quanto pare, il medesimo regista aveva in origine il proposito di fare di quel soggetto un'opera lirica. 
E il soggetto si può dire sia il tratto di maggiore fascino di una pellicola peraltro ben riuscita in ogni altro suo aspetto, ma forse meno di come appunto sarebbe riuscita, sul medesimo soggetto, un'opera lirica. 
Chissà allora che Audiard non ci riprovi, con l'indispensabile alleggerimento del realismo spettacolare imposto da un palcoscenico teatrale, sul quale, per esempio, è impossibile, se non per mediata figura, mettere in scena il sanguinoso conflitto a fuoco tra bande di malviventi.
Al soggetto di Emilia Pérez non manca in effetti nessun ingrediente di quelli che rendono appassionante (quando lo è) il melodramma (quello classico, qui s'intende) e non c'è aspetto del suo sviluppo narrativo che non faccia appello alla figura che del melodramma è il perno: l'enfasi, nella sua variante patetica, naturalmente. 
Testimonianze dello stadio precedente di elaborazione del concetto costruttivo, sono rimaste nel film alcune scene in cui gli interpreti cantano e, intorno a loro, si sviluppa un balletto. Ciò ha fatto sì che si sia attribuita alla pellicola anche l'etichetta di musical, impropriamente. 
Gradevoli e plausibili, nell'insieme gli inserti non sono infatti tali né per numero né per rilievo narrativo da caratterizzare la pellicola. Sono piuttosto relitti allusivi di ciò che, come si è detto, il soggetto avrebbe potuto dare e non ha dato. O, che è quasi lo stesso, modi per fare toccare a chi si trova in sala la stoffa melodrammatica della fabula, la cui forma esteriore non pretende la verosimiglianza ed orna una morale tragicamente ironica. 
La vive e la trae, accompagnando chi assiste alla pellicola, una partecipe testimone intradiegetica: la giovane avvocata Rita Moro Castro, che viene convocata, con modi molto bruschi, da Juan "Manitas" Del Monte, sanguinario boss di un cartello messicano della droga. L'uomo vuole affidarle un compito difficile e oltremodo sorprendente: aiutarlo, nel più assoluto segreto, a compiere tutti i passi per sparire senza perdere le sue gigantesche ricchezze, diventando (e sta qui l'aspetto straordinario) una donna. Così egli dichiara di avere desiderato da sempre, per la sua realizzazione come persona, e di non avere mai potuto nemmeno rivelare questa aspirazione a chicchessia per le costrizioni impostegli dall'ambiente in cui è nato e a partire dal quale ha costruito la sua fortuna criminale.
Rita accetta, insofferente dell'ambiente ipocrita in cui si sta sviluppando con difficoltà la sua vita e la sua carriera professionale, oltre che attirata dal danaro che il boss le promette per remunerarla. E per la sua dedizione e il suo impegno, il desiderio di "Manitas" si compie. 
Il passaggio da un sesso all'altro del(la) protagonista coincide con la sua trasformazione morale: da uomo cattivo, si fa donna buona. Da malfattore a benefattrice, sotto il nome di Emilia Pérez. Né (si osservi a margine) deve essere privo di valore il fatto che il radicale mutamento si realizzi in Terrasanta e non, come il film in un primo momento prospetta possibile, in quell'Oriente iper-tecnologico e ultra-capitalistico che costituisce ormai il terribile orizzonte onirico di sviluppo per l'Occidente. Ipso facto, per il mondo intero, "Manitas" svanisce nel nulla. Ma egli svanisce anche per Emilia Pérez?
Per immagini, dall'oscurità permanente delle ambientazioni della sua prima mezzora, il film passa alla luce: gli sterminati mezzi finanziari accumulati dall'uomo cattivo con i segreti e le violenze del suo malaffare vengono pubblicamente rivolti dalla donna buona che ne è sortita a una (si badi bene, solo) funeraria riparazione dei lutti provocati tra la popolazione messicana. Alla donna buona, essi garantiscono inoltre un opulentissimo tenore di vita. Non solo a lei ma anche alla moglie e ai figli dell'uomo cattivo, che sono stati tenuti all'oscuro del cambiamento e, sulle prime, confinati in Svizzera, convinti inoltre che "Manitas" sia morto, ingoiato dai vortici delle faide malavitose.
La famiglia dell'uomo cattivo finisce tuttavia per mancare alla donna buona. E, sempre con l'assistenza della giovane avvocata, Emilia la richiama a sé, a vivere sotto il medesimo tetto. Si finge all'uopo un'affettuosa parente dell'uomo cattivo e da lui incaricata a provvedere in tal modo. 
Insieme con il potere che viene dal danaro, del suo passato di uomo cattivo, la donna buona tiene però ancora con sé una pistola, anche mentre si dedica al bene del prossimo. E con il gesto che compie in proposito l'interprete e con la relativa inquadratura, il film rivela la presenza dell'arma nel grembo di Emilia quando, inopinatamente innamorata, la esibisce di soppiatto a una vedova (si precisa, felice di essere tale) che diventa la sua amante. Sarebbe ridondante insistere qui sul valore simbolico dell'arnese, a quel punto della narrazione: come rivelatore dettaglio, esso è più che lampante. Sotto la donna buona, c'è ancora, se non un uomo, certamente ancora un suo vestigio. 
E mentre a Emilia poco importa che la giovane donna che aveva sposato quando era un uomo e dalla quale ha appunto avuto due figli si conceda a una sua vecchia passione erotica con un farabutto, il fatto che da quella passione si prepari a sortire un matrimonio le risulta intollerabile per una ragione che è difficile non considerare maschile. I figli di "Manitas" finirebbero sotto la paternità surrogata del farabutto, sfuggendo così alla sua, ancora pienamente effettiva e solo dissimulata dal femminile. Con un geloso sentimento paterno, sotto la donna buona e in funzione dei figli riappare così l'uomo cattivo. Ed è quanto, per traversie e colpi di scena, determina la catastrofe finale. 
Non si dirà tuttavia come questa si compie a chi legge questo diario e non ha (ancora) visto il film, che sul finale, tornando alle fitte ombre del suo esordio, prende appunto le cadenze della pellicola di azione. Quanto si è fin qui riferito è d'altra parte sufficiente a intendere l'allegoria, come si diceva, tragicamente ironica. 
Da uomo cattivo a donna buona, qualche profondo problema rimane, in funzione (di un viscerale valore) della discendenza, fin quando ci sarà, e non si può dire che quel problema sia di poco momento, per gli esseri umani, al di là del genere, ma anche, paradossalmente, in stretta relazione con esso.


10 gennaio 2025

Linguistica da strapazzo (53): Πάντα ῥεῖ...

...è il celebre motto attribuito a Eraclito, otto secoli dopo il momento in cui egli avrebbe potuto eventualmente proferirlo. Tutto scorre ne è, come si sa, la resa italiana. Essa rende compiuta giustizia all'originale? No, è il parere di chi scrive questo frustolo da strapazzo. C'è, se così si vuole dire, perlomeno un residuo. Perché, nell'originale, πάντα è plurale e ῤεῖ non lo è, mentre ciò che si vuole corrisponda al motto in italiano non presenta il bisticcio di numero. In tutto scorre, tutto scorre liscio, da tale punto di vista, perché tutto e scorre sono ambedue singolari: c'è tutto e questo tutto scorre. 
I due lettori di questo diario, cui non mancano certo le relative conoscenze, diranno che l'osservazione è superflua e vana la correlata inquietudine.
Per sedarla, come farebbe un farmaco da banco, basta infatti il pizzico di dottrina un tempo procurata dalla frequenza, anche la più svogliata, di un paio di anni di ginnasio.  
A fare da soggetto della proposizione in questione, un pronome indefinito (quindi di terza persona: la non-persona, per dirla con Benveniste), certo di numero plurale, ma di genere neutro. E, in quella antica lingua, quando il soggetto di una proposizione era di genere neutro (nome o pronome, poco cambiava), il suo numero, alla morfologia verbale, non faceva di norma né caldo né freddo. 
Gli si combinava solitamente una forma verbale al singolare. Per il verbo di una proposizione, in altre parole, il minimo sindacale: terza persona singolare. Ciò che, sotto altri cieli, non ci si perita di definire come una forma impersonale. Quanto bastava insomma a dire che la proposizione in cui quel verbo ricorreva era di modo finito (con le correlate informazioni di stretta pertinenza verbale: tempo, aspetto...). Nel caso in questione, un presente gnomico: il presente che vale a enunciare verità fuori del tempo. Che è come dire che πάντα ῤεῖ non scade (e quindi, a suo modo, non scorre? Bel paradosso!).
Ma sono queste serie faccende da filosofi. Qui ci si occupa piattamente del commercio del numero grammaticale tra il soggetto e il verbo. Decisivo a determinare la forma del verbo nel caso di soggetti di genere diverso dal neutro e, a fortiori, di persona diversa dalla terza; trascurabile invece, data la presenza di un soggetto di genere neutro, in un caso come quello di πάντα ῤεῖ, dice la dottrina. Tutto liscio anche qui, dunque.
Beninteso: chi si contenta gode. Ma c'è chi è d'indole incontentabile (δύσκολος, appunto) e si destina a durature sofferenze o, va detto, a spassi sempre rinnovati. E osserva che, per sanare un conflitto in una combinazione di numero, la pezza riparatrice tira in ballo una categoria perlomeno altrettanto, se non più scabrosa: il genere. Neutro? 
In greco antico, al pari di ciò che accade in lingue apparentate, di neutro in quanto genere grammaticale si cercherà inutilmente una qualificazione diversa da quella che si ottiene correlando in proposito funzione e forma. Ci sono infatti nomi e pronomi che variano per forma in dipendenza dalla funzione sintattica assolta. Tra le altre forme (nella presente discussione, trascurabili e di nessun rilievo contrastivo), in modo specifico essi hanno una forma quando circolano come oggetti e una diversa quando circolano come soggetti. Nomi e pronomi che si comportano così in blocco, li si distingue ulteriormente poi in maschili e femminili, per tradizione. 
Sono facili e seducenti etichette, si badi bene, metonimiche, quindi nettamente analogiche. Non lo si dovrebbe dimenticare mai, quando se ne percepisce il puzzo di stalla o quello di camerata, ancora più piccante ideologicamente. Non è la lingua a puzzare, si badi bene, ma la metalingua delle grammatiche e dei grammatici. Qui quelle etichette poco importano, in ogni caso, ma importa che il valore linguistico di quanto esse qualificano emerge precisamente dal fatto che ci sono invece nomi e pronomi che non presentano una differenza formale da correlare alla menzionata differenza funzionale. 
Neutri è l'etichetta che tradizionalmente designa nomi e pronomi che non si comportano come il blocco di maschili e femminili e va detto a merito di tale etichetta che l'analogia in tal caso puzza un po' meno. E se capita lo faccia, è perché la si mette nei discorsi a stretto contatto con maschile e femminile, termini grammaticali sempre sudaticci e febbricitanti, perché fortemente settici (in questi anni lo si sta sperimentando). 
Che nomi e pronomi detti neutri non presentino differenze formali succede allora perché, nei contesti in cui capita di osservarli e in presenza della menzionata distinzione funzionale, essi le sono formalmente insensibili? O perché in quei contesti, semplicemente, la distinzione funzionale non si dà? Perché, in altre parole, le due funzioni vi si neutralizzano, rendendo ipso facto ridondante ogni eventuale differenza formale? È un bel dilemma e va ben oltre la portata di questo diario e di un suo frustolo. 
Per sineddoche, equivale infatti a chiedersi che valore abbiano, in greco antico, come nelle lingue apparentate, le diverse manifestazioni della morfologia nominale e pronominale una volta che tale morfologia si sia fatta uscire dalle tabelle con cui essa viene ingabbiata e presentata come una tassonomia di enti e la si sia invece restituita, per intero e senza residui, al fondamento squisitamente combinatorio da cui eventualmente, nelle sue differenti fattispecie, essa emerge appunto come fenomeno.
Resta tuttavia già così l'impressione (ed è quanto basta a questa sortita) che nella intrinseca costruzione linguistica di πάντα ῤεῖ il dissidio di numero valga qualcosa che la liscia apparenza di tutto scorre non riesce a restituire. Per via di veloce comparazione, già sopra si era alluso in proposito a una impersonalità. 
Da quel dissidio, tutt'altro che trascurabile, sebbene ovvio, il succo del motto è posto, processualmente, in una sorta di autonomia funzionale della forma verbale, in nulla debitrice del pronome che, ammesso e non concesso figuri funzionalmente come soggetto della proposizione, accompagna in realtà il verbo come potrebbe farlo una predicazione avverbiale. Fuori dell'ipoteca implicita di qualsivoglia corriva ontologia, si direbbe insomma e conclusivamente, πάντα ῤεῖ vale Scorre, universalmente.

1 gennaio 2025

Linguistica candida (72): Le lingue cambiano...

Da qualche secolo, con regolarità (e l'attitudine è loquace indizio di persistente spirito infantile), c'è chi pretende che una lingua cambi secondo le sue idee, le sue intenzioni e i suoi desideri.  Non sa che le lingue cambiano, certamente, ma solo per opera di coloro che, privi di ogni correlato proposito, sono ingenuamente inconsapevoli che, esprimendosi, le stanno cambiando. 

D'altra parte, le lingue cambiano perché coloro che vi si esprimono non controllano compiutamente, tanto meno capiscono fino in fondo ciò che la loro facoltà linguistica consente loro di esprimere. Senza essere esclusivo, tale tratto è tipico, prima psicolinguisticamente, quindi sociolinguisticamente, di coloro che, per tradizione, sono qualificati come semi-colti.

E la velocità del cambiamento è direttamente proporzionale al numero e alla rilevanza sociale degli inconsapevoli della propria espressione, di coloro che non sanno cosa dicono e scrivono. Maggiore è il loro numero, maggiore è il loro rilievo nei consorzi umani che li contengono, più rapido sarà il mutamento della lingua in cui quei consorzi si esprimono.