"Io sono un chimico montatore, questo gliel'ho già detto, ma non le ho detto che sono specialista di vernici. Non è una specialità che me la sia scelta io, per qualche motivo personale: è solo che dopo la guerra avevo bisogno di lavorare, bisogno urgente, ho trovato posto in una fabbrica di vernici, e ho pensato «fai che ti basti»; ma poi il lavoro non mi dispiaceva, ho finito con lo specializzarmi, e in definitiva ci sono rimasto": è La chiave a stella di Primo Levi e a parlare è il personaggio che vi fa anche da narratore. Una proiezione dell'autore nei modi che rendono autentica e impareggiabile la prosa di Levi: scevra di soggettivismi, tanto quanto di infingimenti. Una prima persona specchiata, com'è rarissimo, e non solo in letteratura. Una prima persona miracolosamente priva dei viluppi del narcisismo e che, come una vernice fatta a regola d'arte, cola perciò liscia "dall'ugello del viscosimetro".
Se chimico Primo Levi fu per vocazione giovanile, specialista di vernici divenne quindi per accidente. Per accidente, d'altra parte, egli era divenuto sciente di Auschwitz e, sopravvivendo per accidente, se ne sarebbe fatto testimone, da casuale "salvato". Ma cosa più del caso è tratto costitutivo pertinente di un destino? Il destino: Erlebnis bizzarra e sempre disponibile di ciò che sta oltre l'umano. Nel "fare vernici" c'è dunque l'impronta del destino di Levi. E "fare vernici", lo dice lo stesso narratore dopo il passo che si è menzionato, è "un mestiere strano".
La chiave a stella lo sancisce, per quel personaggio narratore in cui l'autore si specchia. Le avventure del montatore Tino Faussone ne occupano la gran parte, ma gli episodi che, con l'intermezzo di "Le zie", concludono e, si può dire, perfezionano l'opera ("Acciughe, I" e "Acciughe, II") sgorgano dall'esperienza di chimico specialista di vernici del narratore e, celandosi dietro i titoli metonimici, ittici e alimentari, parlano in effetti di vernici.
Sull'opera e sulla vita di Primo Levi, c'è una letteratura così sterminata che è impossibile a un lettore dilettante come Apollonio dire se la circostanza sia mai stata messa nella luce dovuta e conseguentemente proiettata tra le osservazioni che potrebbero qualificare la sua vicenda complessivamente, ivi inclusa e principalmente, come è ovvio, quella di scrittore. Forse no. È questa l'impressione che si ricava dalla consultazione della voce "Vernici" presente in Primo Levi di fronte e di profilo, prezioso baedeker che, ora è un decennio, Marco Belpoliti ha donato alla comunità dei lettori e delle lettrici di Levi, traendolo generosamente dalla sua pluridecennale militanza nel campo.
Ma ecco ancora La chiave a stella, invece, e il suo narratore: "...in sostanza, [fare vernici] vuol dire fabbricare delle pellicole, cioè delle pelli artificiali, che però devono avere molte delle qualità della nostra pelle naturale, e guardi che non è poco, perché la pelle è un prodotto pregiato. Anche le nostre pelli chimiche devono avere delle qualità che fanno contrasto: devono essere flessibili e insieme resistere alle ferite; devono aderire alla carne, cioè al fondo, ma la sporcizia non deve aderirci su; devono avere dei bei colori delicati e insieme resistere alla luce; devono essere permeabili all'acqua e impermeabili, e questo appunto è talmente contraddittorio che neanche la nostra pelle è soddisfacente, nel senso che resiste bene alla pioggia e all'acqua di mare, cioè non si restringe, non gonfia e non si scioglie dentro, però se uno insiste gli vengono i reumatismi: è segno che un po' d'acqua passa pure attraverso, e del resto almeno il sudore deve passare per forza, ma solo da dentro verso fuori. Vede che non è semplice." Non fu semplice, d'altra parte, farsi una vernice, cioè una pelle, resistente ad Auschwitz, permeabile e impermeabile, e salvarla, la pelle, per un'inspiegabile combinazione.
Attraverso una similitudine al quadrato, la vernice come pelle, la pelle come attributo umano materiale e morale, la concretezza di Primo Levi procede infatti per allegoria. Il suo realismo è allegorico ed è la ragione profonda per la quale la sua opera, nella sua interezza e non solo per gli scritti di testimonianza, è comparabile alla dantesca. Del resto, nessun realismo autentico può essere diverso: è la figura che sostanzia qualsiasi rendiconto della realtà; è la figura che, dandole una lingua, la fa parlare.
Insomma, anche per via di un'estrema esperienza di vita, il chimico (della materia e della parola) Primo Levi non smise mai di "fare vernici", come gli era stato assegnato dal destino. E di farle con coscienza, fin quando poté. Perché c'è più del sospetto che, come chimico, come scrittore, come persona, abbia infine constatato che di fare un'onesta vernice, in faccia alla vita, non fosse più il caso. Per una scelta vanamente ribelle al destino.
Levi, civilmente, scrisse in italiano un invito che a sé stesso avrà rivolto certo in piemontese, dove suona: fa' che t'n abi. Utile esortazione a degno modo di affrontare ciò che il mondo offre.
RispondiEliminaSempre importante, gentile Lettrice, la lingua con cui si parla a se stessi. O (chissà?) la lingua, fattasi persona, che parla a se stessa. Grazie dell'integrazione.
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