Da qualche secolo, con regolarità (e l'attitudine è loquace indizio di persistente spirito infantile), c'è chi pretende che una lingua cambi secondo le sue idee, le sue intenzioni e i suoi desideri. Non sa che le lingue cambiano, certamente, ma solo per opera di coloro che, privi di ogni correlato proposito, sono ingenuamente inconsapevoli che, esprimendosi, le stanno cambiando.
D'altra parte, le lingue cambiano perché coloro che vi si esprimono non controllano compiutamente, tanto meno capiscono fino in fondo ciò che la loro facoltà linguistica consente loro di esprimere. Senza essere esclusivo, tale tratto è tipico, prima psicolinguisticamente, quindi sociolinguisticamente, di coloro che, per tradizione, sono qualificati come semi-colti.
E la velocità del cambiamento è direttamente proporzionale al numero e alla rilevanza sociale degli inconsapevoli della propria espressione, di coloro che non sanno cosa dicono e scrivono. Maggiore è il loro numero, maggiore è il loro rilievo nei consorzi umani che li contengono, più rapido sarà il mutamento della lingua in cui quei consorzi si esprimono.
Mi chiedo, Le chiedo: come si misura la velocità del cambiamento d'una lingua? Oso ancor più: il cambiamento, riferito ad una lingua, è quantitativamente determinato o determinabile? In altre parole, è grandezza quantitativa? Un sistema è res extensa? So che la risposta è dispersa negli scritti del Suo alter ego, e sarebbe lì ricostruibile senza eccessive difficoltà, ma con i bagordi delle appena decorse festività mi sono impigrito e me ne scuso.
RispondiEliminaChe bella questione, Lettore ("impigrito") senza nome! La risposta potrebbe prendere la scorciatoia della metafora: nelle discipline che si occupano degli esseri umani e, soprattutto, dei loro consorzi, da gran tempo si declinano, perspicuamente, le nozioni di velocità o di accelerazione del cambiamento, per esempio, senza pretendere si tratti di grandezze (direttamente) quantitative. Ma l'occasione è ghiotta per dire di più (nella brevità imposta da questa sede). Res extensa, Lei scrive, ed esplicito, con il riferimento a Cartesio, è l'opposizione con la res cogitans, con i relativi diversi attributi. Dove si colloca, in un paradigma siffatto, il sistema (linguistico)? Ecco appunto: dopo Saussure, a intendere bene o forse a sviluppare opportunamente quanto egli intuì, né da una parte né dall'altra. Ma nella relazione che, come nel caso di signifié (in apparenza, res cogitans) e signifiant (in apparenza, res extensa) crea sistematicamente, come suoi fenomeni, "quanti" dell'una e dell'altra. La linguistica, la vera, è una disciplina specificamente post-cartesiana, come appunto non intese (pienamente) Noam Chomsky. Ed è una sorta di parallelo, nelle discipline che riguardano gli esseri umani, di ciò che nelle discipline della natura può essere qualificato come post-newtoniano. E se all'alter ego di Apollonio, alle cui pagine Lei benevolmente accenna, è accaduto di servirsi di razionale (sappia, dopo molto dubbi in proposito), è stato per allusivo omaggio al rationabilius e al rationnelle che occhieggiano rispettivamente in Dante e in Saussure. Invecchiando, anche lui, come Apollonio, inclina verso ragionevole, come attitudine adatta a intendere un po' meno approssimativamente (e con la massima precisione) la combinazione di qualità e quantità che (come appunto nel caso della lingua) assicura una fenomenicità o, se vuole, una parvenza a quel nulla (o quasi nulla?) che va spassionatamente considerato l'essere umano.
EliminaLa ringrazio.
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