4 ottobre 2024

"Linguaggio", "significato", "noi" nella letteratura (divulgativa) delle Scienze: un esempio

Apollonio legge di tanto in tanto libri (divulgativi) come quello di cui qui si dà la copertina. Lo induce o, meglio, lo costringe a farlo il suo alter ego, con il pretesto che sarebbero letture necessarie al suo lavoro. Forse fu modicamente vero un dì. Adesso anche l'alter ego bighellona curioso tra le carte altrui, come farebbe intorno ai recinti dei cantieri stradali. Di che lavoro si tratterebbe mai? Ma si lasci all'anziano l'illusione d'essere ancora attivo. 
In effetti, dalla varia prospettiva delle Scienze (il maiuscolo vale a dire "le vere"), si tratta di libri pieni di riferimenti alla facoltà espressiva e comunicativa degli esseri umani. Questa vi è designata con regolarità come "linguaggio". 
Va detto che si tratta di una scelta (insegnava Roman Jakobson: c'è qualcosa nella lingua che non lo sia?). Forse chi la compie non ne è consapevole e ritiene che, fuor di linguaggio, non potrebbe dire altro: faccenda non da poco. Ma non è questo tuttavia il tema del frustolo, che vale invece da confessione di una défaillance.
"Linguaggio" o come diavolo lo si voglia chiamare, Apollonio si vanta di un interesse e di una curiosità in proposito ormai più che cinquantennali. Ma è probabile sia solo vacua vanteria, da parte sua. Riconosce infatti molto poco dell'oggetto del suo interesse e della sua curiosità nelle menzioni del "linguaggio" e nei riferimenti al "linguaggio" che fanno libri come l'esposto. Né l'aiuta in proposito una sortita come "Se guardiamo al linguaggio come uno strumento, un utensile cognitivo..." che trova nel libro preso da campione accidentale.  
Sarà perché, come ostacolo, in Apollonio risuona ancora l'opinione di un vecchio arnese. Émile Benveniste, inveterato uomo di lettere, richiesto di un parere da una prestigiosa rivista di psicologia, sentenziò, or sono quasi settanta anni: "...il paragone del linguaggio con un strumento [...] deve riempirci di diffidenza, come ogni affermazione semplicistica nei confronti del linguaggio". Ciarpame da Secolo breve
Non va meglio poi con significato. Sempre nello stesso libro si legge "Noi esseri umani siamo quello che siamo in quanto tendiamo costantemente alla ricerca di significato". Apollonio non solo non capisce cosa qui significhi significato, ma non ha nemmeno chiaro se, nel caso specifico e anche altrove, visto che il libro, di significato, fa scialo, significato valga come termine o come parola. 
La distinzione è sempre utile nel discorso ed è capitale (o dovrebbe esserlo) in quello scientifico. Se ne è paradossalmente debitori, si pensi, a un sopraffino cultore della vaghezza: Giacomo Leopardi. Ma essere vaghi come si deve, nella lingua o, se si preferisce, nel "linguaggio", non è in effetti faccenda da poco e necessita di una gran precisione.
Di conseguenza, Apollonio precipita in un'ebete stupefazione quando, proseguendo, legge sotto le medesime penne: "Considerando allora la scena del film di Kubrik [2001: A Space Odyssey, naturalmente] è probabile che vi sia un momento zero che precede l'uso, da parte dello scimmione, dell'osso del femore come una clava. Quel momento zero ha una connotazione originaria: mentre denota l'emergere del comportamento simbolico, segna anche l'avvento della differenziazione umana. Il fatto che un osso, che potrebbe essere solo un osso, a un certo punto diventi un'altra cosa dipende dalla pausa di riflessione che lo scimmione mostra di fare. Il tempo che intercorre da quando l'animale preleva l'osso, osservandolo attentamente mentre lo stringe nella mano, a quando passa all'azione, un tempo abbastanza lungo che lo scimmione impiega a guardare l'osso, girandolo e rigirandolo, è il tempo del sensemaking. È il tempo in cui avviene una traduzione da un oggetto, dalla cosa in sé, al significato della cosa". 
Ma questa, si sa, è Scienza (divulgata) ed è ovvio che essa superi le capacità di comprensione di una persona semplice come Apollonio che, senza pretendersi "scimmione", ha una cosa sotto i suoi occhi e tra le mani: il libro; lo gira e rigira e non riesce a farlo passare da oggetto a "significato"; non sa quindi cosa farne. E questo frustolo testimonia appunto impietosamente del suo fallimento.
C'è da dire, a sua giustificazione, che egli non padroneggia le diavolerie tecnologiche che, davanti agli Scienziati e alle Scienziate, squadernano oggi i cervelli di coloro che parlano (e addirittura pensano) come fossero libri aperti. Forse perciò è incapace di immaginare correlativamente le scene aurorali dell'umanità. Non solo prese in prestito dal cinema o dalla letteratura (che fanno in ciò il loro onesto mestiere), le trova infatti spesso evocate e ricostruite, come fossero in visione diretta, in libri come il qui esposto, spesso ma non sempre con mediazione introduttiva di un "probabilmente". 
Si pensi: nella sua cruda naïveté, Apollonio trova da sempre esilarante anche la fola freudiana dell'orda primitiva. È uso in effetti praticare solo analisi minute e alla buona solo di cose che osserva e che il suo modesto mestiere gli consente di mettere in relazione. Per esempio: le innumerevoli ricorrenze della persona grammaticale in Se questo è un uomo di Primo Levi. 
E non ne ricava naturalmente un'idea generale di come sia venuta fuori e di cosa sia la facoltà di esprimersi e di comunicare degli esseri umani. Tanto meno il gran pensiero che, culla moral-materiale dell'umanità, sia stato "uno spazio noicentrico", come "spazio condiviso che implica necessariamente la primogenitura del noi": è quanto in effetti sostiene d'emblée la pubblicazione qui presa a campione, sul fondamento di squadernamenti cerebrali dall'indiscussa affidabilità sperimentale. Ma "noi"?
A fatica e distinguendo tra tanti tipi, funzionalmente opponibili non nel "linguaggio" ma in modeste ricognizioni testuali, Apollonio trae solo qualche ipotesi sul modo, intricato e sistematico, con cui la lingua costruisce la panoplia (tale gli appare in effetti) della quarta persona grammaticale nel discorso: qualche esempio qui, qui, qui, qui, qui, qui... E osserva che essa talvolta include, talaltra non lo fa; talvolta cela la persona (fino a qualificarsi come impersonale), talaltra la gonfia; soprattutto, spesso imbroglia ed è inoltre pronta a usi intollerabilmente paternalistici. 
E, ci si faccia caso, proprio uno dei tanti e differenti "noi" marca stilisticamente e ideologicamente i libri (divulgativi) che, potenza delle Scienze, abbandonata la fredda non-persona che dovrebbe caratterizzarne e garantirne il discorso, sono sempre in grado di dire a "noi" cos'è il "linguaggio", chiarendoci così il "significato" dell'essere umani. Come fa il libro in questione: simpaticamente, moraleggiando e in quattro e quattr'otto. Si vuole mettere?