29 gennaio 2012

Furfanti del pensiero

Quando, da filologi, si legge Sigmund Freud discettare del suo "uomo primitivo" non solo come se lo tenesse, in quel momento, sul suo lettino di analista ma anche come se l'analisi ne fosse perfettamente compiuta, quando si seguono i suoi ragionamenti sull'uomo moderno costruiti, per analogia e per contrasto, su ciò che egli dà per certo della conoscenza del primitivo, non si può fare a meno di pensare che, nel Moderno e sotto il mito della scienza, ciò che fa grandi certi (presunti) grandi è l'invereconda spudoratezza con cui affermano le loro elementari sciocchezze. 
Se si tratta poi di figure geniali (e Freud, senza dubbio, geniale, lo fu: certo più di Chomsky, che pure appartiene alla stessa razza di moderni furfanti del pensiero), le loro sciocchezze di base, mischiate a lampanti intuizioni del vero, da secoli disponibili a chiunque rifletta, cementano sistemi concettuali labirintici più che complessi. Folle di ubriacati seguaci, a quel punto, vi si perdono. 
Ne derivano scolastiche, discipline, intere e sedicenti scienze, istituite sovente come chiese.

27 gennaio 2012

Caratteri (5)




Lo ammetto. Quanto alla vita, è capitato talvolta me la sia imperdonabilmente presa a cuore. Ma è stato un equivoco. Solo uno spiacevole equivoco.

26 gennaio 2012

Caratteri (4)




"Non dirmi la verità, perdio! Lascia che, per le mie orecchie, siano le mie parole, affettuose, a camuffarla a dovere".

23 gennaio 2012

Trame del rovescio (2)

Se è inutile che tutto cambi, vogliamo che tutto resti com'è.

A frusto a frusto (10)



Un'illusione di perennità pervade chi nutre immoderatamente il suo spirito di un sogno di bellezza. Consolatrice della sua vita per qualche breve tratto, essa finisce sempre però per diventare il suo massimo tormento e la porta spalancata sulla sua perdizione.

Caratteri (3)



Fermarsi a riflettere, dice, è spesso perdita di tempo. Si può star certi che, anche volesse, del suo tempo non andrà mai sprecato nemmeno un minuto.

22 gennaio 2012

L'amato e l'amante

Nel caotico e indistinto fluire di eventi che dopo, soltanto molto dopo, si riesce a concepire come ordinati all'oggetto o al soggetto (all'amato e all'amante), è una relazione che crea, nel tempo stesso, fatti e punti di vista, che mai verrebbero all'esistenza senza dipendere gli uni dagli altri. 
Si pensi a questo punto quanto dipenda da una relazione la differente importanza che ai fatti si dice, in falsa coscienza, si assegna per loro presunte specifiche proprietà (per es. e secondo le circostanze, gli economici prima dei politici, i religiosi prima degli economici, i pubblici prima dei privati e così via). 
Si tratta invece e sempre di ordini gerarchici che nascono dalla relazione creatrice delle pertinenze fattuali e delle prospettive atte a interagire con tali pertinenze.
Anche una volta ciò riconosciuto e ammesso, resta ancora la trappola soggettivista che immagina pertinenze e gerarchie come effetti di scelta d'una coscienza, a quel punto o trascendentale o relativistica. 
Fuori della morte e quindi del nulla, se ne sfugge in vita, forse, solo con l'esperire l'accidente dell'eros, la forza misteriosa e selettiva che non si saprebbe immaginare che come relazione della differenza e come differenza nella relazione. Eros porta all'esistenza, appunto, oggetti e soggetti, l'amato e l'amante e, sotto il dominio di eros, la coscienza e la consapevolezza della scelta, si osserva con facilità, non si danno: il culmine della soggettività si scioglie in quella di un'ineluttabilità oggettiva altrettanto apparente. Gli antichi dissero un dio questa relazione della differenza, questa differenza nella relazione.

21 gennaio 2012

"...edito a stampa"

"Questo è il suo primo romanzo edito a stampa": attestata e deliziosa variatio della formula di cui al frustolo di due giorni fa. Comporta un esordiente non di primo pelo e già rotto al mestiere,  magari sotto la volta di parrocchie d'altri culti dottrinali, e consente d'immaginare dialoghi come il seguente: 
-"Ah, che sorpresa, Maestro, Lei ha scritto e pubblicato un romanzo!"
-  (con ritrosa degnazione) "Sì, è vero. Ma solo una cosetta, che, certo, è molto piaciuta."
- "È opera dotta e appassionata. Oltre che appassionante. Chissà quanto ha dovuto lavorarci e con quanti sforzi, sottraendo le notti al sonno, per salvaguardare ai giorni la sacralità del lavoro."
- (quasi risentito) "Ribadisco. Solo una cosetta. Nel tempo libero, nei finesettimana, e quasi con la mano sinistra, sa, mi diletto con la scrittura e di romanzi così ne ho piene le sporte. Guardi" - aprendo un cassetto - "eccone qui, già bell'e pronti, una mezza dozzina."
- "Non mi dica, Maestro. E tutti inediti?"
- (didattico) "Ma no, mio caro giovanotto, alcuni editi. Ma non a stampa. Gutenberg non è più nemmeno il passato prossimo, è  già il passato remoto. Noi siamo nel futuro e guardiamo avanti, ragazzo, guardiamo oltre l'avanti".

19 gennaio 2012

"Questo è il suo primo romanzo"

Paese un dì di poeti (oltre che di santi e di navigatori), l'Italia lo è oggi di prosatori (sulle altre categorie, si stenda nell'occasione un velo di pietà). E "questo è il suo primo romanzo" è la formula che ricorre frequente sulle quarte di copertina della relativa produzione.
Il prosatore o, più sovente, la prosatrice esordiente è merce che si trova oggidì su tutti gli espositori delle librerie. Merce continuamente rinnovata, considerata la sua alta deperibilità. Venduti come esordienti, infatti, così come vergini, si può essere solo una volta, a meno di mettere in opera gli strani artifizi di antiche mezzane o di accorti consulenti editoriali. 
La prima volta è dunque volatile, oltre che difficile, come ognun sa, e bisognerebbe fare molta attenzione a come la si spende e a chi la si dà. Anche in letteratura, infatti, solo poche prime volte profumano veramente d'inizio e, conseguentemente, d'eternità. Nella maggior parte dei casi, i primi romanzi più che d'inizio, sanno invece d'iniziazione: ad una professione pubblica di non commendevole menzione. Sono insomma puttanate e, trattandosi sovente di giovani firme, intenderanno i cinque lettori di Apollonio come vanno tenuti coloro che le incoraggiano e ne traggono profitto.
Ma qui, come si sa, non si è usi far la morale a nessuno anche perché si pensa che, in persistente penuria di virtù, l'allegria del vizio (sempre che il vizio sia allegro: purtroppo non è spesso così, quanto ai casi in questione), l'allegria del vizio, si diceva, sia, come attitudine di vita, di gran lunga preferibile alla lugubre ipocrisia spacciata tartufescamente come virtù, ad ogni angolo di questo povero mondo.
Se l'esordio si porta, che il relativo profitto ben faccia a chi ha saputo imbastirlo, come prestatore o prestatrice d'opera e come, si dica così, impresario.

Strapaese (2)


Svevo, Saba, Magris: linea spezzata e sghemba del margine triestino. A zig-zag, dall'attitudine all'atteggiarsi. Dall'esserci al farci.

18 gennaio 2012

Vocabol'aria (3): "tassa"

Nell'Italia delle assemblee condominiali, dei consigli universitari, delle società bocciofile e d'ogni altro consesso c'è al momento sovente qualcuno che s'alza e, con aria grave e importante, propone l'introduzione di qualche nuova tassa: sul calpestio delle scale, sull'uso della carta igienica nei gabinetti dei dipartimenti, sui lanci del boccino.
Nel demi-monde intellettuale degli accademici, soprattutto, la moda dilaga: le evocazioni di tasse, tributi, imposte e gabelle si sciolgono come dolci caramelle in bocche dalle dentature rinforzate di schiatte trinariciute.
Tassare fa tendenza, insomma, e permette a ciascuno di sentirsi, fosse anche solo nel suo piccolo, un "mariomonti", cioè professore, appunto, e competente, serio, severo, rigoroso. Anche elegante. In una parola di "mariomonteggiare".
La conclusione è la solita. Non c'è sciocco di mondo che non corra dietro all'andazzo e non c'è andazzo, neanche il più probo, che non abbia dietro di sé un codazzo di sciocchi di mondo. L'uso linguistico, inconfutabile, l'attesta.
E se si tassasse l'uso di tassa?

A frusto a frusto (9)



Fedele e costante, un amore sarebbe gioia paradisiaca. O forse pena infernale. In questo purgatorio, di gran lunga preferibili gioie e pene di un amore costante ma infedele a quelle d'uno fedele ma incostante.

16 gennaio 2012

A frusto a frusto (8)

 


Forse è futile l'ininterrotta conversazione con cui l'amore delizia le sue prede ma non quanto il mediocre dialogo con cui s'affliggono i suoi reietti.

Caratteri (2)



È un competente perfetto. A forza di millantare una dottrina, ha finito per convincere d'averla anche se stesso.

15 gennaio 2012

Trucioli di critica linguistica (6): Volkswagen



"Das Auto." Un'industria automobilistica che definisce e comunica la sua immagine con un simile payoff cavalca un movimento che aspira nuovamente all'assoluto e forse si propone di mettersi alla sua testa. È un'antonomasia e l'antonomasia è strumento linguistico (e quindi di pensiero) a fondamento d'ogni monoteismo. D'ogni attitudine ideologicamente totalitaria.
Se priva della capacità e della faticosa pazienza di cogliere sistemi di relazioni e di differenze, l'esperienza umana, nell'innumerabilità dei fenomeni, vaga nel caos. Il relativo vissuto degrada facilmente nello spregevole relativismo.
L'antonomasia reifica la reazione di sperduti impauriti e furbi intolleranti. Per antonomasia, una cosa diventa la Cosa. Un popolo, il Popolo. Un partito, il Partito. Uno stato, lo Stato. Diventa Dio un dio qualsiasi, che riesce a fare addirittura a meno del modesto utensile dell'articolo determinativo (ma certi privilegi non sono appunto da tutti).
Capita così di esperire molte auto, tanto più nel mondo globale. Una sola (e definita) è però "L'Auto.", col punto in fondo: cioè definitivamente. Le altre eventuali sono epifenomeni.
L'industria automobilistica che lo dice è tedesca. Ed è laconico il tedesco della sua quasi silente e, trattandosi d'assoluto, quasi inesprimibile e mistica comunicazione. È al tempo stesso risentita rivendicazione.  
Auto non ha frontiere linguistiche: è parola sovranazionale. Non è sovranazionale l'articolo determinativo. Di genere neutro, peraltro. Di conseguenza, ancora più marcato e particolare. Fuori dell'area in cui si scrive in tedesco, è altresì marcata l'iniziale maiuscola di un nome altrimenti comune ed è tipico artifizio segnalatore di valore antonomastico.
Tutto ciò (e altro qui taciuto, per non annoiare con ulteriori pedanterie i cinque lettori) si legge al fondo di un comunicato commerciale teletrasmesso (per l'Europa intera, c'è da supporre). In tale comunicato (e il suo presente tentativo di lettura, forse, annoierà meno da qui in avanti), c'è un paesaggio boschivo e fiabesco, come quello di una saga nordica, e una folla di piccoli ricci che corre a rifugiarsi in una sorta di tempio naturale, come per una funzione religiosa notturna.
Al loro cospetto, si manifesta, per obliqua illuminazione celeste, il simbolo che potrebbe pure essere una runa e che, dalla sua fondazione, identifica quell'industria automobilistica.
Come istituto morale, oltre che economico, l'industria in questione ha segnato i fasti dello sviluppo più feroce delle società di massa nel trascorso Novecento e ha accompagnato tali fasti fino ai loro esiti socio-politici più deliranti e appropriati, a quanto pare, al delirio del Moderno.
Ciò è d'altra parte iscritto per sempre nel nome proprio con cui fu battezzata dal suo fondatore. Auto vi si scopre essere riflesso di un'espressione linguisticamente nazionale: Wagen. E tale espressione si determina, nazionalisticamente, in funzione di una delle parole in cui l'ideologia e la falsa coscienza della Modernità tedesca si è espressa al meglio delle sue capacità: Volk, 'popolo'.
Adorate allora la Runa, folle timorate di piccoli roditori. A vostra difesa, gli aculei di un velleitario rifiuto sono inutili. Inutile è chiudervi a riccio. Ma non temete e fatelo con abbandono. La Germania ha sempre amato gli animali e oltremodo li ha amati proprio colui cui la grande industria automobilistica deve la sua esistenza: Adolf Hitler.
Se, incauti e inconsapevoli come bestioline, tornando dal rito di adorazione, vi capitasse di attraversare la strada alla Germania, alla sua Auto, alla sua Runa (che, illuminando la notte e fuori del destino umano, vanno meccanicamente avanti come devono), state pure tranquilli. Stavolta l'Auto, la Runa, la Germania sono anche tanto (ideologicamente) ben equipaggiate da riuscire persino ad evitare di schiacciarvi.

[A conclusioni più consolatorie, a proposito del medesimo comunicato commerciale, giunge oggi Arturo Carlo Quintavalle in un articolo sul supplemento domenicale del Corriere della Sera, ma i suoi lettori lo sanno: Apollonio fa del suo umor nero uno spasso].

14 gennaio 2012

A frusto a frusto (7)



Per qualsiasi ora sia previsto il tuo arrivo, sai che chi t'attende sente che non sarà sollecito quanto vorrebbe. Stai andando a Citera: l'isola effimera delle certe illusioni. 

13 gennaio 2012

A frusto a frusto (6)




La miracolosa assenza di un perché rende vero qualche raro riso. E veramente diverso dal pianto.

Strapaese (1)

Pirandello, Sciascia, Camilleri: parabola girgentana della doxa. Dall'inquietudine alla quisquilia. Dal paradosso allo stereotipo.

Caratteri (1)



C'è chi pretende e capita persino s'illuda d'aver dirittura morale solo perché, dandosi il caso, ha qualche rigida convinzione cui tenersi obliquamente conforme.

11 gennaio 2012

Interpretare

"L'agente Astolfo della polizia stradale era un po' corto di vista, e la notte, correndo in moto per il suo servizio, avrebbe avuto bisogno degli occhiali; ma non lo diceva, per paura d'averne un danno nella sua carriera": è l'antagonista di Marcovaldo, in una delle venti storielle di Italo Calvino che hanno come protagonista il povero manovale.
È la sera di un rigido inverno. La famigliola è intirizzita davanti a una stufa ormai priva di braci. Marcovaldo va per legna in città ma torna ovviamente col gramo raccolto offerto da qualche stentata aiuola. Dalla medesima ricerca, tornano invece con legna da ardere i suoi bambini. Leggono libri di fiabe e sanno che la legna si trova nei boschi, anche se un bosco non l'hanno mai visto. Cammina cammina fino al limite della città, hanno trovato "il bosco sull'autostrada": una selva di cartelloni pubblicitari, da cui son riusciti a divellere qualche compensato.
Verso quel bosco fantastico convergono allora Marcovaldo, istruito dai marmocchi per una nuova raccolta, e Astolfo, messo in allarme da chi ha già visto i monelli impegnati nella loro impresa.
"Il cartellone di una compressa contro l'emicrania era una gigantesca testa d'uomo, con le mani sugli occhi dal dolore. Astolfo passa, e il fanale illumina Marcovaldo arrampicato in cima, che con la sega cerca di tagliarsene una fetta. Abbagliato dalla luce, Marcovaldo si fa piccolo piccolo e resta lì immobile, aggrappato a un orecchio del testone, con la sega che è già arrivata a mezza fronte.
Astolfo studia bene, dice: - Ah, sì: compresse Stappa! Un cartellone efficace! Ben trovato! Quell'omino lassù con quella sega significa l'emicrania che taglia in due la testa! L'ho subito capito! - E se ne riparte soddisfatto".
L'eterno interprete: il miope Astolfo ne è allegoria. L'eccesso di adeguamento alle semiosi di cui si padroneggiano i codici sociali è malattia della cultura. Ed è componente fondamentale di quella stupidità che, opponendola alla luminosa dei Marcovaldo, Robert Musil si propose di descrivere, consapevole che darne una definizione è impossibile. L'eterno interprete è sempre pronto a capire. E non c'è evenienza del mondo da cui non se ne riparta con l'ebete sazietà di chi l'ha intesa.
"Tutto è silenzio e gelo. Marcovaldo dà un sospiro di sollievo, si riassesta sullo scomodo trespolo e riprende il suo lavoro. Nel cielo illuminato dalla luna si propaga lo smorzato gracchiare della sega contro il legno".

[Questo frustolo medesimo, a petto della bellezza fiabesca e ironica, silente e lunare del crudo testo di Calvino, è sortita degna d'un Astolfo, miope e supponente.]

7 gennaio 2012

A frusto a frusto (5)



La guardava come l'aveva sempre guardata: con la naturale attenzione cui invita la pertinenza della bellezza.

6 gennaio 2012

"La Sicilia come metafora"

Dall'emisfero australe arriva ad Apollonio la segnalazione di un premuroso sodale. Lo informa che nella prosa di  un editorialista del più venduto quotidiano italiano è comparsa ieri una nuova metastasi di la Sicilia come metafora. L'espressione formulare fu coniata da Leonardo Sciascia, amplificata dal titolo di un libro curato da Marcelle Padovani alcuni decenni or sono e sul suo esempio mille e mille altre sono state frattanto corrivamente costruite.
Coloro che si servono dello stilema (e Sciascia per primo) intendono dire, più o meno, che la Sicilia   (o Roccacannuccia o Pratofiorito) sarebbe sineddoche (dell'Italia, del mondo e così via): più questione di metonimia che di metafora, di conseguenza. 
Il Cielo preservi però Apollonio dal farsi risentito vindice di pedantesche appropriatezze terminologiche. Ognuno si esprime e vive come meglio gli aggrada, correndo liberamente il rischio di piacere a molti sciocchi, dispiacendo a pochi idioti, o di esser gradito a pochi idioti e ignorato da molti sciocchi. 
C'è poi uno stretto varco (lo si deve pur ipotizzare) tra le due evenienze: chi sia votato a percorrerlo nessuno lo sa, meno che mai, di norma, il predestinato, cui (ammesso che ne abbia qualche consapevolezza) sembrerà sempre di avere parlato solo a se stesso e di avere scritto solo ciò che era capace di scrivere e niente altro.
A forza d'insistere sull'abuso di metafora, potrebbe poi verificarsi una disgrazia peggiore di quella, corrente da qualche anno, che vede l'un tempo nobile figura tanto mal ridotta.
Potrebbe accadere infatti che anche sineddoche entri nel turpe commercio di quella lingua che Barthes definiva fascista e sia così d'improvviso fatta strumento di vizio e di perdizione. Il recente caso di ossimoro dovrebbe suonare da ammonimento. Contro l'effimera epifania del nome d'un tropo sotto la penna linguisticamente irresponsabile d'una persona di mondo a niente valgono i millenni che quel nome ha trascorso in scritti conservati da polverose biblioteche.
Meglio tacere, premuroso sodale, e sorridere (o gemere) sommessamente.