"Gli askari marciavano scalzi e in perfetto ordine. L'ufficiale girò nello spiazzo e si fermò di fronte all'emporio, imitato dai soldati. A quel punto, la colonna si disfò come una collana di perle cui fosse stato tagliato il filo": si legge così sul finire di Paradiso, romanzo di Abdulrazak Gurnah pubblicato anni fa in traduzione italiana da "La nave di Teseo". L'alter ego di Apollonio si è trovato a doverlo leggere, per uno dei suoi rarissimi impegni sociali, e ne ha preso in prestito per un paio di settimane una copia digitale dalla piattaforma mlol.
Nel passo, come si è visto, ricorre la forma disfò, voce del verbo disfare. Nel contesto di ricorrenza, quanto ad analisi grammaticale, a tale forma vanno di necessità attribuiti i seguenti valori: modo, indicativo; tempo, passato remoto; persona, terza; numero, singolare.
Per il traduttore Alberto Pezzotta e per la redazione della casa editrice, che ha a suo tempo licenziato la pubblicazione, disfò è dunque la terza persona singolare del passato remoto di disfare. Nello stesso passaggio, girò è d'altronde la terza persona singolare del passato remoto di girare e fermò è la terza persona singolare del passato remoto di fermare. E, se si vuole aggiungere un ulteriore esempio di fantasia, defecò è la terza persona singolare del passato remoto di defecare. Apollonio chiede venia: alla ricerca di qualcosa che fosse all'altezza di quel disfò, l'isotopia gli è sorta spontanea e non è riuscito a bloccarla; sotto spiegherà il perché.
Evitino tuttavia i due lettori di questo diario di stracciarsi le vesti. E non gridino allo scandalo. Ci si intenda, avrebbero ragione di farlo. La terza persona singolare del passato remoto di disfare suona infatti disfece, correttamente. E tale la si vorrebbe ancora incontrare nella stampa di un libro pubblicato da tanta casa editrice, "all'atto fondativo" della quale "è indissolubilmente legata la figura di Umberto Eco", proclama con alterigia la sezione Chi siamo del suo sito. "Mica pizza e fichi!", si dice in circostanze simili a Roma. Ma il vascello, come si sa, è ancorato a Milano.
Disfare si coniuga in effetti come il verbo semplice, fare, da cui è ottenuto per aggiunta di un prefisso. Perciò, se fece, disfece; se faceva, disfaceva. E non disfava, per esempio, visto che il legume - o altro metaforico - proprio non c'entra.
Attenzione, associabile a disfare, esiste anche un disfò: è la prima persona del presente indicativo e, in bocca toscana, corrisponde a ciò che, altrove, suona disfaccio o, per un andazzo che è andato crescendo, a disfo. "Disfo il letto", "Disfo le valigie" sono infatti ormai e da lungo tempo comuni. E da lì, a cascata, disfi, disfa, disfiamo, disfano sono forme che circolano brade e nessuno può più fermarle. Ne soffrono disfai, disfà, disfacciamo, disfanno. Solo punto di contatto, la seconda plurale, disfate, presente nell'uso e conforme alla norma. Come spesso accade, allora, né tutto corretto né tutto scorretto: quel guazzabuglio che finisce sempre per muovere le lingue (e il mondo).
Certo che però, pur arrendendosi a disfo, un disfò, terza persona singolare del passato remoto di disfare, resta ancora raccapricciante, anche per chi sa che, ineluttabilmente, le lingue cambiano e che dovrà rassegnarsi. Infatti, consapevolmente o no, con il suo grande nume tutelare "La nave di Teseo" ormai l'"ha sdoganato" (non si dice così, tra coloro che sanno come si dice?).
Lagnarsi quindi a qual pro? La fatta sta lì (ecco chiarita la sommessa scatologia). Rappresa sulla pagina di quel libro, olezza e la decora. È un dato, come lo era appunto una fatta per chi praticava l'attività ancestrale che, in tempi più seri dei presenti, consentì all'umanità di sopravvivere e di prosperare. E sopra un dato, anche quando tale dato è una fatta, non ha senso disperarsi.
Una volta che lo si è colto (magari turandosi il naso), se se ne è capaci, lo si descrive e se ne trae partito, discettando di regolarità e irregolarità, di analogia e diacronia, di marcatezza e produttività, di Junggrammatiker e Ferdinand de Saussure. Ma di ciò, caso mai, un'altra volta.
...Conad!" è da qualche mese l'innovativo motto con cui la grande catena di distribuzione si presenta nella comunicazione pubblicitaria e, conseguentemente, sul mercato. La campagna presenta l'ampliamento dell'offerta commerciale. Sotto il suo consolidato brand, Conad distribuisce e vende adesso anche prodotti, come le assicurazioni o i viaggi, ben diversi, come categoria merceologica, da fragole e salsicce, da detersivi e assorbenti. Lo sviluppo avrà certamente un nome e una definizione, nella scienza del marketing, ma Apollonio non li conosce e spera che la descrizione appena procuratane sia bastevole. È un'innovazione conservatrice, dunque: e, quanto alla lingua, un'innovazione conservatrice, per via dell'imperativo, è anche quel "Ma vai da Conad!" .
L'imperativo e la soggiacente funzione conativa - diranno i due esperti lettori di Apollonio - sono ovvietà nella réclame. Ciò a cui essa mira è infatti che il destinatario o la destinataria si comporti di conseguenza e compri. Ci si faccia caso, però: il perentorio indirizzo è quasi sempre mascherato ormai da gran tempo da altre funzioni. Il messaggio pubblicitario è infatti di norma un buon esempio di un atto linguistico indiretto. Come lo è, per fare esempi neutri e quotidiani, quello di uscirsene con un "Fa freddo!" in presenza di chi si sa può chiudere una finestra o di esclamare "Ho fame", come si faceva da ragazzi e ragazze, chiudendo la porta della casa dei genitori, di ritorno dall'oratorio o dalla riunione del collettivo.
"La spesa intelligente", proclama in effetti da tempo una società concorrente della Conad. "La Coop sei tu" è l'immarcescibile divisa di un'altra (anni fa, con un contorno, Apollonio se ne occupò qui). "Buona spesa, Italia" augura un più modesto attore sul mercato. "CRAI, nel cuore dell'Italia" è il modo di presentarsi di un'azienda che rivendica il suo radicamento nazionale. "Esselunga, prezzi corti", dichiarava un tempo l'azienda che di recente, presa la via dell'etica, ha tentato anche l'antifrasi: "È importante anche la spesa che non fai". E Conad medesima, prima del mutamento: "Persone oltre le cose".
Entrando pesantemente sulla piazza italiana, anni fa, LIDL aveva tuttavia già smosso le acque, con due imperativi, uno negativo, l'altro no: "Non cambiare stile di vita. Cambia supermercato". Il gioco fu forse redditizio sulle prime, ma, come è lampante per inferenza, aveva funzionato in ogni caso come paradossale conferma del profilo dell'azienda e fu del resto rapidamente abbandonato. Al bersaglio socialmente medio-basso, se non basso tout court (quindi assuefatto, per dire così, a essere destinatario di ordini), chi adottò quella campagna aveva in effetti mirato ad aggiungere coloro che l'endemica crisi economica nazionale aveva fatto (e continua appunto a fare) andare in giù. Poco, insomma, da stare allegri. Ma si sa, capita siano così i Tedeschi: come il loro mitico eroe nazionale, inclini all'euforia tanto quanto alla disforia.
Non è ovviamente di tal fatta il target, tendenzialmente interclassista e italiano in ispirito, cui la rinomata agenzia Ogilvy indirizza oggi la comunicazione, al contrario euforica o perlomeno sorridente, della Cooperativa Nazionale Dettaglianti (è questa, si diceva un tempo, d'ispirazione ideale e sociale bianca, contrapposta dunque alla rossa della Coop, la ragione sociale che si cela dietro l'acronimo).
L'imperativo fu in effetti tipico delle pubblicità di un lontano passato, come della propaganda politica, allora e nel séguito ("Vota comunista"), anch'essa ormai perenta. Residuo ineliminabile di ingenua verità espressiva, l'imperativo permane nelle campagne promozionali "fai-da-te" di aziende dal respiro provinciale. Quando si affaccia, come talvolta si affaccia nella comunicazione nazionale e di livello della grande distribuzione o di altro, deve farlo in grande spolvero e opportunamente abbigliato. Nel caso specifico, per cominciare, lo introduce infatti un ma.
Si tratta della congiunzione avversativa per eccellenza, dicono le grammatiche, e se ne potrebbe concludere che, come in molti altri casi, la terminologia delle grammatiche è inconcludente. Considerato che compare come incipit, cosa mai congiungerebbe ma? Congiunge, tuttavia.
Del ma in incipit e no, Apollonio Discolo e il suo alter ego si sono già dilettati altre volte (qui, per esempio, e qui e qui). Non tedieranno ancora chi legge con ulteriori speculazioni. Nell'occasione, l'invito è solo a valutare, ciascuno e ciascuna nel suo foro interiore, la differenza, espressiva e comunicativa, che passa appunto tra "Ma vai da Conad!" e un "Vai da Conad!" ipoteticamente privo di ma. Facendo così avrà fatto ciò che, con il suo modesto metodo, fa un linguista che tiene ancora Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson come guide del suo cauto procedere e del suo ipotetico ragionamento. In altre parole, una commutazione sperimentale che, senza dire altro e senza speculare, mostra all'intuizione come una cosa sarebbe stato un imperativo in purezza e una cosa ben diversa è un imperativo introdotto da ma. Per dirla alla buona, da un ordine sgraziato si passa, chissà come, chissà perché, a un acuto consiglio: potenza di un minuscolo ma.
Ma non è tutto e adesso viene il bello. L'enunciatore di un messaggio pubblicitario è ovviamente il committente, cioè l'azienda che ha commissionato la campagna. Nel caso specifico, Conad vuole che destinatari e destinatari del suo messaggio si facciano frequentatori dei suoi punti vendita fisici e, adesso, virtuali e vi facciano ciò che in essi di norma si fa: spendere il proprio danaro. Nei fatti e dal punto di vista perlocutivo, enunciata da Conad, la campagna dice dunque "Vieni da Conad!".
Non lo dice così però. Se lo facesse, si sarebbe di fronte a una banale deissi personale: venire definisce infatti il moto verso il luogo in cui si trova chi enuncia: Vieni (qui), per esempio. Andare no: Vai là dice chi enuncia dichiarandosi così localmente estraneo al luogo di destinazione. Un Vai qui, ci si pensi, suona contraddittorio: ed ecco di nuovo il mestiere del linguista, che deve essere capace di immaginare mondi bislacchi e correlate espressioni. A dire la stoffa di ciò che è endossale niente del resto lavora meglio di un paradosso. Venire e andare, verbi di moto, stanno insomma in un rivelatore rapporto associativo, come avrebbe detto Saussure, prima che Hjelmslev blindasse la nozione sotto l'etichetta di paradigmatico, felice ma forse meno plastica.
Si è così alla vera agudeza del motto: il controllato straniamento della persona (e della correlata deissi). Grazie a esso e ad andare, l'imperativo diventa infatti la battuta di una narrazione o, ancora meglio, di una fulminea commedia. Sulla scena, a parlare e a proferire l'imperativo non è Conad, la prima persona dell'enunciazione complessiva, ma, per costruzione enunciativa ulteriore, un personaggio. E la terza persona rende il discorso fattuale, oggettivo. Farebbe la stessa cosa un testimonial, ma, nel caso specifico e grazie alla lingua, si tratta di un testimonial teatrale, di fantasia, e non è quindi necessario remunerarlo con un lauto compenso.
"Ma vai da Conad!", come punta di lancia, ha dato vita a una nutrita batteria di annunci destinati al pubblico televisivo e specifici per i diversi contenuti. Se Apollonio non ricorda male, nel primo a venire fuori, parecchi mesi or sono, a proferire il motto, indirizzandolo a una paziente distesa sul lettino e dubbiosa sopra cosa fosse conveniente per lei, era uno psicoanalista (o, forse, uno psicanalista: sottigliezze qui irrilevanti): un quadro di lampante chiarezza, da ogni punto di vista, incluso il sociale. Più semiologicamente pregnante, a parere di Apollonio, è però quello scelto a illustrare questo frustolo.
Due maturi giovani, un uomo e una donna, in viaggio, procedono trascinando le loro valigie in una pianura in cui, sulle prime, pare non esserci, fuori di loro, anima viva. Le battute che si scambiano non qualificano lui come particolarmente sveglio e dicono lei più che vagamente intollerante della di lui sdolcinata storditaggine. Questo è del resto un quadro ideale dell'odierno rapporto tra le persone cisgender e, vuoi o non vuoi, in Italia, una grande catena di distribuzione ha nelle donne il suo target d'elezione: guai a inacidirsele.
Ma cambia d'improvviso inquadratura e, come dal nulla, compare miracolosamente davanti ai due un piccolo gregge e un uomo anziano e dimesso che, vicino a uno scalcagnato pick-up carico di fieno, uditi proteste e propositi della giovane, le lancia appunto l'inopinato "Viaggio? Ma vai da Conad!". Una pecora alza allora il capo, mentre il Buon Pastore indica ai due, telefono alla mano, la Via (e forse anche la Verità e la Vita, visto che, di rincalzo e in chiusura, afferma di avere anche assicurato la casa). Innovazione, sì. Ma, lo si precisava, nella parola mediata di cooperative che un tempo si sarebbero appunto dette bianche, per contrastarle con le rosse, innovazione conservatrice dei tratti profondi di una nazione probabilmente ormai incapace di riconoscerli e persino di riconoscersi.
Il criterio di giudizio, quanto alle lettere, è semplice e valido per ogni tempo. Lodevole, fino alla grandezza, è chi, avuta in prestito una lingua, come capita a chiunque, la restituisce migliore. Decoroso è chi la conserva nello stato di dignità in cui l'ha ricevuta. Spregevole, fino all'infamia, è chi, per vanità e interesse, ne fa strame, né l'esserne inconsapevole, come succede spesso, vale in proposito come attenuante.
Muore Goffredo Fofi e non è necessario che Apollonio ricordi ai suoi due lettori chi fosse né che se ne dichiari dispiaciuto. Come dispiaciuto è il suo alter ego, fosse solo per la scomparsa di uno stabile protagonista della scena culturale di cui, ormai da quasi cinque dozzine di anni, è stato curioso spettatore.
In una rete sociale, un importante editore commemora dunque la figura di Fofi con una foto e una citazione. Della seconda, Apollonio non può farsi garante, ma l'autorevolezza di chi se ne serve, pure se in una sede dove l'autenticità latita spesso, induce a ritenere che la si possa tenere come degna di fede.
E non soltanto come autentica, ma anche come ben trovata, da un punto di vista linguistico, atta com'è a illustrare una sorta di corto circuito, frequente in certe argomentazioni intellettuali.
"...ho imparato... ero bambino... ho imparata... ho visto e sofferto...": è una prima persona grammaticale che rivendica puntigliosamente, c'è da dire, l'acquisita consapevolezza del fatto "che l'io è un impiccio" e che "la centralità dell'io è una truffa" (questa seconda asserzione è ancora più dogmaticamente antifrastica, considerata la premessa). Come si sa, la lingua è divina, ma è anche diabolica e permette simili piroette.
Con "io" qui s'intende la funzione enunciativa, rappresentata superficialmente dal pronome personale (io), ma anche, come s'è visto, da una desinenza verbale, da un aggettivo o da un pronome possessivo (mio), da un deittico come qui, ora e così via.
Ebbene, per ottenere l'effetto, basta prendere "io" come funzione e proiettarne il rappresentante superficiale per eccellenza, cioè il pronome io, come nome. Se ne fa così una terza persona che, come nome, si dota di un articolo. Il gioco è fatto: nasce l'io.
E di questo singolare oggetto (o concetto: non fa differenza) è possibile dire, oggettivandolo, tutto il male (o tutto il bene) che si vuole. Se ne può fare tema di discorso, obliterando la circostanza che, al fondo di un processo siffatto, come diceva Benveniste, c'è invece la soggettività o, come si è sforzato di dimostrare l'alter ego di Apollonio, la sua inderogabile singolarità. In barba a qualsiasi "gruppo".
Intere dottrine e complesse discipline hanno profittato e profittano di questa prestidigitazione, in realtà molto modesta e alla portata di chiunque: l'io pullula infatti nella chiacchiera quotidiana. Del resto è soltanto una tra le mille e mille consentite dalla funzione metalinguistica. E la funzione metalinguistica è stata ed è ancora molto sottovalutata, ritiene Apollonio, anche nelle teorie e nelle descrizioni linguistiche che si sono pretese e si pretendono scientifiche.
Che, di passaggio, anche Goffredo Fofi, come 'io', abbia giocato con l'io non stupisce né altro si vuole qui dire: in faccia alla cruda natura della lingua, l'ideologia, qualsiasi ideologia, anche la migliore, finisce sempre per presentarsi nuda alla meta. Ma, per commemorare degnamente l'intellettuale, tra i suoi detti, qualcosa di meglio si sarebbe forse potuto trovare. O no?
"Tragedia è [...] mimesi di una azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti [...]; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da siffatte passioni": Manara Valgimigli dà qui voce italiana ad Aristotele che, nella Poetica, fissò una volta per tutte la nozione di catarsi.
Si può essere anti-aristotelici, ma non si può negare che, in funzione di un'estetica consapevole, questa nozione colga un punto cruciale della fruizione artistica e, quindi, dell'essenza funzionale (cioè di relazione) dell'arte. Succede forse perché, in fin dei conti, la nozione di catarsi concettualizza un dato di base della psicologia umana (ci si perdoni il pleonasmo), oltre che un rito di uno specifico ethos antropologico. Un rito presente nella civiltà greca antica, ancor prima di Aristotele, come prassi per la cura del corpo e dello spirito.
Ritualmente e effettivamente, la mimesi artistica di ciò che indigna, muove a pietà, fa orrore conduce a una purificazione e a una sublimazione di chi, con intenzione, se ne fa destinatario. Lo si può dire anche aggirando la zavorra (aristotelica) dell'idea di rappresentazione implicita nella nozione di mimesi. Fare esperienza del male per segni (si dica, semiologicamente) secondo i modi di un'arte, quindi grazie a un'azione teatrale, per esempio, è catartico.
Ma si lasci pure da parte la catarsi, in senso stretto. Si passi a cose meno antiquate. Sulla scena, c'è un tale che, ispirato, ancor più che incoraggiato dalla consorte, accoltella nella notte il capo, ospite a casa sua. Poi, visto che ne vuole prendere il posto, assolda e manda sicari ad assassinare proditoriamente un possibile rivale nella successione e così via. Fino al momento in cui, come gli era stato predetto da certe megere, non vede gli alberi di una foresta venirgli incontro per chiedergliene conto. Un tipaccio, insomma.
Come lui, proprio non ci si comporta, se si è perbene (anche se un pensierino, talvolta...). Se lo si fa, si è un Macbeth. Nell'umano consorzio, i Macbeth (e signore) non sono mai mancati né mai mancheranno. Attenzione: non c'è tuttavia bisogno che qualcuno spieghi cose simili a chi assiste al relativo spettacolo. E in effetti, non ritenendo stupido il suo pubblico, il Bardo si guardò bene dal farlo, aggiungendo chiose e chiarimenti. È teatro, non è scuola, tanto meno chiesa.
Scendendo un po' di livello, ma nella stessa vena: chi non ricorda la feroce sparatoria di Taxi Driver di Martin Scorsese? Presente per colmo di abiezione una (attrice) ragazzina. Si dice che la censura fece scolorire il rosso del tanto (finto) sangue che vi scorre, ma niente fervorino finale né sottotitoli a chiarire che non è forse quello un modo commendevole per mettere nei suoi giusti cardini un angolino del mondo che, come fece Amleto con il suo, si giudica, con ragione, poco ammodo, anzi, propriamente stomachevole.
Non sarà catarsi, tecnicamente: filologia e filosofia, concordi, contesterebbero con ragione la spiccia equivalenza. Si dirà che è fiducia nei destinatari e nella loro intelligenza, già matura o sulla strada della maturazione? Basta, in effetti. Perché è precisamente quella che troppo spesso manca ormai quando si mettono su spettacoli e rappresentazioni con intenti artistici, che, come è quasi sempre indispensabile, contano perlomeno un vilain (anche collettivo) e il suo codazzo.
Si pensa invece sempre più infantile il proprio pubblico, se non per età, certo per spirito. E forse c'è anche (o soprattutto?) il timore di prendersi e di essere presi su quel seriosissimo serio che è ormai attribuito alla più piatta superficie dei segni (parole, immagini, suoni e così via).
Arriva così una scolastica spiegazione. O forse ancora peggio, arriva, nell'oscurità, come oltre-moderno deus ex machina, il barlume di speranza, "la luce in fondo al tunnel" che, si badi bene, è funzionalmente altra cosa da un fiabesco happy end o da una riparazione miracolosa dell'ordine del mondo.
La sua destinazione morale non è del resto una purificazione né lo straniamento razionalmente critico del cosiddetto teatro epico. È un'indignazione rabbiosa per il male. Un sentimento che si accompagna, in chi ha assistito e vi ha aderito, al dolciastro autocompiacimento di sentirsi farisaicamente dalla parte del bene.
Questa tabella circola negli scritti giornalistici e li ispira. Circola anche, in modo meno effimero, nella letteratura sociologica. Denomina e qualifica moralmente e materialmente le differenti generazioni succedutesi negli ultimi centocinquanta anni. La partizione che propone è certo grossolana e, anche per mancanza di competenze, non si discuterà qui se essa abbia le proprietà necessarie per essere invocata come solido criterio storiografico nel fare storia di una disciplina .
Può però divertire incrociarla anche solo per lampi e per momenti con la storia della linguistica (e per un paio di casi, come si vedrà, della semiotica). Ne viene forse fuori infatti qualche rivelatrice curiosità, soprattutto se osservata in prospettiva.
Roman Jakobson nacque nel 1896 e, per suggestione delle etichette di quella partizione, sorte, come si sa, talvolta per ragioni accidentali, di lui si avrebbe voglia di posticipare idealmente la venuta al mondo. Lo si tirerebbe fuori così dalla "Generazione perduta" e lo si iscriverebbe, come anticipatore, nella "Greateast Generation". Lì farebbe compagnia a Émile Benveniste (1902).
Lo stesso però si dovrebbe fare allora con Louis Hjelmslev, condannato altrimenti solo per un biennio (1899). E come comportarsi con Edward Sapir del 1884, con Leonard Bloomfield del 1887, con Nikolai Truceckoj del 1890, come John Firth? E con Viggo Brøndal del 1887? E con Vilém Mathesius del 1882? E con Lucien Tesnière del 1893? E con Jerzy Kuryłowicz del 1895? E con Alf Sommerfelt del 1892? E con Walter von Wartburg del 1888? Quanto all'Italia, appartengono alla "Generazione perduta" Benvenuto Terracini, del 1886, Vittorio Bertoldi, del 1888, Giacomo Devoto, del 1897, Antonino Pagliaro, del 1898, Vittore Pisani, del 1899.
Pur nelle non trascurabili differenze, tutti grandi il giusto, ma, a ben vedere appunto, tutti irrimediabilmente perduti. Quella grande stagione della linguistica, insomma, sarebbe opera della "Generazione perduta". C'è da rifletterci, in funzione delle successive vicende disciplinari.
Nella "Greatest Generation", sono invece presenti un paio di noti semiologi: nacque nel 1915 Roland Barthes (ma semiologo?) e nel 1917 Algirdas Greimas (semiologo per decisivo impulso di Barthes, che si può immaginare avergli detto in proposito: "Vai avanti tu, che a me viene da ridere").
Di linguisti, per l'Italia si possono fare i nomi di Giuliano Bonfante (1904), di Carlo Tagliavini (1903), di Luigi Heilmann (1911). Fuori d'Italia, oltre al già menzionato Benveniste, ci sono Einar Haugen, del 1906, André Martinet, del 1908, Zellig Harris, del 1909, Kenneth Pike, del 1912, Eugene Nida, del 1914, come Yakov Malkiel, Henry Hoenigswald, del 1915, come Ernst Pulgram, Charles Hockett, del 1916, Knud Togeby, del 1918, Eugenio Coseriu, del 1921, Morris Halle, del 1923. E poi tre figure, proprio sul limitare del periodo, menzionare le quali fa sorridere, se li si mette in prospettiva: sono Michael Halliday, del 1925, Uriel Weinreich, del 1926, e William Labov, del 1927.
Si sorride perché, pur nelle differenze reciproche, da infanti, paiono messi lì a fare da paradossali putti del mirabile evento procurato da lì a breve dalla Provvidenza. Si era infatti sul limitare della "Generazione silenziosa", apertasi nel 1928. E del dicembre di quell'anno è Noam Chomsky.
Ora, a pensarci bene, solo per smaccata antifrasi si può dire Chomsky in linea con la sua data di nascita: silenzioso? Di conseguenza, non mancherà certo chi dirà essere lui in realtà il fiore, appena un po' tardivo, della "Greatest Generation": messianicamente, anzi, il suo compimento. Consegnando il dato, Apollonio non oserà dire altro.
Sono però anagraficamente della "Generazione silenziosa" gli allievi del Chomsky della prima ora, come alcuni suoi epigoni (molti presero presto la via dell'apostasia): Jerry Fodor (1935), Paul Postal (1936), James McCawley (1938), John "Haj" Ross (1938), David Perlmutter (1938), George Lakoff (1941) e così via. Dalla porta accanto, occhieggia Charles Fillmore (1929); un po' dentro e un po' fuori del mainstream, ci sono Nicolas Ruwet (1932) e Sige-Yuki Kuroda (1932); completamente fuori, Maurice Gross, del 1934. A conti fatti, un silenzio generazionale litigioso e assordante.
Nota finale assai curiosa anch'essa: in Italia, nascono come partecipi della "Generazione silenziosa" i più loquaci esponenti di declinazioni nazionali, DOCG si potrebbe dire, di linguistica e semiotica. Nel 1932, venne subito al mondo il tomista Umberto Eco e pochi mesi dopo il vichiano Tullio De Mauro.
E qui Apollonio si ferma. È più che certo che ai suoi due lettori saranno venuti in mente anche altri nomi. Gli evocati sono infatti esito di un estro estemporaneo, di una celia innocente, di un gioco (assistito) della memoria.