28 settembre 2025

Linguistica candida (77): "Pulito". Cosa?

Quando è questione di lingua, ciò che Apollonio ha forse maggiormente in uggia sono le ipostatizzazioni. E di ipostatizzazioni, le grammatiche, tradizionali e no, sono piene. Ne sono costituite per intero. È questa la loro ideologia. Implicita, che è anche peggio. La terminologia grammaticale è appunto messa lì a dare nome a tali presunte sostanze. Né ci si può stupire del fatto che Ferdinand de Saussure la dichiarasse appunto di una "ineptie absolue" nella celebre lettera inviata in risposta ad Antoine Meillet nel gennaio del 1894. Da allora nulla è cambiato. E, ci si intenda, Apollonio non si illude né pretende che qualcosa cambi, anche perché è opportuno che, come per molto altro, ciascuno coltivi ed abbia la grammatica esplicita che si merita. 
A differenza delle cose del mondo, delle "cose" della lingua nessuno si chiede se e come corrispondono al loro nome e questo nome, in fin dei conti, cos'è. In genere, lo si prende come motivato dalla "cosa". Ma, trattandosi di "cosa" linguistica, è il nome che motiva a sua volta la "cosa". La congiunzione congiunge. C'è la causa nel causativo. L'articolo articola. Se poi è definito, definisce. Il nome nomina e il verbo... qualcosa da verbo farà. Fuori delle classificazioni, c'è poi la pratica. E non va meglio. Anzi. 
Di tutta questa soffocante pienezza, di questa ontologia tanto ideologicamente assoluta, quanto materialmente volatile, garanti ai sensi e alla ragione sono le forme. Un esempio a casaccio. Cos'è un participio, si ponga, se non un participio? Un ente-participio. E quanto a forma, il participio pulito suona o si legge sempre come pulito, per dire, in hai pulito?, l'ha pulito, è stato pulito, venne pulito, resta pulito, va pulito, mi viene pulito e così via. 
Si osservi però che tutti i pulito che ricorrono dal secondo in avanti sono sì pulito, ma, dandosi il caso, potrebbero essere pulita. Ciò vuole dire che sono pulita in modo latente, per via di eventuale reazione paradigmatica a una diversa sintagmatica. Il primo no. Gli manca dunque una proprietà che gli altri possiedono: va considerato al pari di essi? E, domanda radicale, si tratta veramente della medesima forma, se in un caso può mutare e nell'altro no? Un meccanico direbbe forse di no: pezzi che si somigliano formalmente in certe condizioni fino a parere identici, ma in realtà differenti. Non stanno l'uno al posto dell'altro. Tra i due, uno non ha un gioco di cui l'altro dispone: uno è pulito e basta, l'altro, secondo i casi, pulito, pulita, puliti, pulite. E il pulito fisso, per quanto suoni identico, è ben diverso da pulito variabile.
Al posto di pulito, può poi ricorrere, caso mai, pulitissimo, quando pulito è combinato, per esempio, con resta... o con mi viene... Meno facilmente o per nulla quando pulito si trova in altre combinazioni. E dunque, se capita sia pronto in quei casi ad alterarsi, pulito è sempre un ente-participio o, misteriosa metamorfosi ontologica, lì dove si altera, è diventato un ente-aggettivo? Un participio alterato fa in effetti paura. Un aggettivo va già meglio, si sa come venirne a capo. 
In verità, per ciascuna di quelle ricorrenze di pulito, prese a casaccio, qualcosa che la caratterizzi individualmente, rispetto alle altre, la si trova. Del resto è già evidente così: è stato non è hai, che non è venne, che non è va... Ed entrando in combinazione con pulito, per interazione, ciascuno di questi reagenti, per dire così, rende pulito diverso e ne riceve a sua volta una diversità. Va di va pulito non è certo lo stesso va di E la nave va.
Sarà allora il caso di moltiplicare gli enti secondo queste necessità? E di quanti enti-participi avrà bisogno una descrizione adeguata di ciò che sta nella testa di un locuteur? Se non è una questione di lana caprina, è certo una di quelle che difficilmente agiteranno le notti e i pensieri di una persona normale. Ma chi ha mai detto che avere curiosità per la lingua e porsi domande siffatte sia da persona normale?
E poi, bando alla chiacchiere: pulito è pulito! Ha una forma. Quella forma ne fa ciò che è: bisogna che le si creda. È un participio. O un aggettivo. Insomma, ciò che si vuole. Basta sia una "cosa". Senza "cose" stabili e certe della lingua nella lingua, santo Cielo, cosa e come si farebbe?

21 settembre 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non necessitano (46): Buone cause

Anche quando non è effetto di malafede, attribuirsi una (sempre supposta) buona causa tira fuori di norma da un essere umano quanto in lui c'è di peggio. 
Capita ci siano eccezioni in proposito e valgono appunto come casi di santità. Ma nel dubbio riflessivo, sempre ragionevole, non indursi in tentazione ed evitare di farlo è proprio di chi ha di sé una composta misura morale.

18 settembre 2025

Lingua loro (53): "...ha voluto..."? Ma come è umano Lei!

Da anni e da voce o in prosa giornalistica, Apollonio rispettivamente ode o legge espressioni formulate compendiosamente secondo la formula seguente:

Questa mattina, in occasione dell'evento, il Presidente ha voluto indirizzare a tutta la comunità nazionale un importante messaggio...

Ne sono varianti, per esempio, ...in occasione della visita, il Papa ha voluto rivolgere alla comunità dei fedeli un pressante invito..., ...in occasione della partenza, il Direttore Generale ha voluto inviare ai dipendenti della società un caloroso saluto..., ...in occasione dell'insediamento, il Procuratore generale ha voluto destinare ai suoi collaboratori un forte incoraggiamento..., in occasione della ricorrenza, il Capo di Stato Maggiore ha voluto fare giungere alle Armi e ai Corpi un vivo ringraziamento...
Da sempre la formula risulta fastidiosa ad Apollonio, per il costitutivo ricorrervi di volere (si badi, verbo definito grammaticalmente servile). Il suo sentimento della lingua prova in proposito un'intuitiva ripulsa. Ma alla ripulsa (Roland Barthes: "...parce qu'il me blesse ou me séduit"), si accompagna la voglia di capire.
Per capire la lingua, non ci sono da considerare che le combinazioni e le sostituzioni (ridondante il riferimento). Si contrae un'attitudine del genere quando, da ragazzi, si prende sul serio la fonologia. C'è poco altro da prendere sul serio, del resto, negli studi umanistici. 
Nel caso specifico, la combinazione è già sulle prime evidente, grosso modo. Quindi, più proficuo cominciare con la sostituzione, per poi tornare sulla combinazione. E rispetto a qualsiasi cosa che paia un elemento della lingua, la prima e fondamentale sostituzione è con il nulla: "Toglilo! Azzeralo! Fallo sparire! Comincerai a capire cosa ci sta a fare".
Ecco allora quanto proprio stamane, in una rete sociale, con il suo ha voluto ha innescato questo frustolo, lo si ammette, per esaurimento ("Ma basta! Anche qui? Non si rendono conto della ridicolaggine?"): "Questa mattina... il Rettore ha voluto indirizzare a tutta la comunità universitaria un messaggio di saluto...". Senza, sarebbe stato: "Questa mattina... il Rettore ha indirizzato a tutta la comunità universitaria un messaggio di saluto...". Lingua dell'informazione, si è detto. Con o senza ha voluto, sopra quanto è successo, sul fatto, nessuna differenza: ha voluto è allora un vacuo orpello? 
Lo si conceda, a chi non crede che la lingua si porti sempre dietro un'ideologia. Ciò che pare un orpello in funzione dell'enunciato ('ciò che ha fatto quel rettore o quel presidente o quel papa...') non lo è tuttavia in funzione dell'enunciazione ('io dico a voi...'). 
Un orpello dice cose essenziali di chi enuncia e, soprattutto, di quale sia la sua attitudine rispetto a ciò che enuncia, anche per il fatto che l'enunciato viene evidentemente ritenuto meritevole di orpelli, in funzione di cosa o di chi vi si trova menzionato e coinvolto.
E qui, in correlazione con la sostituzione, ecco al lavoro il dato della combinazione. Nella funzione di soggetto di ha voluto, il Presidente / il Rettore / il Papa / il Direttore Generale / il Capo di Stato Maggiore e, si precisa a scanso di equivoci, i rispettivi femminili, ove la realtà li rende disponibili, non sono l'eccezione. Sono la norma. Sono insomma rappresentativi della non marcatezza. 
Non che in proposito ci sia un impedimento grammaticale, ci si intenda, ma tra "L'operatore ecologico" e "Il Sindaco" non è difficile immaginare chi fungerà da soggetto più probabilmente e chi meno probabilmente nel contesto "...ha voluto ringraziare la cittadinanza per la corretta e lodevole differenziazione dei rifiuti". Si dirà: anche perché chi fa informazione ritiene, magari a ragione, che valga la pena di scrivere di ciò che passa per la testa e dalla bocca di un sindaco più che di ciò che passa per la testa e dalla bocca di un dipendente della relativa azienda municipalizzata (potrebbero essere d'altra parte espressioni irripetibili).  
Ma, a ben vedere, dirlo è solo un modo diverso di dire che ha voluto, l'orpello servile, rivela che il contenuto informativo dell'enunciazione è la volontà del suo soggetto grammaticale, nel fare ciò che si dice abbia fatto. A tale informazione, quella procurata dall'enunciato fa soltanto da pretesto (o da contorno). Non il fatto, dunque, ma la volontà soggettiva di un'autorità è quanto si comunica con ha voluto. E, correlativamente, rispetto a tale autorità, con ha voluto chi enuncia rende esplicito il proprio atteggiamento. Servile. Insomma, mai la terminologia grammaticale fu più appropriata. Ha voluto esprime il tratto pertinente di chi lo enuncia: lingua da servo. Servile.
E qui giunti, grazie all'amara e corrosiva fantasia di Paolo Villaggio, combinazione e sostituzione o, per dirlo con una secca definizione disciplinare, la linguistica in purezza consente, capendo, di ridere parecchio:

Il Megadirettore Galattico / il Duca Conte Maria Rita Vittorio Balamam / l'Onorevole Cavaliere Conte Diego Catellani / il Duca Conte Pier Carlo Ingegnere Semenzara / la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare / il Direttore Totale Dottor Ingegner Gran Mascalzon di Gran Croce Visconte Cobram / il Direttore Naturale Duca Conte Pier Matteo Barambani / il Professor Guidobaldo Maria Riccardelli ha voluto...

E di ridere tanto degli innumerevoli fantocci che, nel contesto specificato, pensano di farsi belli consacrando il loro ha voluto alle esternazioni di qualche "Duca Conte", quanto dei "Duchi Conti", spesso immaginari, che da ha voluto si pretendono e si considerano onorati, fino al punto che se ne trova sempre qualcuno che, in mancanza di meglio, se lo attribuisce da sé: "...ieri ho voluto rendere omaggio...". "Ma mi 'facci' il piacere...".

13 settembre 2025

A Pisa, si celebrano i cento anni dalla nascita di Riccardo Ambrosini


Ecco un'occasione nella quale Apollonio trepiderà per il suo esile alter ego e curerà, al Cielo piacendo, di assicurargli un po' di conforto interiore.

8 settembre 2025

A frusto a frusto (146)


Se, con serena ostinazione, si spinge uno sguardo sperimentale al di là di ciò che è bruto, ci si rende presto conto che quanto, con paradossale necessità, tiene in vita un essere umano è un quale.

6 settembre 2025

Cronache dal demo di Colono (74): Un fenomeno arcitaliano

La previsione era facile: il sei settembre 2025, il ciclone Andrea Camilleri si sarebbe abbattuto sulla nazione (linguistica) con la sua massima asprezza. Sono mesi che imperversa, come si sa. Pian piano, da qui alla fine dell'anno, lo si vedrà ridursi e infine spegnersi.
Fuori di figura e con un vivo sentimento di umano rispetto, peccato che a Camilleri sia finita così. Peccato che di uno scrittore di genere, bravo il giusto e sconsideratamente prolifico, di una persona di spirito, ma incline ai luoghi comuni, di un uomo di buona cultura, ma niente più che di buona cultura, sia stato fatto un feticcio (quanto durevole lo dirà appunto il tempo). Peccato che a tale feticcio sia stata adesso consacrata un'ara (se di marmo o di cartone, giudichi chi legge). 
Come in una festa strapaesana e con il pretesto di magnificazioni sesquipedali, intorno a tale ara si sono celebrati e si celebrano riti sfacciatamente (e comprensibilmente) commerciali e comiche manifestazioni di presenzialismo. C'è chi vende ogni sorta di santini, chi zucchero filato e torroni, chi spara tricche tracche e mortaretti, chi guitteggia dai teleschermi e sulle assi di palcoscenici di provincia e chi, infilandosi nelle chiacchiere di tutti i crocicchi, le infiora con ricordi personali originalissimi, ma dai quali la comunicazione di massa trae da decenni polpettoni stucchevoli e ormai rancidi. 
Si dirà che Camilleri lavorò a tale esito, nel breve scorcio della sua vita in cui fama e successo lo toccarono, improvvisi e irragionevoli, come sono sempre, chiunque tocchino. Si dirà che anzi lo fomentò. 
Lo fece sulle prime con un'autoironia sorridente ("Ho famiglia", gli si sentì più o meno affermare, "e penso al futuro di prole e nipoti"). Poi, però, come trascinato da una corrente, divenne preda, in apparenza, di un'irragionevole temerarietà. È evidentemente il sentimento che un dio feroce dona a coloro che destina a perdere un temperato giudizio su se stessi, nel clamore e negli effetti di interessate lusinghe. Si direbbe quasi una perdita del pudore.
A Camilleri bisogna concedere però che resistere sarebbe stato difficile e avrebbe domandato ben altra tempra. O l'essere nato e cresciuto in una nazione diversa da quella in cui invece si è riconosciuto senza remore e che, riconoscendosi a sua volta in lui, l'ha eletto a campione di una sua temperie morale e culturale certo non brillantissima né memorabile. 
Come si può e come detta il tempo, Andrea Camilleri è entrato così nel novero degli arcitaliani ufficialmente riconosciuti come tali (quanto a lungo vi rimarrà, lo si ribadisce, non è dato di saperlo) e la compagnia, va detto, non è delle migliori. 
Da più di sette secoli, infatti, il meglio dell'Italia e della sua cultura si esprime nell'"anti-" più che nell'"arci-". E, senza per questo pensare a chissà quali valori (sette secoli fa, ce ne fu in effetti uno fondativo e fu un segno permanente, per la nazione), ma restando in una sorta di locale e recente medietà, basta uscire dalla sagra strapaesana e percorrere i trenta chilometri che separano la burlesca Vigata dalla grave Regalpetra, per rendersene conto. Spassionatamente.

30 agosto 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (45): Contraddizioni

Non c'è faccetta dell'esperienza umana che non alberghi contraddizioni. C'è chi, col pretesto di consolare e di consolarsene, ne fa una mistica mistificatoria. C'è chi si propone con arroganza di scioglierle, con esiti regolarmente tragici e fallimentari. Provare a esplorarle, come oggetto di conoscenza, invece, senza disperarsene; e sorriderne, anche se lacerano e feriscono, fin quando si può e, se del caso, amaramente. Al di là, tacerne: non riscattate dal sorriso, ne sortiscono solo lamentele come stucchevoli ovvietà.

26 agosto 2025

23 agosto 2025

Linguistica da strapazzo (56): "L'amare": "work in progress" (e Brunori Sas, come pretesto)


Apollonio incrocia in rete questo piccolo testo e, di bocca buona com'è, ne resta divertito. Non tanto per ciò che dice, ma per come prova a dirlo (paronomasia inclusa) e per il corto circuito grammaticale che contiene. Spregiare il sostantivo, come parte del discorso, è operazione di poetica metalinguistica plausibile e persino graziosa. Ma, nel farlo, di sostantivi, l'aforisma ne mette in campo ancora un paio. Sono sostantivati, nel gergo grammaticale, l'amare e il fare, come infiniti. Ricorrono con un articolo determinativo. E la sintassi è perentoria: se c'è articolo, c'è sostantivo. L'infinito sostantivato è risorsa grammaticale e testuale di cui l'italiano si fa bello sin dai suoi esordi e che gli è particolare. Di infiniti sostantivati, ce ne sono di celeberrimi e di costitutivi, si direbbe, dell'identità nazionale: ...e il naufragar m'è dolce in questo mare. L'infinito, appunto, sostantivato. 
Di il fare chi non ricorda inoltre i fasti, sebbene ormai non più recentissimi, nel gergo della politica? "Io sono un uomo del fare..." fu il manifesto personale di una figura pubblica che segnò un ventennio della nazione e la cui memoria sta evidentemente sbiadendo.
Nel discorso, per più scoperta allusione al ruolo dell'agente e allo sviluppo dell'azione, l'infinito sostantivato porta quella nuance processuale che i sostantivi registrati come tali nei dizionari talvolta tendono a oscurare: con naufragio al posto di naufragar, il verso appena citato sarebbe colato a picco. E il fatto, al posto di il fare, porta con sé l'ineluttabile idea di ciò che è compiuto. "Perfetto", si dice sempre nel gergo grammaticale, ma ovviamente non per intendere che si tratti di esito ineccepibile. 
D'altra parte, si può banalmente fare l'amore. Ma fare l'amare, qui esposto come solo eventuale, comporterebbe una buona dose di straniamento (linguistico). Con la lingua, tuttavia, non si sa mai. Provveda il poeta vivente qui evocato, insomma, sempre che ne abbia la voglia, anzi, visto che meglio gli aggrada, il volere. 
Eppure, quanto ad amore, chi direbbe mai che, da sostantivo, non designa in effetti un processo? Vorgangswort, nei termini tassonomici di Hugo Schuchardt. E ciò cui (per polisemia) il sostantivo amore dà nome ha fuor di dubbio principio, sviluppo e, non di rado, se non quasi regolarmente, fine. 
Sostituito al sostantivo l'amore, l'infinito sostantivato suona allora come appropriato a un work in progress e forse aiuta a non pensare che il processo avrà una fine. L'amare è in altre parole un segnale di lavori in corso che ci si immagina e si vorrebbero durevoli per sempre, per uno dei soliti umani paradossi.

20 agosto 2025

Lingua loro (52): "Dato", "fondamentale", "linguaggio", "serve", "principio", "noi", "obiettivo", "al fine di" e tanto altro

"Ma se parliamo di prodotti linguistici, io credo che dovremmo sempre tener presente un dato fondamentale: il linguaggio umano è nato e si è sviluppato perché serviva. Perché era utile. Perché rispondeva a delle necessità. E questo principio continua a essere valido. Non esistono discorsi gratuiti: se prendiamo la parola - anche nella maniera più informale, svagata, istintiva possibile - è perché abbiamo un obiettivo, o più obiettivi. Questo vale per le arringhe in tribunali, per i comizi in piazza, per le telefonate di lavoro, per gli slogan pubblicitari, per le dichiarazioni di amore, per le chiacchiere al bar. Nella più banale delle ipotesi, parliamo del più e del meno, anche con sconosciuti, al fine di alimentare un rapporto interpersonale che serve a definire o preservare il clima umano di un ambiente".
La perentoria espressione di questi concetti è comparsa in rete ieri e, nell'epoca dei motori di ricerca, è ridondante dichiarare dove si trova e a chi la si deve. Chi avesse curiosità in proposito, in pochi secondi può soddisfarla. Vedrà che si tratta di una reputata tribuna e, se non di uno specialista, di un "loico" e letterato. 
Non c'è d'altra parte essere umano che, sulla lingua, non abbia le sue convinzioni (o ciò che crede essere tali) e cui non capiti di esprimerle. A scanso di equivoci, "Grazie al Cielo!" è quanto in proposito pensa un modesto avventuriero nel campo, come Apollonio. Anche per la meravigliosa disponibilità a farsi oggetto del discorso di chiunque, la lingua (al singolare assoluto) è infatti preziosissimo tratto umano di eguaglianza, di fraternità, di libertà. Di lingua (al singolare di una pluralità indefinita), non c'è chi non ne parli (almeno) una. E non c'è chi non si possa esprimere al duplice proposito della lingua al singolare assoluto e di una lingua al singolare di una pluralità indefinita. Lo si fa persino in un diario scombiccherato e cervellotico come questo. E ciò dice come la linguistica (con i suoi succedanei) sia disciplina ben più democratica e popolare della biologia molecolare o della fisica delle particelle.
Qui, dunque, niente di personale. La sola informazione che ad Apollonio pare utile dare in modo esplicito è che il brano in esordio viene da uno scritto che prende a pretesto la prosa di Italo Calvino e sue recenti parodie automatiche. È quanto basta a giustificare la presenza di un'immagine dello scrittore, colto in un'attitudine che a prima vista pare interessata, ma è forse anche perplessa. 
Di certo, a nessuno sarà d'altra parte passata per il capo l'idea che motti così assertivi fossero proprio di Calvino. Per mostruosa metamorfosi, nella mente del signor Palomar i dubbi, gli interrogativi, le esitazioni, il timore di precipitare il proprio pensiero nell'abisso delle conclusioni generiche e affrettate si sarebbero infatti volti integralmente nei modi tassativi di una corriva petizione di "principio", quanto all'espressione umana.
Perché di una petizione di "principio" in effetti si tratta. E di una buona sintesi di ciò che il senso comune non tanto opina, quanto ferreamente postula della lingua (o del "linguaggio", così ci si esprime in "lingua loro"). In quelle righe non c'è in effetti nulla di personale e nulla che possa essere pertanto addebitato personalmente alla voce ("io") che nell'occasione se ne fa semplice riecheggiatrice.
È il bello dei luoghi comuni. Li si può proclamare con leggerezza o (che è lo stesso) per responsabilità universalmente condivisa: il "noi" di "dovremmo" (soprattutto in combinazione con la modalità deontica del predicato) è infatti quel pronome che trovò una precisa definizione in parole di Giorgio Manganelli che qui non si ripetono. E l'argomentazione che poggia sopra un fondamento tanto comune presenta come "dato fondamentale" ciò che è in realtà una congettura molto modesta, anche quanto a contenuto intellettuale. 
E nemmeno una congettura suffragata da osservazioni sperimentali: "il linguaggio umano è nato" (passato prossimo del modo indicativo, il modo della realtà) è infatti una proposizione che a nessun essere umano è stato dato di proferire sulla base di una constatazione. Ancor meno un essere umano può proferire, sulla base di una constatazione, "il linguaggio... si è sviluppato", se intende parlare in tal modo di filogenesi. 
Ma si ipotizzi pure al proposito che l'ontogenesi riassuma la filogenesi. Le osservazioni e gli esiti degli esperimenti finora possibili, quanto alla lingua, non indirizzano a una spiegazione del suo sviluppo ontogenetico nei termini di una "causa finale". Procedere in tal senso è farlo nel modo sopra il quale ironizzò Voltaire, sono già quasi tre secoli: "gli occhi nati e sviluppati per vedere, lo stomaco per digerire" e così via sono ovvietà insuperabilmente insipide.
Ma l'idea, popolarissima, di una causa finale a indirizzare lo sviluppo è invece proprio ciò che prospera rigogliosamente nel séguito del discorso. Vi affiorano predicazioni come "il linguaggio... serviva" (ma a chi?), "era utile" (idem), "rispondeva a delle necessità" (di chi?). Saranno forse "i bisogni" teorizzati da Lamarck. Inutile chiedere tuttavia maggiore precisione o dettagli: sul tema specifico, la risposta invocherà ancora più genericamente adattamento, sopravvivenza e successo della "nostra riverita specie", secondo la qualificazione attribuitale da un pensoso lombardo.
Anche perché, una volta scivolati lungo una simile china, il "linguaggio" e la specie che se ne servirebbe come strumento finiscono per essere un indistinguibile tutt'uno. E non l'intenzione, la Meinung di un soggetto trascendentale, per dirla con Kant e con i suoi sviluppi fenomenologici, ma addirittura "l'obiettivo" di un individuo qualsivoglia di tale specie o di un qualsivoglia gruppo di individui associati diventa la ratio di ogni suo o loro atto espressivo (e comunicativo). Una spiegazione irenica e tranquillizzante.
Insomma, se si capisce cosa vuole (ma come lo si capisce?), si capisce cosa dice. Forse dovrebbe essere però il contrario: se si capisce cosa dice, si capisce cosa vuole. O, meglio e più ragionevolmente, non è né così né al contrario, per evitare il circolo vizioso di tutte le ermeneutiche, anche quando esse si travestono, come nel caso specifico, da pragmatica.
Al diavolo, però, nel caso individuale, le sofisticazioni introdotte dalle distinzioni di "ego", "superego" ed "es". Al diavolo i lapsus, le false partenze, le conclusioni inconcludenti, complessivamente, le erranze e gli errori.  
O, passando al sociale e ai suoi ancora più fumosi e contorti "obiettivi", al diavolo i conflitti, i pregiudizi, le menzogne spacciate per verità, le verità spacciate per menzogne, le lingue che mettono a tacere altre lingue o che ne decretano la morte.
Al diavolo, insomma, il "non sanno ciò che fanno", con cui finalmente espresse la sua opinione in proposito una voce tutt'altro che priva di spirito (giudizio pertinentissimo, se mai ce ne fu uno, proprio rispetto all'espressione umana). Vedi un po' e di conseguenza se (come credono) sono in grado di sapere ciò che vogliono e quali sono i loro "obiettivi"...
Al diavolo, soprattutto, come inesistenti, i "discorsi gratuiti", tanto "gratuiti", tanto privi di "al fine di", da esprimere, si direbbe riflessivamente, un'arte interna alla lingua (di nuovo, al singolare assoluto). 
Non c'è lingua nota (di nuovo, al singolare di una pluralità indefinita) di cui un'arte siffatta, in un modo o nell'altro, non sia stata e non sia secrezione. Spesso, quando il tempo passa, la sola secrezione conservata, mentre all'oblio e al nulla vengono destinati enormi quantità di discorsi la cui esistenza è garantita da presunti "obiettivi" esteriori.
Si tratta dell'arte che, come lingua interiore, germogliò in un Italo Calvino, per esempio. Vai a sapere come mai, come e, soprattutto, con quale "obiettivo". E da lì succhi distillati passarono materialmente per la sua penna e per la sua macchina da scrivere. E così si fecero testo: un sistema processuale. Una pluralità di testi, più precisamente, che, proprio in quanto tali, pongono problemi di accertamento filologico della loro testimonianza. Testimonianze, quelle di un Calvino, tutte ipotetiche, tutte interrogative. Manifestazioni loquaci del mistero della lingua e, al tempo stesso, reticenti, se non proprio mute in proposito. 
Ovvio: la lingua è un mistero per coloro che, evidentemente balenghi, si ostinano a non arrendersi all'evidenza morale e materiale del "principio" che discende da quel "dato fondamentale". Esso rende conto universalmente di cosa sono i "prodotti linguistici". E afferma che "il linguaggio è nato e si è sviluppato perché serve" e che "noi", con esso, nei nostri discorsi mai "gratuiti", perseguiamo "obiettivi". Santa pazienza, ma ci vuole tanto a capirlo?

19 agosto 2025

Trucioli di critica linguistica (26): "Buffet" e "bouffet", coppia minima nel "Gattopardo"

Per designare apparentemente la medesima cosa, nel Gattopardo ci sono due allotropi. Uno graficamente corretto: buffet. E uno no: bouffet. Ha due ricorrenze il primo; ne ha una il secondo. A breve distanza l'una dall'altra, si trovano tutte nella Parte VI del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell'ordine, eccole e, brevemente, ecco i loro contesti di apparizione: 

"«Maria! Maria!» esclamavano perpetuamente quelle povere figliole. «Maria! che bella casa» «Maria! che bell'uomo è il colonnello Pallavicino» «Maria! mi fanno male i piedi!» «Maria! che fame che ho! quando si apre il 'bouffet'?»". 

"[Fabrizio] aspettò un momento che i ragazzi [Tancredi e Angelica] si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala del buffet". 

"Nella sala del buffet, vuota, vi erano soltanto piatti smantellati, bicchieri con un dito di vino che i camerieri bevevano in fretta guardandosi attorno. La luce dell'alba si insinuava dai giunti delle imposte, plebea".

Svista di uno scrittore della domenica, come Lampedusa fu (ed è ancora) considerato? Così pensò forse Giorgio Bassani che corresse bouffet con buffet, nella versione del romanzo che curò e che vinse lo Strega nel 1959. 
Dal 1967 - dopo un polemico intervento in proposito di Carlo Muscetta - si legge però Il Gattopardo in una "edizione conforme al manoscritto del 1957", estremo testimone della volontà dell'autore. Le due grafie, nei luoghi differenti, sono state ripristinate di conseguenza. E, fuori dell'ipotesi che, per una, si tratti di un errore, c'è da chiedersi se la loro differenza abbia una ratio, nel sistema del libro.
La risposta è positiva, come per altri minuscoli dettagli della costruzione linguistica del romanzo. Il realismo del Gattopardo è maniacale. È soprattutto tale quando vi si esprime la sua fondamentale vena sardonica, che, va osservato, finisce per avere sempre tra i suoi bersagli anche il principe di Salina, come personaggio più esposto.
Buffet ricorre pianamente nella narrazione. In una mimesi del discorso diretto e, peraltro, tra virgolette, bouffet rappresenta invece l'esito che il prestito francese buffet ha sulle labbra delle "ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti" che, nel novembre del 1862, riempivano i salotti della nobiltà palermitana. Eccole sulla scena:
 
"Più [Fabrizio] le vedeva e più s'irritava; la sua mente condizionata dalle lunghe solitudini e dai pensieri astratti, finì a un dato momento, mentre passava per una lunga galleria sul [si osservi] pouf centrale della quale si era riunita una numerosa colonia di quelle creature, col procurargli una specie di allucinazione: gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederla a un tratto arrampicarsi sui lampadari e da lì, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola, stridori e digrignamenti sui pacifici visitatori. 
Strano a dirsi fu una sensazione religiosa ad estraniarlo da quella visione zoologica: infatti dal gruppo di bertucce crinolinate si alzava una monotona continua invocazione sacra: «Maria! Maria!» [e quel che segue e si è già citato]. Il nome della Vergine, invocato da quel coro virgineo riempiva la galleria e di nuovo cambiava le scimmiette in donne, perché non risultava ancora che i [si osservi] ouistiti delle foreste brasiliane si fossero convertiti al Cattolicesimo".

Buffet [by'fɛ] e bouffet [bu'fɛ] sono una coppia minima, nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Fuori di ogni semantica referenziale e per via del sistema che sostanzia e sostiene il testo, la differenza di signifiant vi si correla in effetti a una differenza di signifié. E, dalla prospettiva di una critica linguistica, nella langue narrativa del Gattopardo, che non è banalmente l'italiano, /y/ e /u/ sono fonemi. 

14 agosto 2025

Linguistica candida (76): "A Fra', che te serve?"

"L'aggettivo è una parola che serve a modificare semanticamente il nome o un'altra parte del discorso con cui ha un rapporto di dipendenza sintattica e, nella maggior parte dei casi, di concordanza grammaticale". "La preposizione è una parte del discorso che serve a esprimere e determinare i rapporti sintattici tra le varie componenti della frase". "La congiunzione è una parte del discorso invariabile che serve a collegare sintatticamente due o più parole (o gruppi di parole) di una frase, oppure due o più frasi di un periodo". "L'avverbio è una parte del discorso invariabile che serve a modificare, graduare, specificare, determinare il significato della frase". 
Sono lacerti di una buona, anzi di un'ottima grammatica dell'italiano. Lo si dica pure: della migliore. Non ha rilievo dire quale sia, nel caso specifico, né chi sia il grammatico che l'ha dettata. Di ciò che qui si vuole fare osservare si troveranno infatti esempi a bizzeffe in ogni altra simile e di qualità inferiore. Né a scorrere quella cui qui si è fatto rapido ricorso i passi menzionati sono i soli in cui compare "serve". 
Nel discorso dei grammatici e delle grammatiche, il modulo è infatti ben più che corrente. E non c'è niente nella lingua di cui una grammatica non riesca finalmente a dire che "serve", nel modo che s'è visto o con una parafrasi. Tratta dalla medesima fonte, eccone una: "Il nome o sostantivo è una parola che ha la funzione di indicare persone, animali, cose, concetti, fenomeni (ad es. bambino, gatta, martello, giustizia, tuono)"; "ha la funzione di indicare" equivale a "serve a indicare", che gli è pianamente commutabile.
Ma "serve" serve? La domanda non paia provocatoria. Per esperimento, lo si espunga dai passi citati, con gli opportuni aggiustamenti: "L'aggettivo è una parola che modifica semanticamente il nome...", "La preposizione è una parte del discorso che esprime e determina i rapporti...", "La congiunzione è una parte del discorso invariabile che collega sintatticamente...", "L'avverbio è una parte del discorso invariabile che modifica, gradua, specifica...", "Il nome o sostantivo indica persone...". 
Si tolgono "serve" o la sua parafrasi e quei propositi restano descrittivamente equivalenti, qualunque sia il loro valore. C'è più di un sospetto allora che, nel discorso grammaticale, "serve" sia un sussiegoso orpello e che se ne potrebbe fare a meno. Una bizzarria, a prima vista, per un genere testuale, la grammatica, teso in teoria a dire come stanno le cose della lingua e niente altro. Ma qui viene appunto il bello, perché un testo è un sistema e anche le (apparenti) ridondanze vi contribuiscono.
Se un'analisi semplice e spassionata verifica allora che in un testo ci sono parole di cui esso avrebbe potuto fare a meno e il resto, per dire così, è apparentemente giustificato dal tema (o dai fatti), è ipotesi ragionevole che lì, proprio nelle parole in più, si annidi la sua ideologia. Che esse siano quindi tutt'altro che ridondanti, dal momento che con esse viene a galla e si esprime il sistema di pensiero, indiscusso in quanto implicito, che garantisce quel testo e nel quale esso affonda le sue radici. 
Per capire il discorso grammaticale, diventa allora indispensabile capire cosa vi dice "serve". E per capirlo, come si fa nelle buone investigazioni, va anzitutto portato in luce ciò che "serve" tiene nell'ombra, ciò che paradossalmente nasconde. 
C'è da sfrondare anzitutto alcune predicazioni che si annidano sotto le forme del verbo servire. Quelle transitive testimoniate per esempio da Arlecchino serviva due padroni o da In cosa posso servirla? non sono in gioco. La pertinente è sintatticamente intransitiva e la si può glossare, con gradi di appropriatezza variabile, con 'essere necessario, indispensabile, utile, opportuno per ottenere un fine'. È il servire di Serve nulla? o di Serve un po' di silenzio, di Serve più severità, rigore, polizia per le strade, di Servono pene esemplari, dove, come dicono già i semplici esempi, la predicazione compare accompagnata dal suo soggetto ('ciò che serve') e il soggetto fa da rema dell'enunciato. Serve è il "dato", il suo soggetto è il "nuovo" e lo specifica comunicativamente.  
Nel discorso pubblico, spesso, meglio, quasi sempre (viene fatto di dire con un calcolo a occhio) questo servire ricorre in contesti che non saturano tuttavia la sua griglia tematica. Griglia tematica? Niente paura: ci si spiega subito. Infatti, nel discorso privato e nella lingua di tutti i giorni è più frequente che tale griglia sia saturata. In altre parole, accade sovente che intorno a servire ci sia spiattellato tutto il corredo di funzioni sintattiche e di ruoli semantici di cui esso dispone: C'è un chiodo da togliere e mi serve una pinza. Sai dove sta? 
Ecco appunto farsi luce un elemento molto importante di quella griglia e fondamentale per intendere esattamente cosa serve porta con sé, come predicazione. È il ruolo manifestato da mi 'a me', nell'ultimo esempio. In altre parole, il servire qui pertinente, oltre a un soggetto ('ciò che serve'), per dirla con i grammatici e le grammatiche, ha un complemento di termine, interpretabile come un complemento di vantaggio. Un beneficiario, insomma. D'accordo, "serve". Ma "a chi" (e "per fare cosa")?
Come si sa, la lingua è generosa. La lingua "serve" a dire qualcosa, per il senso comune (che, come osservò Alessandro Manzoni, capita sia nemico del buonsenso). Ma, dicendo quel qualcosa, con la sua generosità, la lingua "serve" anche a tacere qualcos'altro. E l'importante complemento di termine del servire in questione, il suo complemento di vantaggio, il beneficiario, conta spesso come quel "qualcos'altro", come ciò che viene (opportunamente) taciuto. In effetti, è tacibile Non c'è l'obbligo di renderlo esplicito. E a che si vuole che serva dire a chi "serve" ciò che "serve"? Talvolta, può persino essere nocivo al discorso (capita che la chiarezza lo sia). 
Infatti, come si osservava, soprattutto per il discorso pubblico, il beneficiario, lo si tace quasi sempre. "Serve". "A chi?" verrebbe fatto di chiedere, quando lo si sente proclamare. Ma si rischia di passare per discoli e per impertinenti. L'attesa di una risposta sarebbe del resto inutile. "Serve" tende insomma all'assoluto. In quel tipo discorsivo, allude quasi sempre al mistero che va sotto la designazione (fantasmatica) di bene comune. Bene comune è un concetto molto prossimo a senso comune e in associazione con il quale interi costrutti socio-culturali sono stati, sono, saranno edificati. S'è mai visto allora qualcosa di più ideologico di ciò che quasi sempre gli enunciati con "serve" non dicono?
Anche tra i capitoli delle grammatiche, con tutti quei perentori "serve", si aggira dunque un fantasma. Si dirà che è un'evanescenza meno inquietante. Vero. Si tratta infatti del fantasma del(la) parlante. Un fantasma che, in versione multipla, diventa, come si sa, la comunità parlante. C'è infatti una curiosa coincidenza tra l'epochè del beneficiario di "serve" e una sua qualsiasi ipostasi qualificata come comune. A cosa serve specificare? È un bene, un senso, un luogo comune. Lo si sa.
Ma, di nuovo, qui viene il bello. Perché a questo punto si capisce come, apparentemente ridondante, "serve" dica invece una cosa importantissima. Dice quale idea della relazione che passa tra (comunità) parlante e lingua hanno grammatici e grammatiche che in questo, va detto, sposano felicemente e confermano il senso comune di profani e profane. Per illustrare di cosa precisamente si tratta, meglio di un reboante discorso, vale forse la similitudine che procura un vecchio e popolare aneddoto. Anzitutto, i protagonisti e l'ambientazione.
Franco Evangelisti (1923-1993) era un uomo politico della Democrazia Cristiana, attivo a Roma e nel Lazio e non solo in quell'area esponente di spicco della corrente andreottiana. Gaetano Caltagirone (1929-2010) era un imprenditore romano del settore edile (vulgo, palazzinaro, ma non di piccolo calibro). I due furono sodali, nel condiviso scorcio della seconda metà del Ventesimo secolo. 
S'era appunto agli inizi degli anni Ottanta e una volta, con lo schietto e sfrontato cinismo allora di tanto in tanto affiorante nel ceto politico, Evangelisti fece una scandalosa confidenza a un giornalista (in séguito, ne pagò il fio). Gli rivelò che, ogni volta che gli capitava di telefonare a Caltagirone, ad apertura di conversazione, questi regolarmente gli chiedeva: "A Fra', che te serve?". 
Grosso modo, è il modello di relazione che profani e profane e un numero tutt'altro che trascurabile di specialisti e specialiste (grammatici e grammatiche in testa) immaginano viga appunto tra lingua e parlante. Parlante, nel ruolo di Evangelisti. Lingua, in quello di Caltagirone. 
Urge nel(la) parlante l'esigenza di esprimere o (come si pensa e si dice più di frequente) di comunicare qualcosa? Per ottenere quanto "serve", chiama illico et immediate la lingua. Usa a ricevere appelli, ancor prima di conoscere la richiesta specifica e per risparmiare tempo, la lingua risponde interrogativa: "A parla', che te serve?". Udita l'istanza e generalmente disponibile (come pare fosse Caltagirone con Evangelisti), la lingua procura al(la) parlante il necessario, quanto "serve": un aggettivo, un avverbio, un nome e ogni altro genere di risorsa. 
Tutto accade ovviamente in un foro istantaneo e interiore. Con buona pace di quel pover'uomo di Émile Benveniste che, come in questo diario si è ricordato ora è qualche anno, provò a dire in proposito una parola di buonsenso. Ma, di nuovo, a che "serve" il buonsenso e, soprattutto, cosa può mai contro il senso comune?

7 agosto 2025

A frusto a frusto (144)

 

È tutta anacronistica dunque l'intelligenza? Forse no, ma solo quando è anacronistica, sempre che abbia la stoffa per esserlo, è univocamente distinguibile come intelligenza.

3 agosto 2025

C'è "maestro" e "maestro": Leonardo Sciascia, proprio, e Andrea Camilleri, figurato

Di Andrea Camilleri, nell'anno in corso, si celebra il centenario dalla nascita. È superfluo ricordarlo qui. Ispirate e sostenute da ragioni commerciali ed economiche (ci si intenda, comprensibili, se non etimologicamente plausibili e perfino lodevoli), la quantità di manifestazioni, di celebrazioni, di iniziative editoriali e giornalistiche che prendono spunto e amplificano la ricorrenza dice che, per la nazione di espressione italiana, il centenario camilleriano è il massimo avvenimento culturale del 2025. E qualcosa questo vorrà dire, per la nazione di espressione italiana. 
Non c'è d'altra parte da stupirsene. Da una prospettiva socioculturale, Andrea Camilleri - tanto lo scrittore, quanto la "pirsona" - è stato e (a quanto pare) continua a essere uno sfaccettato fenomeno nazionale. 
In proposito, Apollonio rinvia alle sortite del suo alter ego, ordinate da una modesta prospettiva linguistica. Ha ormai un quarto di secolo la prima, spontanea; tutte le successive sono state invece sollecitate - e pare, fino a un certo momento, per suggerimento di Camilleri medesimo: ammirevole consapevolezza o semplice equivoco? Poco importa.
A dare un pretesto al presente frustolo è, in effetti e come al solito, un marginale dettaglio. Nel grande clamore del centenario, spesseggiano infatti le occasioni in cui la menzione di Camilleri è accompagnata da un nome comune, con funzione di apposizione: maestro. Nello scritto, quasi regolarmente, con iniziale maiuscola; nell'orale, con l'enfasi opportuna e in ogni caso, come figurato titolo onorifico. Andrea Camilleri non è più insomma Andrea Camilleri, ma spesso e volentieri il Maestro o il maestro Andrea Camilleri
Perfino il maggiore quotidiano nazionale, con sede milanese, lo menziona così in una campagna pubblicitaria corrente. Ha infatti acquistato dal fortunato editore siciliano i diritti per la ripubblicazione settimanale della parte dell'opera camilleriana che ha il commissario Montalbano come protagonista. Certo condotte prima del lancio dell'iniziativa, le indagini di mercato hanno evidentemente decretato che il relativo bacino ideale di lettori e di lettrici non è ancora integralmente saturo e, in modo complementare, che di Camilleri non ce ne sarà mai a sufficienza. O ritualmente, che vale la pena che se ne faccia un'iterata menzione, come fosse un'orazione: ...ora pro nobis.
Anche qui, ci si intenda. Nulla che confligga con l'ethos nazionale: l'enfasi e la ridondanza (dei titoli) ne sono un tratto tradizionale. L'Italia del ventunesimo secolo è appropriata continuazione di quella degli ultimi secoli (c'è bisogno di prove?). Caso mai differente solo perché adesso è demograficamente estenuata. E in Italia maestro (con eventuale maiuscola) è titolo d'onore consueto. A chi cercasse conferme, Apollonio può subito fornire un opportuno indirizzo bibliografico.
Si appresta infatti a compiere venti anni Venerati maestri di Edmondo Berselli. "Il compianto Edmondo Berselli" avrebbe potuto scrivere Apollonio, se avesse voluto alludere, per gustosa mise en abîme, all'eventualità di fare anche di Berselli "un venerato maestro", al pari di quel che, per il libro, sono ironicamente i suoi personaggi: da Battiato a Eco, da Bobbio a Scalfari, da Asor Rosa a Calasso e molti altri, ancora attivi e che non vale quindi la pena di menzionare. Sono infatti "tra noi" e la loro maestria, in tutte le relative arti e i relativi mestieri, è riconoscibile e in pieno esercizio.
Tra Porto Empedocle e Racalmuto non sono però nemmeno cinquanta chilometri e, come nuovo cliché del discorso pubblico, sentire dare del maestro a Camilleri, che maestro per mestiere non era, ma che lo è divenuto per titolo d'onore, suscita in Apollonio un'associazione contrastiva. Essa gli pare rivelatrice e come tale è qui proposta ai suoi benevoli lettori. 
A Racalmuto (o a Regalpetra, recita il titolo di un libro, sul fondamento di una toponomastica fantastica ma trasparente), la letteratura nazionale contò in effetti un maestro, propriamente e con iniziale minuscola: Leonardo Sciascia. 
Attenzione: non c'è testimone né evento della vita di Sciascia che non dica che egli cercò, riuscendovi, di sottrarsi agli aspetti materiali connessi con tale qualificazione professionale. Aspirando a quelli morali che si correlano al passaggio da proprio a figurato e da minuscola a maiuscola? Forse. 
Ammesso l'aspirazione ci fosse, lo sforzo fu tuttavia vano. Morì, il (propriamente) maestro Leonardo Sciascia, senza maiuscola e senza passare appunto da maestro proprio a maestro figurato. Probabilmente morì anche non ignaro che, per conseguire tale passaggio, è socialmente necessario non si spiaccia a nessuno. Un'attitudine che non era proprio tra le sue. 
"Maestro", per figura (e con maiuscola), non è infatti titolo che si acquisisce dedicandosi, a torto o a ragione, al contropelo. E, quanto all'opera cui ci si consacra, non è la sua qualità a essere pertinente in proposito, quanto il suo conformismo rispetto allo spirito del tempo e del luogo che conferiscono l'onore (scrivere "la sua conformità" sarebbe stato un eufemismo).
Sciascia era un maestro elementare. E cosa avrebbe potuto e dovuto fare, un maestro scrittore, se non scrivere in italiano, nella lingua della nazione? Lo faceva però da vero e proprio anti-italiano, almeno nelle sue aperte intenzioni e, va detto, con qualche felice esito (felice, si intende, per il lettore e per la letteratura). 
Camilleri, maestro non era. Lo è diventato per figura. Come? Facendo sembiante di scrivere in una lingua tutta sua e, programmaticamente, non in quella della nazione. Una trovata ben riuscita, da abile "tragediaturi", che, con i sali e le spezie di una prosa apparentemente personale, ha dato non solo sostanza, ma anche e forse principalmente forma a un'opera arci-italiana. 
Essa ha in effetti incontrato in tal modo un pubblico bramoso di conferme e di ovvietà, tanto meglio se sapide e aromatizzate, che l'ha immediatamente riconosciuta come sua. Giustamente dubbioso, sulle prime, della efficacia dell'operazione, Camilleri vide via via crescere intorno a sé e alla sua opera plauso e consenso. Con stupore, da uomo intelligente, comprese che l'Italia stava trovando in lui ciò che le mancava da qualche tempo: un interprete ideale o, come si diceva un tempo, un vate. 
Presentarsi a quel punto "in pirsona" come arci-italiano, per Andrea Camilleri fu quasi obbligatorio, oltre che naturalissimo, perché probabilmente conforme alla sua indole. Creò così, di se stesso, un personaggio forse meglio riuscito del celebrato e arci-italiano Salvo Montalbano e, a dire il vero, come oggi si ha modo di verificare, persino più celebrato. 
E come arci-italiano, nei riti in memoria, egli oggi viene appunto offerto: un maestro santo o, se si preferisce, un santo maestro. Soprattutto nell'animo di coloro che leggono (e, si direbbe, pour cause), l'Italia clericale e bisognosa di culti non è sparita solo perché le chiese sono via via sempre più deserte e sono sparite sezioni e cellule di partito.
E così, la nazione celebra "il maestro Andrea Camilleri", specchiandosi, divertita, soddisfatta e per intero nella sua Vigata paradialettale. Quanto le sarebbe costato invece e ancora le costerebbe farlo, si osservi, in italiano, nelle crude "B.", "C.", "S." in cui si svolge Il giorno della civetta o nella cittadina senza nome che fa da truce sfondo ad A ciascuno il suo? E non è senza valore questo stridente contrasto onomastico, ma se ne ragionerà eventualmente altrove.
L'Italia è in effetti (una) Vigata e tale, con il suo Camilleri in primo piano, preferisce restare. 
Un'ovvietà, si dirà. Un topos e un esito scontato: unicuique suum. E cosa si voleva ci fosse sotto l'osservata, banale differenza linguistica tra una figura, "il maestro Andrea Camilleri", e un uso proprio, "il maestro Leonardo Sciascia"? Non c'è partita: stravince la figura. E, dal Gottardo a Lampedusa, farci è sempre più efficace e redditizio di esserci. 

31 luglio 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (44): Senza ironia

Non aprire bocca né scrivere un rigo senza ironia e, con un sorriso ironico, non prestare fede né dare considerazione a chiunque lo fa senza ironia.

26 luglio 2025

Lingua loro (51): "...e soprattutto i fragili..."

È il cuore dell'estate. Fa caldo e ricorrono stucchevoli nel discorso pubblico i (lapalissiani) consigli sopra i modi di fronteggiare gli effetti fastidiosi e ancor più i nocivi di temperature così alte. 
Nella modernità putrefatta, è d'altra parte la funzione fàtica a caratterizzare un discorso pubblico tematicamente colmo di ovvietà, di moraleggiamenti e di buone intenzioni. E gente accreditata da titoli e cariche vi si presta regolarmente ad enunciare sul tema, con aria seria e compunta, correlate insulsaggini. Si qualifica così come imbonitrice e dà non troppo implicitamente del rimbambito al destinatario ideale della comunicazione: "...indossi capi leggeri... non vada a spasso quando il sole picchia più forte..." e così via. Già.
Riuscire a trovare motivi di interesse anche in tali piattezze è tuttavia la fortuna (o la condanna) di quel particolare e perenne tipo di sciocco che ha curiosità per l'espressione. A prescindere dalla presenza e dalla sostanza di qualsivoglia luna, egli guarda sempre il dito che pretenderebbe di indicargliela. In altre parole, non è un referenzialista, per dirla invece come nobilmente si fa tra i filosofi del linguaggio, ma, come i medesimi difficilmente intendono, resta accanitamente un realista: cosa c'è infatti di più reale e di più prossimo all'esperienza di un dito, di un discorso, di un testo? La luna no di certo.
"...e soprattutto i fragili..." recitano allora quegli ammonimenti, per qualificare coloro che ne sono i più specifici soggetti e, al tempo stesso, oggetti. E c'è un valore figurato dell'aggettivo alla base di una nominalizzazione che ha ormai un valore sociologico. Il suo uso ossessivo, più ancora che iterato (era infatti corrente anche nel periodo della da poco trascorsa epidemia) sta d'altra parte contribuendo a spegnere la metafora. 
Fragile, nella gioventù e nel ricordo di Apollonio, ricorreva infatti d'elezione sopra i voluminosi colli con cui si trasportavano merci la cui integrità poteva essere messa in pericolo dal movimento o nelle raccomandazioni rivolte a chi s'avvicinava senza la necessaria attenzione alle vetrine della cristalleria.
Non che fragile non qualificasse, talvolta, anche esseri umani. Lo faceva infatti da secoli, ma, come attributo o come predicato, l'uso era appunto tenuto come metaforico e proprio per questo adatto alla parola letteraria e alla poesia. Fragile è voce dotta. Tale la si definisce in linguistica, perché formalmente e prosodicamente integra e tirata fuori dal latino più o meno come vi suonava. Ha però un fratello povero e sincopato, sospettabile inoltre di qualche antica relazione oltralpe, quindi eminentemente poetico: frale.  
Quando si menziona la poesia, anche a proposito di fragile riferito a un essere umano, s'intende anche quella alla buona. Un esempio? Drupi, un interprete qualificato commercialmente da una qualche rudezza vocale, cantava per esempio "Così piccola e fragile...". L'antifrastica isotopia tra enunciatore ed enunciato ha adesso un cinquantennio: erano veramente altri tempi.
Oggi ci sono invece "i fragili", come categoria sociale, ma "un fragile" o "una fragile" suonano leggermente stranianti. Ciò dice di una resistenza della figura in ogni caso soggiacente. Forse, non è ancora fredda al punto giusto. Accadrà. Anzi, Apollonio non esclude che per qualcuno, soprattutto nel registro burocratico, non sia già accaduto e che i suoi due lettori non gliene procurino graziosamente un esempio.
L'osservazione serve al contempo a mostrare come il numero, categoria grammaticale meno delicata di quanto oggi non venga considerato per esempio il genere, abbia una sua portata ideologica, per niente trascurabile, nelle società coerenti e alimentate dalla comunicazione di massa. Fragili, nel mucchio, lo si è più facilmente di quanto non lo si sia singolarmente: succede sempre e con qualsiasi qualificazione, anche con le positive. 
Dannata lingua! Dice sempre tutto e non nasconde proprio nulla. Ma pare sia fatta per questo.

[L'appello di Apollonio ha avuto un'immediata risposta. I lettori di questo diario sono due, ma la loro qualità è inversamente proporzionale alla loro quantità e uno di essi ha segnalato immediatamente all'alter ego una ricorrenza di "un fragile", in cui la qualificazione è autoattribuita: e pour cause, si può commentare, anche fuori del registro burocratico. È un dato prezioso e lo si trova qui: dice di una sensibilità alla tendenza di comprensibile pateticità e mostra come  fragile si riscaldi, appena lo si tira fuori, al singolare, dalla fredda categoria.]

Passato qualche giorno, d'Oltralpe, un secondo prezioso lettore procura ad Apollonio, sempre con mediazione dell'alter ego, una stagionata e divertente testimonianza di un fragile canoro. Il clima estivo ne incoraggia qui l'ironica ripresa. Altra lampante prova che, di questo diario, come fenomeno comunicativo, il meglio, quasi sempre implicito, sta appunto in chi lo legge:




21 luglio 2025

Dati di fatta (1): "disfò", a bordo della "Nave di Teseo"

"Gli askari marciavano scalzi e in perfetto ordine. L'ufficiale girò nello spiazzo e si fermò di fronte all'emporio, imitato dai soldati. A quel punto, la colonna si disfò come una collana di perle cui fosse stato tagliato il filo": si legge così sul finire di Paradiso, romanzo di Abdulrazak Gurnah pubblicato anni fa in traduzione italiana da "La nave di Teseo". L'alter ego di Apollonio si è trovato a doverlo leggere, per uno dei suoi rarissimi impegni sociali, e ne ha preso in prestito per un paio di settimane una copia digitale dalla piattaforma mlol.
Nel passo, come si è visto, ricorre la forma disfò, voce del verbo disfare. Nel contesto di ricorrenza, quanto ad analisi grammaticale, a tale forma vanno di necessità attribuiti i seguenti valori: modo, indicativo; tempo, passato remoto; persona, terza; numero, singolare. 
Per il traduttore Alberto Pezzotta e per la redazione della casa editrice, che ha a suo tempo licenziato la pubblicazione, disfò è dunque la terza persona singolare del passato remoto di disfare. Nello stesso passaggio, girò è d'altronde la terza persona singolare del passato remoto di girare e fermò è la terza persona singolare del passato remoto di fermare. E, se si vuole aggiungere un ulteriore esempio di fantasia, defecò è la terza persona singolare del passato remoto di defecare. Apollonio chiede venia: alla ricerca di qualcosa che fosse all'altezza di quel disfò, l'isotopia gli è sorta spontanea e non è riuscito a bloccarla; sotto spiegherà il perché.  
Evitino tuttavia i due lettori di questo diario di stracciarsi le vesti. E non gridino allo scandalo. Ci si intenda, avrebbero ragione di farlo. La terza persona singolare del passato remoto di disfare suona infatti disfece, correttamente. E tale la si vorrebbe ancora incontrare nella stampa di un libro pubblicato da tanta casa editrice, "all'atto fondativo" della quale "è indissolubilmente legata la figura di Umberto Eco", proclama con alterigia la sezione Chi siamo del suo sito. "Mica pizza e fichi!", si dice in circostanze simili a Roma. Ma il vascello, come si sa, è ancorato a Milano. 
Disfare si coniuga in effetti come il verbo semplice, fare, da cui è ottenuto per aggiunta di un prefisso. Perciò, se fece, disfece; se faceva, disfaceva. E non disfava, per esempio, visto che il legume - o altro metaforico - proprio non c'entra. 
Attenzione, associabile a disfare, esiste anche un disfò: è la prima persona del presente indicativo e, in bocca toscana, corrisponde a ciò che, altrove, suona disfaccio o, per un andazzo che è andato crescendo, a disfo. "Disfo il letto", "Disfo le valigie" sono infatti ormai e da lungo tempo comuni. E da lì, a cascata, disfi, disfa, disfiamo, disfano sono forme che circolano brade e nessuno può più fermarle. Ne soffrono disfai, disfà, disfacciamo, disfanno. Solo punto di contatto, la seconda plurale, disfate, presente nell'uso e conforme alla norma. Come spesso accade, allora, né tutto corretto né tutto scorretto: quel guazzabuglio che finisce sempre per muovere le lingue (e il mondo). 
Certo che però, pur arrendendosi a disfo, un disfò, terza persona singolare del passato remoto di disfare, resta ancora raccapricciante, anche per chi sa che, ineluttabilmente, le lingue cambiano e che dovrà rassegnarsi. Infatti, consapevolmente o no, con il suo grande nume tutelare "La nave di Teseo" ormai l'"ha sdoganato" (non si dice così, tra coloro che sanno come si dice?). 
Lagnarsi quindi a qual pro? La fatta sta lì (ecco chiarita la sommessa scatologia). Rappresa sulla pagina di quel libro, olezza e la decora. È un dato, come lo era appunto una fatta per chi praticava l'attività ancestrale che, in tempi più seri dei presenti, consentì all'umanità di sopravvivere e di prosperare. E sopra un dato, anche quando tale dato è una fatta, non ha senso disperarsi. 
Una volta che lo si è colto (magari turandosi il naso), se se ne è capaci, lo si descrive e se ne trae partito, discettando di regolarità e irregolarità, di analogia e diacronia, di marcatezza e produttività, di Junggrammatiker e Ferdinand de Saussure. Ma di ciò, caso mai, un'altra volta.

18 luglio 2025

Linguistica da strapazzo (56): "Ma vai da..."


...Conad!" è da qualche mese l'innovativo motto con cui la grande catena di distribuzione si presenta nella comunicazione pubblicitaria e, conseguentemente, sul mercato. La campagna presenta l'ampliamento dell'offerta commerciale. Sotto il suo consolidato brand, Conad distribuisce e vende adesso anche prodotti, come le assicurazioni o i viaggi, ben diversi, come categoria merceologica, da fragole e salsicce, da detersivi e assorbenti. Lo sviluppo avrà certamente un nome e una definizione, nella scienza del marketing, ma Apollonio non li conosce e spera che la descrizione appena procuratane sia bastevole. È un'innovazione conservatrice, dunque: e, quanto alla lingua, un'innovazione conservatrice, per via dell'imperativo, è anche quel "Ma vai da Conad!" . 
L'imperativo e la soggiacente funzione conativa - diranno i due esperti lettori di Apollonio - sono ovvietà nella réclame. Ciò a cui essa mira è infatti che il destinatario o la destinataria si comporti di conseguenza e compri. Ci si faccia caso, però: il perentorio indirizzo è quasi sempre mascherato ormai da gran tempo da altre funzioni. Il messaggio pubblicitario è infatti di norma un buon esempio di un atto linguistico indiretto. Come lo è, per fare esempi neutri e quotidiani, quello di uscirsene con un "Fa freddo!" in presenza di chi si sa può chiudere una finestra o di esclamare "Ho fame", come si faceva da ragazzi e ragazze, chiudendo la porta della casa dei genitori, di ritorno dall'oratorio o dalla riunione del collettivo. 
"La spesa intelligente", proclama in effetti da tempo una società concorrente della Conad. "La Coop sei tu" è l'immarcescibile divisa di un'altra (anni fa, con un contorno, Apollonio se ne occupò qui). "Buona spesa, Italia" augura un più modesto attore sul mercato. "CRAI, nel cuore dell'Italia" è il modo di presentarsi di un'azienda che rivendica il suo radicamento nazionale. "Esselunga, prezzi corti", dichiarava un tempo l'azienda che di recente, presa la via dell'etica, ha tentato anche l'antifrasi: "È importante anche la spesa che non fai". E Conad medesima, prima del mutamento: "Persone oltre le cose".
Entrando pesantemente sulla piazza italiana, anni fa, LIDL aveva tuttavia già smosso le acque, con due imperativi, uno negativo, l'altro no: "Non cambiare stile di vita. Cambia supermercato". Il gioco fu forse redditizio sulle prime, ma, come è lampante per inferenza, aveva funzionato in ogni caso come paradossale conferma del profilo dell'azienda e fu del resto rapidamente abbandonato. Al bersaglio socialmente medio-basso, se non basso tout court (quindi assuefatto, per dire così, a essere destinatario di ordini), chi adottò quella campagna aveva in effetti mirato ad aggiungere coloro che l'endemica crisi economica nazionale aveva fatto (e continua appunto a fare) andare in giù. Poco, insomma, da stare allegri. Ma si sa, capita siano così i Tedeschi: come il loro mitico eroe nazionale, inclini all'euforia tanto quanto alla disforia. 
Non è ovviamente di tal fatta il target, tendenzialmente interclassista e italiano in ispirito, cui la rinomata agenzia Ogilvy indirizza oggi la comunicazione, al contrario euforica o perlomeno sorridente, della Cooperativa Nazionale Dettaglianti (è questa, si diceva un tempo, d'ispirazione ideale e sociale bianca, contrapposta dunque alla rossa della Coop, la ragione sociale che si cela dietro l'acronimo).
L'imperativo fu in effetti tipico delle pubblicità di un lontano passato, come della propaganda politica, allora e nel séguito ("Vota comunista"), anch'essa ormai perenta. Residuo ineliminabile di ingenua verità espressiva, l'imperativo permane nelle campagne promozionali "fai-da-te" di aziende dal respiro provinciale. Quando si affaccia, come talvolta si affaccia nella comunicazione nazionale e di livello della grande distribuzione o di altro, deve farlo in grande spolvero e opportunamente abbigliato. Nel caso specifico, per cominciare, lo introduce infatti un ma
Si tratta della congiunzione avversativa per eccellenza, dicono le grammatiche, e se ne potrebbe concludere che, come in molti altri casi, la terminologia delle grammatiche è inconcludente. Considerato che compare come incipit, cosa mai congiungerebbe ma? Congiunge, tuttavia.
Del ma in incipit e no, Apollonio Discolo e il suo alter ego si sono già dilettati altre volte (qui, per esempio, e qui e qui). Non tedieranno ancora chi legge con ulteriori speculazioni. Nell'occasione, l'invito è solo a valutare, ciascuno e ciascuna nel suo foro interiore, la differenza, espressiva e comunicativa, che passa appunto tra "Ma vai da Conad!" e un "Vai da Conad!" ipoteticamente privo di ma. Facendo così avrà fatto ciò che, con il suo modesto metodo, fa un linguista che tiene ancora Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson come guide del suo cauto procedere e del suo ipotetico ragionamento. In altre parole, una commutazione sperimentale che, senza dire altro e senza speculare, mostra all'intuizione come una cosa sarebbe stato un imperativo in purezza e una cosa ben diversa è un imperativo introdotto da ma. Per dirla alla buona, da un ordine sgraziato si passa, chissà come, chissà perché, a un acuto consiglio: potenza di un minuscolo ma.
Ma non è tutto e adesso viene il bello. L'enunciatore di un messaggio pubblicitario è ovviamente il committente, cioè l'azienda che ha commissionato la campagna. Nel caso specifico, Conad vuole che destinatari e destinatari del suo messaggio si facciano frequentatori dei suoi punti vendita fisici e, adesso, virtuali e vi facciano ciò che in essi di norma si fa: spendere il proprio danaro. Nei fatti e dal punto di vista perlocutivo, enunciata da Conad, la campagna dice dunque "Vieni da Conad!". 
Non lo dice così però. Se lo facesse, si sarebbe di fronte a una banale deissi personale: venire definisce infatti il moto verso il luogo in cui si trova chi enuncia: Vieni (qui), per esempio. Andare no: Vai là dice chi enuncia dichiarandosi così localmente estraneo al luogo di destinazione. Un Vai qui, ci si pensi, suona contraddittorio: ed ecco di nuovo il mestiere del linguista, che deve essere capace di immaginare mondi bislacchi e correlate espressioni. A dire la stoffa di ciò che è endossale niente del resto lavora meglio di un paradosso. Venire e andare, verbi di moto, stanno insomma in un rivelatore rapporto associativo, come avrebbe detto Saussure, prima che Hjelmslev blindasse la nozione sotto l'etichetta di paradigmatico, felice ma forse meno plastica.
Si è così alla vera agudeza del motto: il controllato straniamento della persona (e della correlata deissi). Grazie a esso e ad andare, l'imperativo diventa infatti la battuta di una narrazione o, ancora meglio, di una fulminea commedia. Sulla scena, a parlare e a proferire l'imperativo non è Conad, la prima persona dell'enunciazione complessiva, ma, per costruzione enunciativa ulteriore, un personaggio. E la terza persona rende il discorso fattuale, oggettivo. Farebbe la stessa cosa un testimonial, ma, nel caso specifico e grazie alla lingua, si tratta di un testimonial teatrale, di fantasia, e non è quindi necessario remunerarlo con un lauto compenso.
"Ma vai da Conad!", come punta di lancia, ha dato vita a una nutrita batteria di annunci destinati al pubblico televisivo e specifici per i diversi contenuti. Se Apollonio non ricorda male, nel primo a venire fuori, parecchi mesi or sono, a proferire il motto, indirizzandolo a una paziente distesa sul lettino e dubbiosa sopra cosa fosse conveniente per lei, era uno psicoanalista (o, forse, uno psicanalista: sottigliezze qui irrilevanti): un quadro di lampante chiarezza, da ogni punto di vista, incluso il sociale. Più semiologicamente pregnante, a parere di Apollonio, è però quello scelto a illustrare questo frustolo. 
Due maturi giovani, un uomo e una donna, in viaggio, procedono trascinando le loro valigie in una pianura in cui, sulle prime, pare non esserci, fuori di loro, anima viva. Le battute che si scambiano non qualificano lui come particolarmente sveglio e dicono lei più che vagamente intollerante della di lui sdolcinata storditaggine. Questo è del resto un quadro ideale dell'odierno rapporto tra le persone cisgender e, vuoi o non vuoi, in Italia, una grande catena di distribuzione ha nelle donne il suo target d'elezione: guai a inacidirsele. 
Ma cambia d'improvviso inquadratura e, come dal nulla, compare miracolosamente davanti ai due un piccolo gregge e un uomo anziano e dimesso che, vicino a uno scalcagnato pick-up carico di fieno, uditi proteste e propositi della giovane, le lancia appunto l'inopinato "Viaggio? Ma vai da Conad!". Una pecora alza allora il capo, mentre il Buon Pastore indica ai due, telefono alla mano, la Via (e forse anche la Verità e la Vita, visto che, di rincalzo e in chiusura, afferma di avere anche assicurato la casa). Innovazione, sì. Ma, lo si precisava, nella parola mediata di cooperative che un tempo si sarebbero appunto dette bianche, per contrastarle con le rosse, innovazione conservatrice dei tratti profondi di una nazione probabilmente ormai incapace di riconoscerli e persino di riconoscersi.

13 luglio 2025

Semplicità linguistica del giudizio letterario


Il criterio di giudizio, quanto alle lettere, è semplice e valido per ogni tempo. Lodevole, fino alla grandezza, è chi, avuta in prestito una lingua, come capita a chiunque, la restituisce migliore. Decoroso è chi la conserva nello stato di dignità in cui l'ha ricevuta. Spregevole, fino all'infamia, è chi, per vanità e interesse, ne fa strame, né l'esserne inconsapevole, come succede spesso, vale in proposito come attenuante.

11 luglio 2025

Linguistica da strapazzo (55): Io, l'io e la stimata memoria di Goffredo Fofi

Muore Goffredo Fofi e non è necessario che Apollonio ricordi ai suoi due lettori chi fosse né che se ne dichiari dispiaciuto. Come dispiaciuto è il suo alter ego, fosse solo per la scomparsa di uno stabile protagonista della scena culturale di cui, ormai da quasi cinque dozzine di anni, è stato curioso spettatore. 
In una rete sociale, un importante editore commemora dunque la figura di Fofi con una foto e una citazione. Della seconda, Apollonio non può farsi garante, ma l'autorevolezza di chi se ne serve, pure se in una sede dove l'autenticità latita spesso, induce a ritenere che la si possa tenere come degna di fede.
E non soltanto come autentica, ma anche come ben trovata, da un punto di vista linguistico, atta com'è a illustrare una sorta di corto circuito, frequente in certe argomentazioni intellettuali. 
"...ho imparato... ero bambino... ho imparata... ho visto e sofferto...": è una prima persona grammaticale che rivendica puntigliosamente, c'è da dire, l'acquisita consapevolezza del fatto "che l'io è un impiccio" e che "la centralità dell'io è una truffa" (questa seconda asserzione è ancora più dogmaticamente antifrastica, considerata la premessa). Come si sa, la lingua è divina, ma è anche diabolica e permette simili piroette. 
Con "io" qui s'intende la funzione enunciativa, rappresentata superficialmente dal pronome personale (io), ma anche, come s'è visto, da una desinenza verbale, da un aggettivo o da un pronome possessivo (mio), da un deittico come qui, ora e così via. 
Ebbene, per ottenere l'effetto, basta prendere "io" come funzione e proiettarne il rappresentante superficiale per eccellenza, cioè il pronome io, come nome. Se ne fa così una terza persona che, come nome, si dota di un articolo. Il gioco è fatto: nasce l'io
E di questo singolare oggetto (o concetto: non fa differenza) è possibile dire, oggettivandolo, tutto il male (o tutto il bene) che si vuole. Se ne può fare tema di discorso, obliterando la circostanza che, al fondo di un processo siffatto, come diceva Benveniste, c'è invece la soggettività o, come si è sforzato di dimostrare l'alter ego di Apollonio, la sua inderogabile singolarità. In barba a qualsiasi "gruppo".
Intere dottrine e complesse discipline hanno profittato e profittano di questa prestidigitazione, in realtà molto modesta e alla portata di chiunque: l'io pullula infatti nella chiacchiera quotidiana. Del resto è soltanto una tra le mille e mille consentite dalla funzione metalinguistica. E la funzione metalinguistica è stata ed è ancora molto sottovalutata, ritiene Apollonio, anche nelle teorie e nelle descrizioni linguistiche che si sono pretese e si pretendono scientifiche. 
Che, di passaggio, anche Goffredo Fofi, come 'io', abbia giocato con l'io non stupisce né altro si vuole qui dire: in faccia alla cruda natura della lingua, l'ideologia, qualsiasi ideologia, anche la migliore, finisce sempre per presentarsi nuda alla meta. Ma, per commemorare degnamente l'intellettuale, tra i suoi detti, qualcosa di meglio si sarebbe forse potuto trovare. O no?   

6 luglio 2025

Séguito del frustolo "Spettatore pagante (10)": dalla catarsi all'autocompiacimento

"Tragedia è [...] mimesi di una azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti [...]; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da siffatte passioni": Manara Valgimigli dà qui voce italiana ad Aristotele che, nella Poetica, fissò una volta per tutte la nozione di catarsi. 
Si può essere anti-aristotelici, ma non si può negare che, in funzione di un'estetica consapevole, questa nozione colga un punto cruciale della fruizione artistica e, quindi, dell'essenza funzionale (cioè di relazione) dell'arte. Succede forse perché, in fin dei conti, la nozione di catarsi concettualizza un dato di base della psicologia umana (ci si perdoni il pleonasmo), oltre che un rito di uno specifico ethos antropologico. Un rito presente nella civiltà greca antica, ancor prima di Aristotele, come prassi per la cura del corpo e dello spirito. 
Ritualmente e effettivamente, la mimesi artistica di ciò che indigna, muove a pietà, fa orrore conduce a una purificazione e a una sublimazione di chi, con intenzione, se ne fa destinatario. Lo si può dire anche aggirando la zavorra (aristotelica) dell'idea di rappresentazione implicita nella nozione di mimesi. Fare esperienza del male per segni (si dica, semiologicamente) secondo i modi di un'arte, quindi grazie a un'azione teatrale, per esempio, è catartico. 
Ma si lasci pure da parte la catarsi, in senso stretto. Si passi a cose meno antiquate. Sulla scena, c'è un tale che, ispirato, ancor più che incoraggiato dalla consorte, accoltella nella notte il capo, ospite a casa sua. Poi, visto che ne vuole prendere il posto, assolda e manda sicari ad assassinare proditoriamente un possibile rivale nella successione e così via. Fino al momento in cui, come gli era stato predetto da certe megere, non vede gli alberi di una foresta venirgli incontro per chiedergliene conto. Un tipaccio, insomma. 
Come lui, proprio non ci si comporta, se si è perbene (anche se un pensierino, talvolta...). Se lo si fa, si è un Macbeth. Nell'umano consorzio, i Macbeth (e signore) non sono mai mancati né mai mancheranno. Attenzione: non c'è tuttavia bisogno che qualcuno spieghi cose simili a chi assiste al relativo spettacolo. E in effetti, non ritenendo stupido il suo pubblico, il Bardo si guardò bene dal farlo, aggiungendo chiose e chiarimenti. È teatro, non è scuola, tanto meno chiesa. 
Scendendo un po' di livello, ma nella stessa vena: chi non ricorda la feroce sparatoria di Taxi Driver di Martin Scorsese? Presente per colmo di abiezione una (attrice) ragazzina. Si dice che la censura fece scolorire il rosso del tanto (finto) sangue che vi scorre, ma niente fervorino finale né sottotitoli a chiarire che non è forse quello un modo commendevole per mettere nei suoi giusti cardini un angolino del mondo che, come fece Amleto con il suo, si giudica, con ragione, poco ammodo, anzi, propriamente stomachevole.
Non sarà catarsi, tecnicamente: filologia e filosofia, concordi, contesterebbero con ragione la spiccia equivalenza. Si dirà che è fiducia nei destinatari e nella loro intelligenza, già matura o sulla strada della maturazione? Basta, in effetti. Perché è precisamente quella che troppo spesso manca ormai quando si mettono su spettacoli e rappresentazioni con intenti artistici, che, come è quasi sempre indispensabile, contano perlomeno un vilain (anche collettivo) e il suo codazzo. 
Si pensa invece sempre più infantile il proprio pubblico, se non per età, certo per spirito. E forse c'è anche (o soprattutto?) il timore di prendersi e di essere presi su quel seriosissimo serio che è ormai attribuito alla più piatta superficie dei segni (parole, immagini, suoni e così via). 
Arriva così una scolastica spiegazione. O forse ancora peggio, arriva, nell'oscurità, come oltre-moderno deus ex machina, il barlume di speranza, "la luce in fondo al tunnel" che, si badi bene, è funzionalmente altra cosa da un fiabesco happy end o da una riparazione miracolosa dell'ordine del mondo. 
La sua destinazione morale non è del resto una purificazione né lo straniamento razionalmente critico del cosiddetto teatro epico. È un'indignazione rabbiosa per il male. Un sentimento che si accompagna, in chi ha assistito e vi ha aderito, al dolciastro autocompiacimento di sentirsi farisaicamente dalla parte del bene.