30 agosto 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (45): Contraddizioni

Non c'è faccetta dell'esperienza umana che non alberghi contraddizioni. C'è chi, col pretesto di consolare e di consolarsene, ne fa una mistica mistificatoria. C'è chi si propone con arroganza di scioglierle, con esiti regolarmente tragici e fallimentari. Provare a esplorarle, come oggetto di conoscenza, invece, senza disperarsene; e sorriderne, anche se lacerano e feriscono, fin quando si può e, se del caso, amaramente. Al di là, tacerne: non riscattate dal sorriso, ne sortiscono solo lamentele come stucchevoli ovvietà.

26 agosto 2025

23 agosto 2025

Linguistica da strapazzo (56): "L'amare": "work in progress" (e Brunori Sas, come pretesto)


Apollonio incrocia in rete questo piccolo testo e, di bocca buona com'è, ne resta divertito. Non tanto per ciò che dice, ma per come prova a dirlo (paronomasia inclusa) e per il corto circuito grammaticale che contiene. Spregiare il sostantivo, come parte del discorso, è operazione di poetica metalinguistica plausibile e persino graziosa. Ma, nel farlo, di sostantivi, l'aforisma ne mette in campo ancora un paio. Sono sostantivati, nel gergo grammaticale, l'amare e il fare, come infiniti. Ricorrono con un articolo determinativo. E la sintassi è perentoria: se c'è articolo, c'è sostantivo. L'infinito sostantivato è risorsa grammaticale e testuale di cui l'italiano si fa bello sin dai suoi esordi e che gli è particolare. Di infiniti sostantivati, ce ne sono di celeberrimi e di costitutivi, si direbbe, dell'identità nazionale: ...e il naufragar m'è dolce in questo mare. L'infinito, appunto, sostantivato. 
Di il fare chi non ricorda inoltre i fasti, sebbene ormai non più recentissimi, nel gergo della politica? "Io sono un uomo del fare..." fu il manifesto personale di una figura pubblica che segnò un ventennio della nazione e la cui memoria sta evidentemente sbiadendo.
Nel discorso, per più scoperta allusione al ruolo dell'agente e allo sviluppo dell'azione, l'infinito sostantivato porta quella nuance processuale che i sostantivi registrati come tali nei dizionari talvolta tendono a oscurare: con naufragio al posto di naufragar, il verso appena citato sarebbe colato a picco. E il fatto, al posto di il fare, porta con sé l'ineluttabile idea di ciò che è compiuto. "Perfetto", si dice sempre nel gergo grammaticale, ma ovviamente non per intendere che si tratti di esito ineccepibile. 
D'altra parte, si può banalmente fare l'amore. Ma fare l'amare, qui esposto come solo eventuale, comporterebbe una buona dose di straniamento (linguistico). Con la lingua, tuttavia, non si sa mai. Provveda il poeta vivente qui evocato, insomma, sempre che ne abbia la voglia, anzi, visto che meglio gli aggrada, il volere. 
Eppure, quanto ad amore, chi direbbe mai che, da sostantivo, non designa in effetti un processo? Vorgangswort, nei termini tassonomici di Hugo Schuchardt. E ciò cui (per polisemia) il sostantivo amore dà nome ha fuor di dubbio principio, sviluppo e, non di rado, se non quasi regolarmente, fine. 
Sostituito al sostantivo l'amore, l'infinito sostantivato suona allora come appropriato a un work in progress e forse aiuta a non pensare che il processo avrà una fine. L'amare è in altre parole un segnale di lavori in corso che ci si immagina e si vorrebbero durevoli per sempre, per uno dei soliti umani paradossi.

20 agosto 2025

Lingua loro (52): "Dato", "fondamentale", "linguaggio", "serve", "principio", "noi", "obiettivo", "al fine di" e tanto altro

"Ma se parliamo di prodotti linguistici, io credo che dovremmo sempre tener presente un dato fondamentale: il linguaggio umano è nato e si è sviluppato perché serviva. Perché era utile. Perché rispondeva a delle necessità. E questo principio continua a essere valido. Non esistono discorsi gratuiti: se prendiamo la parola - anche nella maniera più informale, svagata, istintiva possibile - è perché abbiamo un obiettivo, o più obiettivi. Questo vale per le arringhe in tribunali, per i comizi in piazza, per le telefonate di lavoro, per gli slogan pubblicitari, per le dichiarazioni di amore, per le chiacchiere al bar. Nella più banale delle ipotesi, parliamo del più e del meno, anche con sconosciuti, al fine di alimentare un rapporto interpersonale che serve a definire o preservare il clima umano di un ambiente".
La perentoria espressione di questi concetti è comparsa in rete ieri e, nell'epoca dei motori di ricerca, è ridondante dichiarare dove si trova e a chi la si deve. Chi avesse curiosità in proposito, in pochi secondi può soddisfarla. Vedrà che si tratta di una reputata tribuna e, se non di uno specialista, di un "loico" e letterato. 
Non c'è d'altra parte essere umano che, sulla lingua, non abbia le sue convinzioni (o ciò che crede essere tali) e cui non capiti di esprimerle. A scanso di equivoci, "Grazie al Cielo!" è quanto in proposito pensa un modesto avventuriero nel campo, come Apollonio. Anche per la meravigliosa disponibilità a farsi oggetto del discorso di chiunque, la lingua (al singolare assoluto) è infatti preziosissimo tratto umano di eguaglianza, di fraternità, di libertà. Di lingua (al singolare di una pluralità indefinita), non c'è chi non ne parli (almeno) una. E non c'è chi non si possa esprimere al duplice proposito della lingua al singolare assoluto e di una lingua al singolare di una pluralità indefinita. Lo si fa persino in un diario scombiccherato e cervellotico come questo. E ciò dice come la linguistica (con i suoi succedanei) sia disciplina ben più democratica e popolare della biologia molecolare o della fisica delle particelle.
Qui, dunque, niente di personale. La sola informazione che ad Apollonio pare utile dare in modo esplicito è che il brano in esordio viene da uno scritto che prende a pretesto la prosa di Italo Calvino e sue recenti parodie automatiche. È quanto basta a giustificare la presenza di un'immagine dello scrittore, colto in un'attitudine che a prima vista pare interessata, ma è forse anche perplessa. 
Di certo, a nessuno sarà d'altra parte passata per il capo l'idea che motti così assertivi fossero proprio di Calvino. Per mostruosa metamorfosi, nella mente del signor Palomar i dubbi, gli interrogativi, le esitazioni, il timore di precipitare il proprio pensiero nell'abisso delle conclusioni generiche e affrettate si sarebbero infatti volti integralmente nei modi tassativi di una corriva petizione di "principio", quanto all'espressione umana.
Perché di una petizione di "principio" in effetti si tratta. E di una buona sintesi di ciò che il senso comune non tanto opina, quanto ferreamente postula della lingua (o del "linguaggio", così ci si esprime in "lingua loro"). In quelle righe non c'è in effetti nulla di personale e nulla che possa essere pertanto addebitato personalmente alla voce ("io") che nell'occasione se ne fa semplice riecheggiatrice.
È il bello dei luoghi comuni. Li si può proclamare con leggerezza o (che è lo stesso) per responsabilità universalmente condivisa: il "noi" di "dovremmo" (soprattutto in combinazione con la modalità deontica del predicato) è infatti quel pronome che trovò una precisa definizione in parole di Giorgio Manganelli che qui non si ripetono. E l'argomentazione che poggia sopra un fondamento tanto comune presenta come "dato fondamentale" ciò che è in realtà una congettura molto modesta, anche quanto a contenuto intellettuale. 
E nemmeno una congettura suffragata da osservazioni sperimentali: "il linguaggio umano è nato" (passato prossimo del modo indicativo, il modo della realtà) è infatti una proposizione che a nessun essere umano è stato dato di proferire sulla base di una constatazione. Ancor meno un essere umano può proferire, sulla base di una constatazione, "il linguaggio... si è sviluppato", se intende parlare in tal modo di filogenesi. 
Ma si ipotizzi pure al proposito che l'ontogenesi riassuma la filogenesi. Le osservazioni e gli esiti degli esperimenti finora possibili, quanto alla lingua, non indirizzano a una spiegazione del suo sviluppo ontogenetico nei termini di una "causa finale". Procedere in tal senso è farlo nel modo sopra il quale ironizzò Voltaire, sono già quasi tre secoli: "gli occhi nati e sviluppati per vedere, lo stomaco per digerire" e così via sono ovvietà insuperabilmente insipide.
Ma l'idea, popolarissima, di una causa finale a indirizzare lo sviluppo è invece proprio ciò che prospera rigogliosamente nel séguito del discorso. Vi affiorano predicazioni come "il linguaggio... serviva" (ma a chi?), "era utile" (idem), "rispondeva a delle necessità" (di chi?). Saranno forse "i bisogni" teorizzati da Lamarck. Inutile chiedere tuttavia maggiore precisione o dettagli: sul tema specifico, la risposta invocherà ancora più genericamente adattamento, sopravvivenza e successo della "nostra riverita specie", secondo la qualificazione attribuitale da un pensoso lombardo.
Anche perché, una volta scivolati lungo una simile china, il "linguaggio" e la specie che se ne servirebbe come strumento finiscono per essere un indistinguibile tutt'uno. E non l'intenzione, la Meinung di un soggetto trascendentale, per dirla con Kant e con i suoi sviluppi fenomenologici, ma addirittura "l'obiettivo" di un individuo qualsivoglia di tale specie o di un qualsivoglia gruppo di individui associati diventa la ratio di ogni suo o loro atto espressivo (e comunicativo). Una spiegazione irenica e tranquillizzante.
Insomma, se si capisce cosa vuole (ma come lo si capisce?), si capisce cosa dice. Forse dovrebbe essere però il contrario: se si capisce cosa dice, si capisce cosa vuole. O, meglio e più ragionevolmente, non è né così né al contrario, per evitare il circolo vizioso di tutte le ermeneutiche, anche quando esse si travestono, come nel caso specifico, da pragmatica.
Al diavolo, però, nel caso individuale, le sofisticazioni introdotte dalle distinzioni di "ego", "superego" ed "es". Al diavolo i lapsus, le false partenze, le conclusioni inconcludenti, complessivamente, le erranze e gli errori.  
O, passando al sociale e ai suoi ancora più fumosi e contorti "obiettivi", al diavolo i conflitti, i pregiudizi, le menzogne spacciate per verità, le verità spacciate per menzogne, le lingue che mettono a tacere altre lingue o che ne decretano la morte.
Al diavolo, insomma, il "non sanno ciò che fanno", con cui finalmente espresse la sua opinione in proposito una voce tutt'altro che priva di spirito (giudizio pertinentissimo, se mai ce ne fu uno, proprio rispetto all'espressione umana). Vedi un po' e di conseguenza se (come credono) sono in grado di sapere ciò che vogliono e quali sono i loro "obiettivi"...
Al diavolo, soprattutto, come inesistenti, i "discorsi gratuiti", tanto "gratuiti", tanto privi di "al fine di", da esprimere, si direbbe riflessivamente, un'arte interna alla lingua (di nuovo, al singolare assoluto). 
Non c'è lingua nota (di nuovo, al singolare di una pluralità indefinita) di cui un'arte siffatta, in un modo o nell'altro, non sia stata e non sia secrezione. Spesso, quando il tempo passa, la sola secrezione conservata, mentre all'oblio e al nulla vengono destinati enormi quantità di discorsi la cui esistenza è garantita da presunti "obiettivi" esteriori.
Si tratta dell'arte che, come lingua interiore, germogliò in un Italo Calvino, per esempio. Vai a sapere come mai, come e, soprattutto, con quale "obiettivo". E da lì succhi distillati passarono materialmente per la sua penna e per la sua macchina da scrivere. E così si fecero testo: un sistema processuale. Una pluralità di testi, più precisamente, che, proprio in quanto tali, pongono problemi di accertamento filologico della loro testimonianza. Testimonianze, quelle di un Calvino, tutte ipotetiche, tutte interrogative. Manifestazioni loquaci del mistero della lingua e, al tempo stesso, reticenti, se non proprio mute in proposito. 
Ovvio: la lingua è un mistero per coloro che, evidentemente balenghi, si ostinano a non arrendersi all'evidenza morale e materiale del "principio" che discende da quel "dato fondamentale". Esso rende conto universalmente di cosa sono i "prodotti linguistici". E afferma che "il linguaggio è nato e si è sviluppato perché serve" e che "noi", con esso, nei nostri discorsi mai "gratuiti", perseguiamo "obiettivi". Santa pazienza, ma ci vuole tanto a capirlo?

19 agosto 2025

Trucioli di critica linguistica (26): "Buffet" e "bouffet", coppia minima nel "Gattopardo"

Per designare apparentemente la medesima cosa, nel Gattopardo ci sono due allotropi. Uno graficamente corretto: buffet. E uno no: bouffet. Ha due ricorrenze il primo; ne ha una il secondo. A breve distanza l'una dall'altra, si trovano tutte nella Parte VI del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell'ordine, eccole e, brevemente, ecco i loro contesti di apparizione: 

"«Maria! Maria!» esclamavano perpetuamente quelle povere figliole. «Maria! che bella casa» «Maria! che bell'uomo è il colonnello Pallavicino» «Maria! mi fanno male i piedi!» «Maria! che fame che ho! quando si apre il 'bouffet'?»". 

"[Fabrizio] aspettò un momento che i ragazzi [Tancredi e Angelica] si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala del buffet". 

"Nella sala del buffet, vuota, vi erano soltanto piatti smantellati, bicchieri con un dito di vino che i camerieri bevevano in fretta guardandosi attorno. La luce dell'alba si insinuava dai giunti delle imposte, plebea".

Svista di uno scrittore della domenica, come Lampedusa fu (ed è ancora) considerato? Così pensò forse Giorgio Bassani che corresse bouffet con buffet, nella versione del romanzo che curò e che vinse lo Strega nel 1959. 
Dal 1967 - dopo un polemico intervento in proposito di Carlo Muscetta - si legge però Il Gattopardo in una "edizione conforme al manoscritto del 1957", estremo testimone della volontà dell'autore. Le due grafie, nei luoghi differenti, sono state ripristinate di conseguenza. E, fuori dell'ipotesi che, per una, si tratti di un errore, c'è da chiedersi se la loro differenza abbia una ratio, nel sistema del libro.
La risposta è positiva, come per altri minuscoli dettagli della costruzione linguistica del romanzo. Il realismo del Gattopardo è maniacale. È soprattutto tale quando vi si esprime la sua fondamentale vena sardonica, che, va osservato, finisce per avere sempre tra i suoi bersagli anche il principe di Salina, come personaggio più esposto.
Buffet ricorre pianamente nella narrazione. In una mimesi del discorso diretto e, peraltro, tra virgolette, bouffet rappresenta invece l'esito che il prestito francese buffet ha sulle labbra delle "ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti" che, nel novembre del 1862, riempivano i salotti della nobiltà palermitana. Eccole sulla scena:
 
"Più [Fabrizio] le vedeva e più s'irritava; la sua mente condizionata dalle lunghe solitudini e dai pensieri astratti, finì a un dato momento, mentre passava per una lunga galleria sul [si osservi] pouf centrale della quale si era riunita una numerosa colonia di quelle creature, col procurargli una specie di allucinazione: gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederla a un tratto arrampicarsi sui lampadari e da lì, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola, stridori e digrignamenti sui pacifici visitatori. 
Strano a dirsi fu una sensazione religiosa ad estraniarlo da quella visione zoologica: infatti dal gruppo di bertucce crinolinate si alzava una monotona continua invocazione sacra: «Maria! Maria!» [e quel che segue e si è già citato]. Il nome della Vergine, invocato da quel coro virgineo riempiva la galleria e di nuovo cambiava le scimmiette in donne, perché non risultava ancora che i [si osservi] ouistiti delle foreste brasiliane si fossero convertiti al Cattolicesimo".

Buffet [by'fɛ] e bouffet [bu'fɛ] sono una coppia minima, nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Fuori di ogni semantica referenziale e per via del sistema che sostanzia e sostiene il testo, la differenza di signifiant vi si correla in effetti a una differenza di signifié. E, dalla prospettiva di una critica linguistica, nella langue narrativa del Gattopardo, che non è banalmente l'italiano, /y/ e /u/ sono fonemi. 

14 agosto 2025

Linguistica candida (76): "A Fra', che te serve?"

"L'aggettivo è una parola che serve a modificare semanticamente il nome o un'altra parte del discorso con cui ha un rapporto di dipendenza sintattica e, nella maggior parte dei casi, di concordanza grammaticale". "La preposizione è una parte del discorso che serve a esprimere e determinare i rapporti sintattici tra le varie componenti della frase". "La congiunzione è una parte del discorso invariabile che serve a collegare sintatticamente due o più parole (o gruppi di parole) di una frase, oppure due o più frasi di un periodo". "L'avverbio è una parte del discorso invariabile che serve a modificare, graduare, specificare, determinare il significato della frase". 
Sono lacerti di una buona, anzi di un'ottima grammatica dell'italiano. Lo si dica pure: della migliore. Non ha rilievo dire quale sia, nel caso specifico, né chi sia il grammatico che l'ha dettata. Di ciò che qui si vuole fare osservare si troveranno infatti esempi a bizzeffe in ogni altra simile e di qualità inferiore. Né a scorrere quella cui qui si è fatto rapido ricorso i passi menzionati sono i soli in cui compare "serve". 
Nel discorso dei grammatici e delle grammatiche, il modulo è infatti ben più che corrente. E non c'è niente nella lingua di cui una grammatica non riesca finalmente a dire che "serve", nel modo che s'è visto o con una parafrasi. Tratta dalla medesima fonte, eccone una: "Il nome o sostantivo è una parola che ha la funzione di indicare persone, animali, cose, concetti, fenomeni (ad es. bambino, gatta, martello, giustizia, tuono)"; "ha la funzione di indicare" equivale a "serve a indicare", che gli è pianamente commutabile.
Ma "serve" serve? La domanda non paia provocatoria. Per esperimento, lo si espunga dai passi citati, con gli opportuni aggiustamenti: "L'aggettivo è una parola che modifica semanticamente il nome...", "La preposizione è una parte del discorso che esprime e determina i rapporti...", "La congiunzione è una parte del discorso invariabile che collega sintatticamente...", "L'avverbio è una parte del discorso invariabile che modifica, gradua, specifica...", "Il nome o sostantivo indica persone...". 
Si tolgono "serve" o la sua parafrasi e quei propositi restano descrittivamente equivalenti, qualunque sia il loro valore. C'è più di un sospetto allora che, nel discorso grammaticale, "serve" sia un sussiegoso orpello e che se ne potrebbe fare a meno. Una bizzarria, a prima vista, per un genere testuale, la grammatica, teso in teoria a dire come stanno le cose della lingua e niente altro. Ma qui viene appunto il bello, perché un testo è un sistema e anche le (apparenti) ridondanze vi contribuiscono.
Se un'analisi semplice e spassionata verifica allora che in un testo ci sono parole di cui esso avrebbe potuto fare a meno e il resto, per dire così, è apparentemente giustificato dal tema (o dai fatti), è ipotesi ragionevole che lì, proprio nelle parole in più, si annidi la sua ideologia. Che esse siano quindi tutt'altro che ridondanti, dal momento che con esse viene a galla e si esprime il sistema di pensiero, indiscusso in quanto implicito, che garantisce quel testo e nel quale esso affonda le sue radici. 
Per capire il discorso grammaticale, diventa allora indispensabile capire cosa vi dice "serve". E per capirlo, come si fa nelle buone investigazioni, va anzitutto portato in luce ciò che "serve" tiene nell'ombra, ciò che paradossalmente nasconde. 
C'è da sfrondare anzitutto alcune predicazioni che si annidano sotto le forme del verbo servire. Quelle transitive testimoniate per esempio da Arlecchino serviva due padroni o da In cosa posso servirla? non sono in gioco. La pertinente è sintatticamente intransitiva e la si può glossare, con gradi di appropriatezza variabile, con 'essere necessario, indispensabile, utile, opportuno per ottenere un fine'. È il servire di Serve nulla? o di Serve un po' di silenzio, di Serve più severità, rigore, polizia per le strade, di Servono pene esemplari, dove, come dicono già i semplici esempi, la predicazione compare accompagnata dal suo soggetto ('ciò che serve') e il soggetto fa da rema dell'enunciato. Serve è il "dato", il suo soggetto è il "nuovo" e lo specifica comunicativamente.  
Nel discorso pubblico, spesso, meglio, quasi sempre (viene fatto di dire con un calcolo a occhio) questo servire ricorre in contesti che non saturano tuttavia la sua griglia tematica. Griglia tematica? Niente paura: ci si spiega subito. Infatti, nel discorso privato e nella lingua di tutti i giorni è più frequente che tale griglia sia saturata. In altre parole, accade sovente che intorno a servire ci sia spiattellato tutto il corredo di funzioni sintattiche e di ruoli semantici di cui esso dispone: C'è un chiodo da togliere e mi serve una pinza. Sai dove sta? 
Ecco appunto farsi luce un elemento molto importante di quella griglia e fondamentale per intendere esattamente cosa serve porta con sé, come predicazione. È il ruolo manifestato da mi 'a me', nell'ultimo esempio. In altre parole, il servire qui pertinente, oltre a un soggetto ('ciò che serve'), per dirla con i grammatici e le grammatiche, ha un complemento di termine, interpretabile come un complemento di vantaggio. Un beneficiario, insomma. D'accordo, "serve". Ma "a chi" (e "per fare cosa")?
Come si sa, la lingua è generosa. La lingua "serve" a dire qualcosa, per il senso comune (che, come osservò Alessandro Manzoni, capita sia nemico del buonsenso). Ma, dicendo quel qualcosa, con la sua generosità, la lingua "serve" anche a tacere qualcos'altro. E l'importante complemento di termine del servire in questione, il suo complemento di vantaggio, il beneficiario, conta spesso come quel "qualcos'altro", come ciò che viene (opportunamente) taciuto. In effetti, è tacibile Non c'è l'obbligo di renderlo esplicito. E a che si vuole che serva dire a chi "serve" ciò che "serve"? Talvolta, può persino essere nocivo al discorso (capita che la chiarezza lo sia). 
Infatti, come si osservava, soprattutto per il discorso pubblico, il beneficiario, lo si tace quasi sempre. "Serve". "A chi?" verrebbe fatto di chiedere, quando lo si sente proclamare. Ma si rischia di passare per discoli e per impertinenti. L'attesa di una risposta sarebbe del resto inutile. "Serve" tende insomma all'assoluto. In quel tipo discorsivo, allude quasi sempre al mistero che va sotto la designazione (fantasmatica) di bene comune. Bene comune è un concetto molto prossimo a senso comune e in associazione con il quale interi costrutti socio-culturali sono stati, sono, saranno edificati. S'è mai visto allora qualcosa di più ideologico di ciò che quasi sempre gli enunciati con "serve" non dicono?
Anche tra i capitoli delle grammatiche, con tutti quei perentori "serve", si aggira dunque un fantasma. Si dirà che è un'evanescenza meno inquietante. Vero. Si tratta infatti del fantasma del(la) parlante. Un fantasma che, in versione multipla, diventa, come si sa, la comunità parlante. C'è infatti una curiosa coincidenza tra l'epochè del beneficiario di "serve" e una sua qualsiasi ipostasi qualificata come comune. A cosa serve specificare? È un bene, un senso, un luogo comune. Lo si sa.
Ma, di nuovo, qui viene il bello. Perché a questo punto si capisce come, apparentemente ridondante, "serve" dica invece una cosa importantissima. Dice quale idea della relazione che passa tra (comunità) parlante e lingua hanno grammatici e grammatiche che in questo, va detto, sposano felicemente e confermano il senso comune di profani e profane. Per illustrare di cosa precisamente si tratta, meglio di un reboante discorso, vale forse la similitudine che procura un vecchio e popolare aneddoto. Anzitutto, i protagonisti e l'ambientazione.
Franco Evangelisti (1923-1993) era un uomo politico della Democrazia Cristiana, attivo a Roma e nel Lazio e non solo in quell'area esponente di spicco della corrente andreottiana. Gaetano Caltagirone (1929-2010) era un imprenditore romano del settore edile (vulgo, palazzinaro, ma non di piccolo calibro). I due furono sodali, nel condiviso scorcio della seconda metà del Ventesimo secolo. 
S'era appunto agli inizi degli anni Ottanta e una volta, con lo schietto e sfrontato cinismo allora di tanto in tanto affiorante nel ceto politico, Evangelisti fece una scandalosa confidenza a un giornalista (in séguito, ne pagò il fio). Gli rivelò che, ogni volta che gli capitava di telefonare a Caltagirone, ad apertura di conversazione, questi regolarmente gli chiedeva: "A Fra', che te serve?". 
Grosso modo, è il modello di relazione che profani e profane e un numero tutt'altro che trascurabile di specialisti e specialiste (grammatici e grammatiche in testa) immaginano viga appunto tra lingua e parlante. Parlante, nel ruolo di Evangelisti. Lingua, in quello di Caltagirone. 
Urge nel(la) parlante l'esigenza di esprimere o (come si pensa e si dice più di frequente) di comunicare qualcosa? Per ottenere quanto "serve", chiama illico et immediate la lingua. Usa a ricevere appelli, ancor prima di conoscere la richiesta specifica e per risparmiare tempo, la lingua risponde interrogativa: "A parla', che te serve?". Udita l'istanza e generalmente disponibile (come pare fosse Caltagirone con Evangelisti), la lingua procura al(la) parlante il necessario, quanto "serve": un aggettivo, un avverbio, un nome e ogni altro genere di risorsa. 
Tutto accade ovviamente in un foro istantaneo e interiore. Con buona pace di quel pover'uomo di Émile Benveniste che, come in questo diario si è ricordato ora è qualche anno, provò a dire in proposito una parola di buonsenso. Ma, di nuovo, a che "serve" il buonsenso e, soprattutto, cosa può mai contro il senso comune?

7 agosto 2025

A frusto a frusto (144)

 

È tutta anacronistica dunque l'intelligenza? Forse no, ma solo quando è anacronistica, sempre che abbia la stoffa per esserlo, è univocamente distinguibile come intelligenza.

3 agosto 2025

C'è "maestro" e "maestro": Leonardo Sciascia, proprio, e Andrea Camilleri, figurato

Di Andrea Camilleri, nell'anno in corso, si celebra il centenario dalla nascita. È superfluo ricordarlo qui. Ispirate e sostenute da ragioni commerciali ed economiche (ci si intenda, comprensibili, se non etimologicamente plausibili e perfino lodevoli), la quantità di manifestazioni, di celebrazioni, di iniziative editoriali e giornalistiche che prendono spunto e amplificano la ricorrenza dice che, per la nazione di espressione italiana, il centenario camilleriano è il massimo avvenimento culturale del 2025. E qualcosa questo vorrà dire, per la nazione di espressione italiana. 
Non c'è d'altra parte da stupirsene. Da una prospettiva socioculturale, Andrea Camilleri - tanto lo scrittore, quanto la "pirsona" - è stato e (a quanto pare) continua a essere uno sfaccettato fenomeno nazionale. 
In proposito, Apollonio rinvia alle sortite del suo alter ego, ordinate da una modesta prospettiva linguistica. Ha ormai un quarto di secolo la prima, spontanea; tutte le successive sono state invece sollecitate - e pare, fino a un certo momento, per suggerimento di Camilleri medesimo: ammirevole consapevolezza o semplice equivoco? Poco importa.
A dare un pretesto al presente frustolo è, in effetti e come al solito, un marginale dettaglio. Nel grande clamore del centenario, spesseggiano infatti le occasioni in cui la menzione di Camilleri è accompagnata da un nome comune, con funzione di apposizione: maestro. Nello scritto, quasi regolarmente, con iniziale maiuscola; nell'orale, con l'enfasi opportuna e in ogni caso, come figurato titolo onorifico. Andrea Camilleri non è più insomma Andrea Camilleri, ma spesso e volentieri il Maestro o il maestro Andrea Camilleri
Perfino il maggiore quotidiano nazionale, con sede milanese, lo menziona così in una campagna pubblicitaria corrente. Ha infatti acquistato dal fortunato editore siciliano i diritti per la ripubblicazione settimanale della parte dell'opera camilleriana che ha il commissario Montalbano come protagonista. Certo condotte prima del lancio dell'iniziativa, le indagini di mercato hanno evidentemente decretato che il relativo bacino ideale di lettori e di lettrici non è ancora integralmente saturo e, in modo complementare, che di Camilleri non ce ne sarà mai a sufficienza. O ritualmente, che vale la pena che se ne faccia un'iterata menzione, come fosse un'orazione: ...ora pro nobis.
Anche qui, ci si intenda. Nulla che confligga con l'ethos nazionale: l'enfasi e la ridondanza (dei titoli) ne sono un tratto tradizionale. L'Italia del ventunesimo secolo è appropriata continuazione di quella degli ultimi secoli (c'è bisogno di prove?). Caso mai differente solo perché adesso è demograficamente estenuata. E in Italia maestro (con eventuale maiuscola) è titolo d'onore consueto. A chi cercasse conferme, Apollonio può subito fornire un opportuno indirizzo bibliografico.
Si appresta infatti a compiere venti anni Venerati maestri di Edmondo Berselli. "Il compianto Edmondo Berselli" avrebbe potuto scrivere Apollonio, se avesse voluto alludere, per gustosa mise en abîme, all'eventualità di fare anche di Berselli "un venerato maestro", al pari di quel che, per il libro, sono ironicamente i suoi personaggi: da Battiato a Eco, da Bobbio a Scalfari, da Asor Rosa a Calasso e molti altri, ancora attivi e che non vale quindi la pena di menzionare. Sono infatti "tra noi" e la loro maestria, in tutte le relative arti e i relativi mestieri, è riconoscibile e in pieno esercizio.
Tra Porto Empedocle e Racalmuto non sono però nemmeno cinquanta chilometri e, come nuovo cliché del discorso pubblico, sentire dare del maestro a Camilleri, che maestro per mestiere non era, ma che lo è divenuto per titolo d'onore, suscita in Apollonio un'associazione contrastiva. Essa gli pare rivelatrice e come tale è qui proposta ai suoi benevoli lettori. 
A Racalmuto (o a Regalpetra, recita il titolo di un libro, sul fondamento di una toponomastica fantastica ma trasparente), la letteratura nazionale contò in effetti un maestro, propriamente e con iniziale minuscola: Leonardo Sciascia. 
Attenzione: non c'è testimone né evento della vita di Sciascia che non dica che egli cercò, riuscendovi, di sottrarsi agli aspetti materiali connessi con tale qualificazione professionale. Aspirando a quelli morali che si correlano al passaggio da proprio a figurato e da minuscola a maiuscola? Forse. 
Ammesso l'aspirazione ci fosse, lo sforzo fu tuttavia vano. Morì, il (propriamente) maestro Leonardo Sciascia, senza maiuscola e senza passare appunto da maestro proprio a maestro figurato. Probabilmente morì anche non ignaro che, per conseguire tale passaggio, è socialmente necessario non si spiaccia a nessuno. Un'attitudine che non era proprio tra le sue. 
"Maestro", per figura (e con maiuscola), non è infatti titolo che si acquisisce dedicandosi, a torto o a ragione, al contropelo. E, quanto all'opera cui ci si consacra, non è la sua qualità a essere pertinente in proposito, quanto il suo conformismo rispetto allo spirito del tempo e del luogo che conferiscono l'onore (scrivere "la sua conformità" sarebbe stato un eufemismo).
Sciascia era un maestro elementare. E cosa avrebbe potuto e dovuto fare, un maestro scrittore, se non scrivere in italiano, nella lingua della nazione? Lo faceva però da vero e proprio anti-italiano, almeno nelle sue aperte intenzioni e, va detto, con qualche felice esito (felice, si intende, per il lettore e per la letteratura). 
Camilleri, maestro non era. Lo è diventato per figura. Come? Facendo sembiante di scrivere in una lingua tutta sua e, programmaticamente, non in quella della nazione. Una trovata ben riuscita, da abile "tragediaturi", che, con i sali e le spezie di una prosa apparentemente personale, ha dato non solo sostanza, ma anche e forse principalmente forma a un'opera arci-italiana. 
Essa ha in effetti incontrato in tal modo un pubblico bramoso di conferme e di ovvietà, tanto meglio se sapide e aromatizzate, che l'ha immediatamente riconosciuta come sua. Giustamente dubbioso, sulle prime, della efficacia dell'operazione, Camilleri vide via via crescere intorno a sé e alla sua opera plauso e consenso. Con stupore, da uomo intelligente, comprese che l'Italia stava trovando in lui ciò che le mancava da qualche tempo: un interprete ideale o, come si diceva un tempo, un vate. 
Presentarsi a quel punto "in pirsona" come arci-italiano, per Andrea Camilleri fu quasi obbligatorio, oltre che naturalissimo, perché probabilmente conforme alla sua indole. Creò così, di se stesso, un personaggio forse meglio riuscito del celebrato e arci-italiano Salvo Montalbano e, a dire il vero, come oggi si ha modo di verificare, persino più celebrato. 
E come arci-italiano, nei riti in memoria, egli oggi viene appunto offerto: un maestro santo o, se si preferisce, un santo maestro. Soprattutto nell'animo di coloro che leggono (e, si direbbe, pour cause), l'Italia clericale e bisognosa di culti non è sparita solo perché le chiese sono via via sempre più deserte e sono sparite sezioni e cellule di partito.
E così, la nazione celebra "il maestro Andrea Camilleri", specchiandosi, divertita, soddisfatta e per intero nella sua Vigata paradialettale. Quanto le sarebbe costato invece e ancora le costerebbe farlo, si osservi, in italiano, nelle crude "B.", "C.", "S." in cui si svolge Il giorno della civetta o nella cittadina senza nome che fa da truce sfondo ad A ciascuno il suo? E non è senza valore questo stridente contrasto onomastico, ma se ne ragionerà eventualmente altrove.
L'Italia è in effetti (una) Vigata e tale, con il suo Camilleri in primo piano, preferisce restare. 
Un'ovvietà, si dirà. Un topos e un esito scontato: unicuique suum. E cosa si voleva ci fosse sotto l'osservata, banale differenza linguistica tra una figura, "il maestro Andrea Camilleri", e un uso proprio, "il maestro Leonardo Sciascia"? Non c'è partita: stravince la figura. E, dal Gottardo a Lampedusa, farci è sempre più efficace e redditizio di esserci. 

31 luglio 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (44): Senza ironia

Non aprire bocca né scrivere un rigo senza ironia e, con un sorriso ironico, non prestare fede né dare considerazione a chiunque lo fa senza ironia.

26 luglio 2025

Lingua loro (51): "...e soprattutto i fragili..."

È il cuore dell'estate. Fa caldo e ricorrono stucchevoli nel discorso pubblico i (lapalissiani) consigli sopra i modi di fronteggiare gli effetti fastidiosi e ancor più i nocivi di temperature così alte. 
Nella modernità putrefatta, è d'altra parte la funzione fàtica a caratterizzare un discorso pubblico tematicamente colmo di ovvietà, di moraleggiamenti e di buone intenzioni. E gente accreditata da titoli e cariche vi si presta regolarmente ad enunciare sul tema, con aria seria e compunta, correlate insulsaggini. Si qualifica così come imbonitrice e dà non troppo implicitamente del rimbambito al destinatario ideale della comunicazione: "...indossi capi leggeri... non vada a spasso quando il sole picchia più forte..." e così via. Già.
Riuscire a trovare motivi di interesse anche in tali piattezze è tuttavia la fortuna (o la condanna) di quel particolare e perenne tipo di sciocco che ha curiosità per l'espressione. A prescindere dalla presenza e dalla sostanza di qualsivoglia luna, egli guarda sempre il dito che pretenderebbe di indicargliela. In altre parole, non è un referenzialista, per dirla invece come nobilmente si fa tra i filosofi del linguaggio, ma, come i medesimi difficilmente intendono, resta accanitamente un realista: cosa c'è infatti di più reale e di più prossimo all'esperienza di un dito, di un discorso, di un testo? La luna no di certo.
"...e soprattutto i fragili..." recitano allora quegli ammonimenti, per qualificare coloro che ne sono i più specifici soggetti e, al tempo stesso, oggetti. E c'è un valore figurato dell'aggettivo alla base di una nominalizzazione che ha ormai un valore sociologico. Il suo uso ossessivo, più ancora che iterato (era infatti corrente anche nel periodo della da poco trascorsa epidemia) sta d'altra parte contribuendo a spegnere la metafora. 
Fragile, nella gioventù e nel ricordo di Apollonio, ricorreva infatti d'elezione sopra i voluminosi colli con cui si trasportavano merci la cui integrità poteva essere messa in pericolo dal movimento o nelle raccomandazioni rivolte a chi s'avvicinava senza la necessaria attenzione alle vetrine della cristalleria.
Non che fragile non qualificasse, talvolta, anche esseri umani. Lo faceva infatti da secoli, ma, come attributo o come predicato, l'uso era appunto tenuto come metaforico e proprio per questo adatto alla parola letteraria e alla poesia. Fragile è voce dotta. Tale la si definisce in linguistica, perché formalmente e prosodicamente integra e tirata fuori dal latino più o meno come vi suonava. Ha però un fratello povero e sincopato, sospettabile inoltre di qualche antica relazione oltralpe, quindi eminentemente poetico: frale.  
Quando si menziona la poesia, anche a proposito di fragile riferito a un essere umano, s'intende anche quella alla buona. Un esempio? Drupi, un interprete qualificato commercialmente da una qualche rudezza vocale, cantava per esempio "Così piccola e fragile...". L'antifrastica isotopia tra enunciatore ed enunciato ha adesso un cinquantennio: erano veramente altri tempi.
Oggi ci sono invece "i fragili", come categoria sociale, ma "un fragile" o "una fragile" suonano leggermente stranianti. Ciò dice di una resistenza della figura in ogni caso soggiacente. Forse, non è ancora fredda al punto giusto. Accadrà. Anzi, Apollonio non esclude che per qualcuno, soprattutto nel registro burocratico, non sia già accaduto e che i suoi due lettori non gliene procurino graziosamente un esempio.
L'osservazione serve al contempo a mostrare come il numero, categoria grammaticale meno delicata di quanto oggi non venga considerato per esempio il genere, abbia una sua portata ideologica, per niente trascurabile, nelle società coerenti e alimentate dalla comunicazione di massa. Fragili, nel mucchio, lo si è più facilmente di quanto non lo si sia singolarmente: succede sempre e con qualsiasi qualificazione, anche con le positive. 
Dannata lingua! Dice sempre tutto e non nasconde proprio nulla. Ma pare sia fatta per questo.

[L'appello di Apollonio ha avuto un'immediata risposta. I lettori di questo diario sono due, ma la loro qualità è inversamente proporzionale alla loro quantità e uno di essi ha segnalato immediatamente all'alter ego una ricorrenza di "un fragile", in cui la qualificazione è autoattribuita: e pour cause, si può commentare, anche fuori del registro burocratico. È un dato prezioso e lo si trova qui: dice di una sensibilità alla tendenza di comprensibile pateticità e mostra come  fragile si riscaldi, appena lo si tira fuori, al singolare, dalla fredda categoria.]

Passato qualche giorno, d'Oltralpe, un secondo prezioso lettore procura ad Apollonio, sempre con mediazione dell'alter ego, una stagionata e divertente testimonianza di un fragile canoro. Il clima estivo ne incoraggia qui l'ironica ripresa. Altra lampante prova che, di questo diario, come fenomeno comunicativo, il meglio, quasi sempre implicito, sta appunto in chi lo legge:




21 luglio 2025

Dati di fatta (1): "disfò", a bordo della "Nave di Teseo"

"Gli askari marciavano scalzi e in perfetto ordine. L'ufficiale girò nello spiazzo e si fermò di fronte all'emporio, imitato dai soldati. A quel punto, la colonna si disfò come una collana di perle cui fosse stato tagliato il filo": si legge così sul finire di Paradiso, romanzo di Abdulrazak Gurnah pubblicato anni fa in traduzione italiana da "La nave di Teseo". L'alter ego di Apollonio si è trovato a doverlo leggere, per uno dei suoi rarissimi impegni sociali, e ne ha preso in prestito per un paio di settimane una copia digitale dalla piattaforma mlol.
Nel passo, come si è visto, ricorre la forma disfò, voce del verbo disfare. Nel contesto di ricorrenza, quanto ad analisi grammaticale, a tale forma vanno di necessità attribuiti i seguenti valori: modo, indicativo; tempo, passato remoto; persona, terza; numero, singolare. 
Per il traduttore Alberto Pezzotta e per la redazione della casa editrice, che ha a suo tempo licenziato la pubblicazione, disfò è dunque la terza persona singolare del passato remoto di disfare. Nello stesso passaggio, girò è d'altronde la terza persona singolare del passato remoto di girare e fermò è la terza persona singolare del passato remoto di fermare. E, se si vuole aggiungere un ulteriore esempio di fantasia, defecò è la terza persona singolare del passato remoto di defecare. Apollonio chiede venia: alla ricerca di qualcosa che fosse all'altezza di quel disfò, l'isotopia gli è sorta spontanea e non è riuscito a bloccarla; sotto spiegherà il perché.  
Evitino tuttavia i due lettori di questo diario di stracciarsi le vesti. E non gridino allo scandalo. Ci si intenda, avrebbero ragione di farlo. La terza persona singolare del passato remoto di disfare suona infatti disfece, correttamente. E tale la si vorrebbe ancora incontrare nella stampa di un libro pubblicato da tanta casa editrice, "all'atto fondativo" della quale "è indissolubilmente legata la figura di Umberto Eco", proclama con alterigia la sezione Chi siamo del suo sito. "Mica pizza e fichi!", si dice in circostanze simili a Roma. Ma il vascello, come si sa, è ancorato a Milano. 
Disfare si coniuga in effetti come il verbo semplice, fare, da cui è ottenuto per aggiunta di un prefisso. Perciò, se fece, disfece; se faceva, disfaceva. E non disfava, per esempio, visto che il legume - o altro metaforico - proprio non c'entra. 
Attenzione, associabile a disfare, esiste anche un disfò: è la prima persona del presente indicativo e, in bocca toscana, corrisponde a ciò che, altrove, suona disfaccio o, per un andazzo che è andato crescendo, a disfo. "Disfo il letto", "Disfo le valigie" sono infatti ormai e da lungo tempo comuni. E da lì, a cascata, disfi, disfa, disfiamo, disfano sono forme che circolano brade e nessuno può più fermarle. Ne soffrono disfai, disfà, disfacciamo, disfanno. Solo punto di contatto, la seconda plurale, disfate, presente nell'uso e conforme alla norma. Come spesso accade, allora, né tutto corretto né tutto scorretto: quel guazzabuglio che finisce sempre per muovere le lingue (e il mondo). 
Certo che però, pur arrendendosi a disfo, un disfò, terza persona singolare del passato remoto di disfare, resta ancora raccapricciante, anche per chi sa che, ineluttabilmente, le lingue cambiano e che dovrà rassegnarsi. Infatti, consapevolmente o no, con il suo grande nume tutelare "La nave di Teseo" ormai l'"ha sdoganato" (non si dice così, tra coloro che sanno come si dice?). 
Lagnarsi quindi a qual pro? La fatta sta lì (ecco chiarita la sommessa scatologia). Rappresa sulla pagina di quel libro, olezza e la decora. È un dato, come lo era appunto una fatta per chi praticava l'attività ancestrale che, in tempi più seri dei presenti, consentì all'umanità di sopravvivere e di prosperare. E sopra un dato, anche quando tale dato è una fatta, non ha senso disperarsi. 
Una volta che lo si è colto (magari turandosi il naso), se se ne è capaci, lo si descrive e se ne trae partito, discettando di regolarità e irregolarità, di analogia e diacronia, di marcatezza e produttività, di Junggrammatiker e Ferdinand de Saussure. Ma di ciò, caso mai, un'altra volta.

18 luglio 2025

Linguistica da strapazzo (56): "Ma vai da..."


...Conad!" è da qualche mese l'innovativo motto con cui la grande catena di distribuzione si presenta nella comunicazione pubblicitaria e, conseguentemente, sul mercato. La campagna presenta l'ampliamento dell'offerta commerciale. Sotto il suo consolidato brand, Conad distribuisce e vende adesso anche prodotti, come le assicurazioni o i viaggi, ben diversi, come categoria merceologica, da fragole e salsicce, da detersivi e assorbenti. Lo sviluppo avrà certamente un nome e una definizione, nella scienza del marketing, ma Apollonio non li conosce e spera che la descrizione appena procuratane sia bastevole. È un'innovazione conservatrice, dunque: e, quanto alla lingua, un'innovazione conservatrice, per via dell'imperativo, è anche quel "Ma vai da Conad!" . 
L'imperativo e la soggiacente funzione conativa - diranno i due esperti lettori di Apollonio - sono ovvietà nella réclame. Ciò a cui essa mira è infatti che il destinatario o la destinataria si comporti di conseguenza e compri. Ci si faccia caso, però: il perentorio indirizzo è quasi sempre mascherato ormai da gran tempo da altre funzioni. Il messaggio pubblicitario è infatti di norma un buon esempio di un atto linguistico indiretto. Come lo è, per fare esempi neutri e quotidiani, quello di uscirsene con un "Fa freddo!" in presenza di chi si sa può chiudere una finestra o di esclamare "Ho fame", come si faceva da ragazzi e ragazze, chiudendo la porta della casa dei genitori, di ritorno dall'oratorio o dalla riunione del collettivo. 
"La spesa intelligente", proclama in effetti da tempo una società concorrente della Conad. "La Coop sei tu" è l'immarcescibile divisa di un'altra (anni fa, con un contorno, Apollonio se ne occupò qui). "Buona spesa, Italia" augura un più modesto attore sul mercato. "CRAI, nel cuore dell'Italia" è il modo di presentarsi di un'azienda che rivendica il suo radicamento nazionale. "Esselunga, prezzi corti", dichiarava un tempo l'azienda che di recente, presa la via dell'etica, ha tentato anche l'antifrasi: "È importante anche la spesa che non fai". E Conad medesima, prima del mutamento: "Persone oltre le cose".
Entrando pesantemente sulla piazza italiana, anni fa, LIDL aveva tuttavia già smosso le acque, con due imperativi, uno negativo, l'altro no: "Non cambiare stile di vita. Cambia supermercato". Il gioco fu forse redditizio sulle prime, ma, come è lampante per inferenza, aveva funzionato in ogni caso come paradossale conferma del profilo dell'azienda e fu del resto rapidamente abbandonato. Al bersaglio socialmente medio-basso, se non basso tout court (quindi assuefatto, per dire così, a essere destinatario di ordini), chi adottò quella campagna aveva in effetti mirato ad aggiungere coloro che l'endemica crisi economica nazionale aveva fatto (e continua appunto a fare) andare in giù. Poco, insomma, da stare allegri. Ma si sa, capita siano così i Tedeschi: come il loro mitico eroe nazionale, inclini all'euforia tanto quanto alla disforia. 
Non è ovviamente di tal fatta il target, tendenzialmente interclassista e italiano in ispirito, cui la rinomata agenzia Ogilvy indirizza oggi la comunicazione, al contrario euforica o perlomeno sorridente, della Cooperativa Nazionale Dettaglianti (è questa, si diceva un tempo, d'ispirazione ideale e sociale bianca, contrapposta dunque alla rossa della Coop, la ragione sociale che si cela dietro l'acronimo).
L'imperativo fu in effetti tipico delle pubblicità di un lontano passato, come della propaganda politica, allora e nel séguito ("Vota comunista"), anch'essa ormai perenta. Residuo ineliminabile di ingenua verità espressiva, l'imperativo permane nelle campagne promozionali "fai-da-te" di aziende dal respiro provinciale. Quando si affaccia, come talvolta si affaccia nella comunicazione nazionale e di livello della grande distribuzione o di altro, deve farlo in grande spolvero e opportunamente abbigliato. Nel caso specifico, per cominciare, lo introduce infatti un ma
Si tratta della congiunzione avversativa per eccellenza, dicono le grammatiche, e se ne potrebbe concludere che, come in molti altri casi, la terminologia delle grammatiche è inconcludente. Considerato che compare come incipit, cosa mai congiungerebbe ma? Congiunge, tuttavia.
Del ma in incipit e no, Apollonio Discolo e il suo alter ego si sono già dilettati altre volte (qui, per esempio, e qui e qui). Non tedieranno ancora chi legge con ulteriori speculazioni. Nell'occasione, l'invito è solo a valutare, ciascuno e ciascuna nel suo foro interiore, la differenza, espressiva e comunicativa, che passa appunto tra "Ma vai da Conad!" e un "Vai da Conad!" ipoteticamente privo di ma. Facendo così avrà fatto ciò che, con il suo modesto metodo, fa un linguista che tiene ancora Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson come guide del suo cauto procedere e del suo ipotetico ragionamento. In altre parole, una commutazione sperimentale che, senza dire altro e senza speculare, mostra all'intuizione come una cosa sarebbe stato un imperativo in purezza e una cosa ben diversa è un imperativo introdotto da ma. Per dirla alla buona, da un ordine sgraziato si passa, chissà come, chissà perché, a un acuto consiglio: potenza di un minuscolo ma.
Ma non è tutto e adesso viene il bello. L'enunciatore di un messaggio pubblicitario è ovviamente il committente, cioè l'azienda che ha commissionato la campagna. Nel caso specifico, Conad vuole che destinatari e destinatari del suo messaggio si facciano frequentatori dei suoi punti vendita fisici e, adesso, virtuali e vi facciano ciò che in essi di norma si fa: spendere il proprio danaro. Nei fatti e dal punto di vista perlocutivo, enunciata da Conad, la campagna dice dunque "Vieni da Conad!". 
Non lo dice così però. Se lo facesse, si sarebbe di fronte a una banale deissi personale: venire definisce infatti il moto verso il luogo in cui si trova chi enuncia: Vieni (qui), per esempio. Andare no: Vai là dice chi enuncia dichiarandosi così localmente estraneo al luogo di destinazione. Un Vai qui, ci si pensi, suona contraddittorio: ed ecco di nuovo il mestiere del linguista, che deve essere capace di immaginare mondi bislacchi e correlate espressioni. A dire la stoffa di ciò che è endossale niente del resto lavora meglio di un paradosso. Venire e andare, verbi di moto, stanno insomma in un rivelatore rapporto associativo, come avrebbe detto Saussure, prima che Hjelmslev blindasse la nozione sotto l'etichetta di paradigmatico, felice ma forse meno plastica.
Si è così alla vera agudeza del motto: il controllato straniamento della persona (e della correlata deissi). Grazie a esso e ad andare, l'imperativo diventa infatti la battuta di una narrazione o, ancora meglio, di una fulminea commedia. Sulla scena, a parlare e a proferire l'imperativo non è Conad, la prima persona dell'enunciazione complessiva, ma, per costruzione enunciativa ulteriore, un personaggio. E la terza persona rende il discorso fattuale, oggettivo. Farebbe la stessa cosa un testimonial, ma, nel caso specifico e grazie alla lingua, si tratta di un testimonial teatrale, di fantasia, e non è quindi necessario remunerarlo con un lauto compenso.
"Ma vai da Conad!", come punta di lancia, ha dato vita a una nutrita batteria di annunci destinati al pubblico televisivo e specifici per i diversi contenuti. Se Apollonio non ricorda male, nel primo a venire fuori, parecchi mesi or sono, a proferire il motto, indirizzandolo a una paziente distesa sul lettino e dubbiosa sopra cosa fosse conveniente per lei, era uno psicoanalista (o, forse, uno psicanalista: sottigliezze qui irrilevanti): un quadro di lampante chiarezza, da ogni punto di vista, incluso il sociale. Più semiologicamente pregnante, a parere di Apollonio, è però quello scelto a illustrare questo frustolo. 
Due maturi giovani, un uomo e una donna, in viaggio, procedono trascinando le loro valigie in una pianura in cui, sulle prime, pare non esserci, fuori di loro, anima viva. Le battute che si scambiano non qualificano lui come particolarmente sveglio e dicono lei più che vagamente intollerante della di lui sdolcinata storditaggine. Questo è del resto un quadro ideale dell'odierno rapporto tra le persone cisgender e, vuoi o non vuoi, in Italia, una grande catena di distribuzione ha nelle donne il suo target d'elezione: guai a inacidirsele. 
Ma cambia d'improvviso inquadratura e, come dal nulla, compare miracolosamente davanti ai due un piccolo gregge e un uomo anziano e dimesso che, vicino a uno scalcagnato pick-up carico di fieno, uditi proteste e propositi della giovane, le lancia appunto l'inopinato "Viaggio? Ma vai da Conad!". Una pecora alza allora il capo, mentre il Buon Pastore indica ai due, telefono alla mano, la Via (e forse anche la Verità e la Vita, visto che, di rincalzo e in chiusura, afferma di avere anche assicurato la casa). Innovazione, sì. Ma, lo si precisava, nella parola mediata di cooperative che un tempo si sarebbero appunto dette bianche, per contrastarle con le rosse, innovazione conservatrice dei tratti profondi di una nazione probabilmente ormai incapace di riconoscerli e persino di riconoscersi.

13 luglio 2025

Semplicità linguistica del giudizio letterario


Il criterio di giudizio, quanto alle lettere, è semplice e valido per ogni tempo. Lodevole, fino alla grandezza, è chi, avuta in prestito una lingua, come capita a chiunque, la restituisce migliore. Decoroso è chi la conserva nello stato di dignità in cui l'ha ricevuta. Spregevole, fino all'infamia, è chi, per vanità e interesse, ne fa strame, né l'esserne inconsapevole, come succede spesso, vale in proposito come attenuante.

11 luglio 2025

Linguistica da strapazzo (55): Io, l'io e la stimata memoria di Goffredo Fofi

Muore Goffredo Fofi e non è necessario che Apollonio ricordi ai suoi due lettori chi fosse né che se ne dichiari dispiaciuto. Come dispiaciuto è il suo alter ego, fosse solo per la scomparsa di uno stabile protagonista della scena culturale di cui, ormai da quasi cinque dozzine di anni, è stato curioso spettatore. 
In una rete sociale, un importante editore commemora dunque la figura di Fofi con una foto e una citazione. Della seconda, Apollonio non può farsi garante, ma l'autorevolezza di chi se ne serve, pure se in una sede dove l'autenticità latita spesso, induce a ritenere che la si possa tenere come degna di fede.
E non soltanto come autentica, ma anche come ben trovata, da un punto di vista linguistico, atta com'è a illustrare una sorta di corto circuito, frequente in certe argomentazioni intellettuali. 
"...ho imparato... ero bambino... ho imparata... ho visto e sofferto...": è una prima persona grammaticale che rivendica puntigliosamente, c'è da dire, l'acquisita consapevolezza del fatto "che l'io è un impiccio" e che "la centralità dell'io è una truffa" (questa seconda asserzione è ancora più dogmaticamente antifrastica, considerata la premessa). Come si sa, la lingua è divina, ma è anche diabolica e permette simili piroette. 
Con "io" qui s'intende la funzione enunciativa, rappresentata superficialmente dal pronome personale (io), ma anche, come s'è visto, da una desinenza verbale, da un aggettivo o da un pronome possessivo (mio), da un deittico come qui, ora e così via. 
Ebbene, per ottenere l'effetto, basta prendere "io" come funzione e proiettarne il rappresentante superficiale per eccellenza, cioè il pronome io, come nome. Se ne fa così una terza persona che, come nome, si dota di un articolo. Il gioco è fatto: nasce l'io
E di questo singolare oggetto (o concetto: non fa differenza) è possibile dire, oggettivandolo, tutto il male (o tutto il bene) che si vuole. Se ne può fare tema di discorso, obliterando la circostanza che, al fondo di un processo siffatto, come diceva Benveniste, c'è invece la soggettività o, come si è sforzato di dimostrare l'alter ego di Apollonio, la sua inderogabile singolarità. In barba a qualsiasi "gruppo".
Intere dottrine e complesse discipline hanno profittato e profittano di questa prestidigitazione, in realtà molto modesta e alla portata di chiunque: l'io pullula infatti nella chiacchiera quotidiana. Del resto è soltanto una tra le mille e mille consentite dalla funzione metalinguistica. E la funzione metalinguistica è stata ed è ancora molto sottovalutata, ritiene Apollonio, anche nelle teorie e nelle descrizioni linguistiche che si sono pretese e si pretendono scientifiche. 
Che, di passaggio, anche Goffredo Fofi, come 'io', abbia giocato con l'io non stupisce né altro si vuole qui dire: in faccia alla cruda natura della lingua, l'ideologia, qualsiasi ideologia, anche la migliore, finisce sempre per presentarsi nuda alla meta. Ma, per commemorare degnamente l'intellettuale, tra i suoi detti, qualcosa di meglio si sarebbe forse potuto trovare. O no?   

6 luglio 2025

Séguito del frustolo "Spettatore pagante (10)": dalla catarsi all'autocompiacimento

"Tragedia è [...] mimesi di una azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti [...]; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da siffatte passioni": Manara Valgimigli dà qui voce italiana ad Aristotele che, nella Poetica, fissò una volta per tutte la nozione di catarsi. 
Si può essere anti-aristotelici, ma non si può negare che, in funzione di un'estetica consapevole, questa nozione colga un punto cruciale della fruizione artistica e, quindi, dell'essenza funzionale (cioè di relazione) dell'arte. Succede forse perché, in fin dei conti, la nozione di catarsi concettualizza un dato di base della psicologia umana (ci si perdoni il pleonasmo), oltre che un rito di uno specifico ethos antropologico. Un rito presente nella civiltà greca antica, ancor prima di Aristotele, come prassi per la cura del corpo e dello spirito. 
Ritualmente e effettivamente, la mimesi artistica di ciò che indigna, muove a pietà, fa orrore conduce a una purificazione e a una sublimazione di chi, con intenzione, se ne fa destinatario. Lo si può dire anche aggirando la zavorra (aristotelica) dell'idea di rappresentazione implicita nella nozione di mimesi. Fare esperienza del male per segni (si dica, semiologicamente) secondo i modi di un'arte, quindi grazie a un'azione teatrale, per esempio, è catartico. 
Ma si lasci pure da parte la catarsi, in senso stretto. Si passi a cose meno antiquate. Sulla scena, c'è un tale che, ispirato, ancor più che incoraggiato dalla consorte, accoltella nella notte il capo, ospite a casa sua. Poi, visto che ne vuole prendere il posto, assolda e manda sicari ad assassinare proditoriamente un possibile rivale nella successione e così via. Fino al momento in cui, come gli era stato predetto da certe megere, non vede gli alberi di una foresta venirgli incontro per chiedergliene conto. Un tipaccio, insomma. 
Come lui, proprio non ci si comporta, se si è perbene (anche se un pensierino, talvolta...). Se lo si fa, si è un Macbeth. Nell'umano consorzio, i Macbeth (e signore) non sono mai mancati né mai mancheranno. Attenzione: non c'è tuttavia bisogno che qualcuno spieghi cose simili a chi assiste al relativo spettacolo. E in effetti, non ritenendo stupido il suo pubblico, il Bardo si guardò bene dal farlo, aggiungendo chiose e chiarimenti. È teatro, non è scuola, tanto meno chiesa. 
Scendendo un po' di livello, ma nella stessa vena: chi non ricorda la feroce sparatoria di Taxi Driver di Martin Scorsese? Presente per colmo di abiezione una (attrice) ragazzina. Si dice che la censura fece scolorire il rosso del tanto (finto) sangue che vi scorre, ma niente fervorino finale né sottotitoli a chiarire che non è forse quello un modo commendevole per mettere nei suoi giusti cardini un angolino del mondo che, come fece Amleto con il suo, si giudica, con ragione, poco ammodo, anzi, propriamente stomachevole.
Non sarà catarsi, tecnicamente: filologia e filosofia, concordi, contesterebbero con ragione la spiccia equivalenza. Si dirà che è fiducia nei destinatari e nella loro intelligenza, già matura o sulla strada della maturazione? Basta, in effetti. Perché è precisamente quella che troppo spesso manca ormai quando si mettono su spettacoli e rappresentazioni con intenti artistici, che, come è quasi sempre indispensabile, contano perlomeno un vilain (anche collettivo) e il suo codazzo. 
Si pensa invece sempre più infantile il proprio pubblico, se non per età, certo per spirito. E forse c'è anche (o soprattutto?) il timore di prendersi e di essere presi su quel seriosissimo serio che è ormai attribuito alla più piatta superficie dei segni (parole, immagini, suoni e così via). 
Arriva così una scolastica spiegazione. O forse ancora peggio, arriva, nell'oscurità, come oltre-moderno deus ex machina, il barlume di speranza, "la luce in fondo al tunnel" che, si badi bene, è funzionalmente altra cosa da un fiabesco happy end o da una riparazione miracolosa dell'ordine del mondo. 
La sua destinazione morale non è del resto una purificazione né lo straniamento razionalmente critico del cosiddetto teatro epico. È un'indignazione rabbiosa per il male. Un sentimento che si accompagna, in chi ha assistito e vi ha aderito, al dolciastro autocompiacimento di sentirsi farisaicamente dalla parte del bene.

3 luglio 2025

(Storia della) Linguistica candida (75): Dalla "Generazione perduta" alla "Generazione silenziosa"

 

Questa tabella circola negli scritti giornalistici e li ispira. Circola anche, in modo meno effimero, nella letteratura sociologica. Denomina e qualifica moralmente e materialmente le differenti generazioni succedutesi negli ultimi centocinquanta anni. La partizione che propone è certo grossolana e, anche per mancanza di competenze, non si discuterà qui se essa abbia le proprietà necessarie per essere invocata come solido criterio storiografico nel fare storia di una disciplina .
Può però divertire incrociarla anche solo per lampi e per momenti con la storia della linguistica (e per un paio di casi, come si vedrà, della semiotica). Ne viene forse fuori infatti qualche rivelatrice curiosità, soprattutto se osservata in prospettiva.
Roman Jakobson nacque nel 1896 e, per suggestione delle etichette di quella partizione, sorte, come si sa, talvolta per ragioni accidentali, di lui si avrebbe voglia di posticipare idealmente la venuta al mondo. Lo si tirerebbe fuori così dalla "Generazione perduta" e lo si iscriverebbe, come anticipatore, nella "Greateast Generation". Lì farebbe compagnia a Émile Benveniste (1902). 
Lo stesso però si dovrebbe fare allora con Louis Hjelmslev, condannato altrimenti solo per un biennio (1899). E come comportarsi con Edward Sapir del 1884, con Leonard Bloomfield del 1887, con Nikolai Truceckoj del 1890, come John Firth? E con Viggo Brøndal del 1887? E con Vilém Mathesius del 1882? E con Lucien Tesnière del 1893? E con Jerzy Kuryłowicz del 1895? E con Alf Sommerfelt del 1892? E con Walter von Wartburg del 1888? Quanto all'Italia, appartengono alla "Generazione perduta"  Benvenuto Terracini, del 1886, Vittorio Bertoldi, del 1888, Giacomo Devoto, del 1897, Antonino Pagliaro, del 1898, Vittore Pisani, del 1899. 
Pur nelle non trascurabili differenze, tutti grandi il giusto, ma, a ben vedere appunto, tutti irrimediabilmente perduti. Quella grande stagione della linguistica, insomma, sarebbe opera della "Generazione perduta". C'è da rifletterci, in funzione delle successive vicende disciplinari.
Nella "Greatest Generation", sono invece presenti un paio di noti semiologi: nacque nel 1915 Roland Barthes (ma semiologo?) e nel 1917 Algirdas Greimas (semiologo per decisivo impulso di Barthes, che si può immaginare avergli detto in proposito: "Vai avanti tu, che a me viene da ridere"). 
Di linguisti, per l'Italia si possono fare i nomi di Giuliano Bonfante (1904), di Carlo Tagliavini (1903), di Luigi Heilmann (1911). Fuori d'Italia, oltre al già menzionato Benveniste, ci sono Einar Haugen, del 1906, André Martinet, del 1908, Zellig Harris, del 1909, Kenneth Pike, del 1912, Eugene Nida, del 1914, come Yakov Malkiel, Henry Hoenigswald, del 1915, come Ernst Pulgram, Charles Hockett, del 1916, Knud Togeby, del 1918, Eugenio Coseriu, del 1921, Morris Halle, del 1923. E poi tre figure, proprio sul limitare del periodo, menzionare le quali fa sorridere, se li si mette in prospettiva: sono Michael Halliday, del 1925, Uriel Weinreich, del 1926, e William Labov, del 1927.
Si sorride perché, pur nelle differenze reciproche, da infanti, paiono messi lì a fare da paradossali putti del mirabile evento procurato da lì a breve dalla Provvidenza. Si era infatti sul limitare della "Generazione silenziosa", apertasi nel 1928. E del dicembre di quell'anno è Noam Chomsky. 
Ora, a pensarci bene, solo per smaccata antifrasi si può dire Chomsky in linea con la sua data di nascita: silenzioso? Di conseguenza, non mancherà certo chi dirà essere lui in realtà il fiore, appena un po' tardivo, della "Greatest Generation": messianicamente, anzi, il suo compimento. Consegnando il dato, Apollonio non oserà dire altro.
Sono però anagraficamente della "Generazione silenziosa" gli allievi del Chomsky della prima ora, come alcuni suoi epigoni (molti presero presto la via dell'apostasia): Jerry Fodor (1935), Paul Postal (1936), James McCawley (1938), John "Haj" Ross (1938), David Perlmutter (1938), George Lakoff (1941) e così via. Dalla porta accanto, occhieggia Charles Fillmore (1929); un po' dentro e un po' fuori del mainstream, ci sono Nicolas Ruwet (1932) e Sige-Yuki Kuroda (1932); completamente fuori, Maurice Gross, del 1934. A conti fatti, un silenzio generazionale litigioso e assordante. 
Nota finale assai curiosa anch'essa: in Italia, nascono come partecipi della "Generazione silenziosa" i più loquaci esponenti di declinazioni nazionali, DOCG si potrebbe dire, di linguistica e semiotica. Nel 1932, venne subito al mondo il tomista Umberto Eco e pochi mesi dopo il vichiano Tullio De Mauro.
E qui Apollonio si ferma. È più che certo che ai suoi due lettori saranno venuti in mente anche altri nomi. Gli evocati sono infatti esito di un estro estemporaneo, di una celia innocente, di un gioco (assistito) della memoria.

29 giugno 2025

La macchina a vapore, la bomba e il climatizzatore

Non è un'ovvietà precisarlo, come forse qualcuno può credere: per Apollonio, anche la tecnologia ha una storia, nel senso proprio. Idea molto diversa appunto da quella ormai corrente che intende storia come un mero sinonimo di sviluppo (effetto, tra i tanti, del declino della filologia e delle discipline connesse, nel clima morale, prima che culturale della temperie). 
La questione è tuttavia complessa e non è intenzione di questo frustolo di sollevarne nemmeno un lembo marginale. Questa premessa è destinata a chi intende già dove qui si andrà a parare, come certo i due lettori di Apollonio. In estrema sintesi, si proporrà infatti di periodizzare le fasi recenti di quella storia con un criterio semplice e grossolano, ma efficace e rivelatore, a giudizio di chi scrive. Ci si venga.
Ci fu un tempo in cui, pensata per dare soluzione a un problema, una tecnologia appunto risolveva il problema, producendo al tempo stesso una serie di problemi connessi ma differenti. Ciò è del resto ovvio quando si tratta dell'agire umano. Non c'è mai Endlösung, per gli esseri umani. E solo evocare l'orrendo termine e il contesto che, con scopo immondo, lo produsse dice come siano pericolosi coloro che hanno pensato e pensano a una soluzione finale, a qualsiasi proposito, anche il meno deplorevole. 
Saggezza e probità dicono in effetti che, ammesso si sia risolto un problema, dalla soluzione ne germoglia una serie di nuovi. Ma questo è appunto il passato, quello in cui, per esempio, si misero tecnologicamente a punto macchine che, con la forza del vapore, facilitarono concentrazioni produttive industriali divenute a loro volta fonti di ogni sorta di problemi.
Da qualche tempo, il rapporto tra problema e tecnologia che si pensa lo risolva è tuttavia mutato. È avvenuto quando la modernità è marcita e si è entrati nell'era storica della Modernità putrefatta. Di questa svolta, il mutamento cui ci si riferisce è anzi un segno indubitabile. Nella nuova fase, la soluzione di un problema crea, come sempre, altri problemi, ma non è più ciò che la qualifica e la caratterizza. La qualifica al contrario il fatto che è essa stessa un problema. Anzi e più precisamente: la presunta soluzione è l'amplificazione, l'accrescimento, talvolta gigantesco, del problema che sarebbe destinata a risolvere.
Evento cruciale del catastrofico mutamento storico (si ribadisce, storico) fu quello prodottosi a Hiroshima or sono ottanta anni. Fu momento emblematico della mostruosa metamorfosi di una scienza in una tecnologia che, con l'atto con cui apparentemente risolveva un problema, ne diventava essa stessa una parte. Anzi, la parte preponderante. Non se ne è fatta ancora la prova e c'è chi millanta (con quale esperienza dell'umanità?) che non la si farà mai. Ma si venisse al dunque, come sempre può capitare, il problema non sarebbe infatti la guerra e basta, ma la guerra atomica. Si dica allora se non si tratta di uno spaventoso accrescimento.
Fuori di scenari da considerare ancora eccezionali e tanto lampanti da essere risultati e da risultare accecanti, come esemplificazione si può venire a esperienze spicciole, odierne e quotidiane. 
Cos'è finalmente e in effetti un climatizzatore se non un amplificatore del problema globale che sarebbe localmente destinato a risolvere? Fa caldo per via del mutamento climatico? Milioni, se non miliardi di piccole macchine destinate a fare fresco entrano a pieno titolo nel problema, rendendolo ancora più grave.
E cosa è già, nei termini di una qualità delle relazioni umane, l'indefinita crescita delle possibilità comunicative prodottasi con l'Internet? Una splendida soluzione per il problema della comunicazione globale è divenuto il massimo problema della comunicazione, portandola alla totale insignificanza. 
E cosa sarà, cosa è già l'irrompere tecnologico della cosiddetta Intelligenza Artificiale? In funzione della stoffa delle conoscenze umane, da valutare, come spesso si dimentica, non soltanto con un quanto, ma anche con un quale e, soprattutto, con un come, l'IA si presenta già, come pretesto, da sicuro annuncio di un cataclisma di ignoranza.
Ci vuole però ironia, soprattutto riflessiva, per intuire come, nella dimensione umana e date le condizioni prodottesi con la crescita dei mezzi tecnologici, ciò che si immagina come soluzione possa in realtà essere solo un accrescimento del problema che si pretenderebbe di risolvere. 
E l'ironia, che non è appunto una tecnologia né, pare, una funzione gestibile da una tecnologia, è quanto fa da gran tempo difetto a una civiltà che, appunto perché incapace di ironia, si è spudoratamente intestata il compito di trovare le soluzioni ai problemi dell'umanità e di applicarle al mondo intero, costino quel che costino. Un compito che nessuno le ha affidato, come sa chiunque frequenti con intenzione la storia, e dal quale, con facile profezia, si può stare certi che nessuno riuscirà purtroppo a convincerla di recedere. 
 

27 giugno 2025

Sommessi commenti sull'Ultra-moderno (10): Minacce (millantate) di immortalità

Stupidi e mortali, gli esseri umani, dice un'antica e dolorosa consapevolezza. E il secondo predicato funge, si osservi, da permanente rimedio, oltre che da limite, ai guasti incessantemente provocati dal primo. Anche allo stupido più pernicioso, prima o poi, capita ineluttabilmente di morire.  
Pare adesso ci sia chi, immaginando la morte alla stregua di un morbo, promette che un giorno, se non tutti, qualche essere umano ne guarirà definitivamente, per prodigiosi sviluppi della cosiddetta Scienza. 
La fantasiosa conseguenza? Ci saranno stupidi immortali. 
Si dica allora se, già solo a guardarsi allo specchio, come sempre in proposito si deve, non sia bastevole l'esperienza riflessiva della propria stupidità mortale e, congiuntamente, della propria stupida mortalità per trarne una logica conclusione.
La promessa è una (millantata) minaccia, stupida oltremodo, cioè esageratamente umana. 

[Nella vena, una nota ispirata tempo fa all'alter ego di Apollonio da una straniante sortita letteraria: "Finché c'è morte, c'è speranza".] 

23 giugno 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (43): Plurale



Il plurale va tenuto d'occhio. Capita sia un'arma. Ignaro degli spropositi che fa, c'è chi l'impugna con sventatezza e chi invece con malizia e perciò più perniciosamente.  

22 giugno 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (42): Rispetto


Sempre negletto o contraffatto, un precetto da seguire invece con strenuo rigore per rispettare il prossimo (prassi che vale ragionevolmente ben più di amarlo) è non arrogarsi mai il diritto di parlare a suo nome. 

21 giugno 2025

Spettatore pagante (10): "Tucidide. Atene contro Melo" di Alessandro Baricco

"...c'era una differenza come quella di oggi fra Mattarella e Trump": ad Alessandro Baricco si può concedere che, nell'introduzione alla sua lezione-spettacolo "Tucidide. Atene contro Melo", riproposta a Palermo qualche giorno fa, abbia fatto ricorso a un'espressione estemporanea come questa. Gli è servita per dire, a suo parere, sapidamente della differenza che passava nel quinto secolo a. C. tra Sparta e Atene e del loro insanabile dissidio. E gli si può anche concedere che, per ottenere il medesimo effetto, l'abbia ripresa un paio di volte nel corso della serata. 
Glielo si può concedere, sorvolando sul fatto che, al di là d'ogni plausibilità del paragone e di ogni suo valore esplicativo (è "tiatro", avrebbe detto con ragione la buonanima di Andrea Camilleri, da esperto "tragediaturi"), essa ha suonato come un insulto al pubblico. Tanto a quello (una sparuta minoranza) che ne ha percepito la volgarità (perché di questo si tratta), quanto a quello che, misero, non l'ha percepita e, con l'innescata e prevedibile sonora risata, l'ha fatta sua e l'ha sottoscritta.
Nel cuore della rappresentazione, una bella e ben curata lettura (da elogiare le interpreti: Stefania Rocca e Valeria Solarino) delle pagine dedicate da Tucidide sotto forma drammatica a un episodio tragicamente esemplare delle spietate logiche adottate da Atene nel corso di quel conflitto e della conseguente violenza. Ovviamente, pagine recate in italiano (ma da chi? Apollonio non saprebbe dirlo, forse per sua storditaggine, forse perché si è trascurato di precisarlo). 
A tale lettura, Alessandro Baricco ha però fatto seguire un suo elegiaco fervorino e lo ha punteggiato di corrivi lirismi ("...le navi... il mare... i porti..."). Soprattutto, allo scopo di infiammare nel pubblico il sentimento d'essere moralmente edificato dallo spettacolo, nella sua lunga conclusione e a mo' di commento, Baricco si è servito senza risparmio, come persona grammaticale, di un vieto espediente retorico: un martellante 'noi' inclusivo. Quasi si trattasse appunto di una predica o di un comizio. Tutto ciò, nel giudizio del suo lavoro come ideatore e come regista dello spettacolo, ad Alessandro Baricco non lo si può proprio concedere.
Col pretesto, in se stesso buono e lodevole, di fare ascoltare quelle dure pagine a un pubblico sotto gli occhi del quale difficilmente esse sarebbero mai passate, l'operazione culturale, condotta alle conclusioni cui Baricco così la conduce, finisce per rivelarsi una mistificazione. È tale, del resto, anche nei suoi aspetti musicali, affidati alla vena esagitata di Giovanni Sollima e alla scenografica conduzione di Enrico Melozzi. 
Una mistificazione di tal fatta piacerà forse a molti e a molte, consapevoli o inconsapevoli, ma, come si diceva, in teatro, non la si può concedere proprio a nessuno. Al massimo, come sintomo del tempo presente e del suo clima, si può tentare di capirne le ragioni. Per farlo bisogna però partire da lontano. Dalla stessa Grecia presa a pretesto da Alessandro Baricco per costituirsi nell'occasione in una sorta di capopopolo. Se ne farà tema, caso mai, di un frustolo futuro.

[Frattanto prodotto: lo si legge qui.]