4 febbraio 2025

Vocabol'aria (22): Ascensore sociale

Della funzione della scuola, capita di sentire dare di tanto in tanto una suggestiva qualificazione figurata: ascensore sociale. Lamentandone spesso il cattivo funzionamento, è un modo per riferirsi agli esiti, possibilmente non solo individuali, di un'aspirazione. 
Ora è un sessantennio, Paolo Pietrangeli menzionò tale aspirazione nel verso di una sarcastica strofe della sua Contessa: "Anche l'operaio vuole il figlio dottore..." (il ritornello della fortunata canzone, come si sa, spiegava il sarcasmo).
La locuzione ascensore sociale deve tuttavia essere nata ben prima di quella sua illustrazione canora e poetica. Ascensore, nel valore oggi comune, è parola esemplata sul francese ascenseur, che ancora nel 1905 Alfredo Panzini diceva circolante in italiano come prestito: "Piccola ed elegante cabina che sale o scende lungo regoli nel vano delle scale de' grandi edifici moderni, per innalzare facilmente pesi o persone. Questa parola nei dizionari recenti è fatta italiana in ascensore, ma nell'uso prevale la parola francese".
E nel corso (della prima metà) del Novecento, se non prima, sarà stato il discorso della sociologia e della politica d'Oltralpe a procurare l'ambiente propizio alla nascita di ascensore sociale, come metafora poi trasferitasi nell'italiano. 
La sfera semantica che essa arricchisce è infatti un carattere tipico e generale del Moderno, contrapposto all'Ancien régime e ai suoi cascami: la mobilità sociale. Non lo si ricorda mai, ma emblematica in proposito fu e resta appunto la vicenda di quell'ufficialetto còrso che, ante litteram, montando sopra un velocissimo ascensore militare (non c'è solo lo scolastico e ne esiste anche uno ecclesiastico, come si sa), si fece imperatore. Per indubitabili meriti.
Ascensore sociale, come polirematica, non ha trovato menzione nel Grande dizionario italiano dell'uso diretto da Tullio De Mauro, ancora nel 2000, né si è affacciata, quattro anni più tardi, nel Supplemento, diretto da Edoardo Sanguineti, del Grande Dizionario della lingua italiana. In proposito, a nulla evidentemente servì la comune inclinazione ideologica e politica dei due importanti intellettuali. O forse percepirono la sottile scivolosità della questione cui la metafora presta la sua forma. Chi assicura infatti che "il figlio dottore", asceso materialmente e fattosi "dottore", continui, per ascesi morale, a sentirsi socialmente "figlio"? Gia nel 1928, con Zappatore, Libero Bovio, musica di Ferdinando Albano, aveva infatti illustrato populisticamente il caso contrario.
Quando ascensore sociale compare in un discorso, come illustrazione della funzione della scuola o della scuola tout court, si può infatti essere quasi certi che a parlare sia una parte politica che si atteggia a progressista. E siccome è un tropo, la locuzione è loquace testimone di un modo di vedere ciò cui si applica e la prospettiva che orienta lo sguardo. Come si è detto, il modo è propriamente moderno (giudichi chi legge se, in quanto tale, oggi non risulti perciò gravemente obsoleto). 
Moderna e, a essere precisi, del pieno Ottocento è d'altra parte l'apparizione, con rilevanza materiale e culturale, dell'oggetto designato dalla parola ascenseur per denotazione. I lessici francesi la dicono attestata appunto dal 1867 con questo significato. E del Moderno e di tutte le sue ideologie del progresso, la figura che ne discende porta lo stigma
Andare in su è, di norma, difficile e faticoso più di andare in giù. È quindi spiegabile, per una sorta di pertinenza, che si sia fatto ricorso a un derivato dell'inusuale ascendre, piuttosto che a uno del comune descendre, per designare (peraltro, c'è da credere tecnicamente, sulle prime) la "piccola ed elegante cabina" che va appunto tanto in su, quanto in giù. Pur essendo stata chiamata e continuando a chiamarsi ascensore, ci si infila in essa tanto per salire, quanto per scendere, come sa ciascuno. 
Ma quando la parola si presta a costituire una figura, il valore di connotazione emerge imperioso e la base della derivazione, di botto, si fa interpretazione esclusiva. Chi prospetta funzionalmente la scuola come un ascensore (sociale) pensa infatti a qualcosa che serve solo per andare in su e un'idea siffatta intende trasmettere.
C'è oggi da chiedersi, amaramente, se, come nel caso dello sviluppo economico e della crescita costante (di chi? a scapito di chi?), cioè di un nerbo ideologico della falsa coscienza del Moderno, una idea siffatta sia producente, non tanto come programma, quanto, si direbbe primariamente, come strumento volto a una migliore comprensione delle dinamiche sociali in atto, totalizzanti, forse meglio, totalitarie, da cui la scuola, come istituzione e come pratica, è ormai travolta. 
E c'è da chiedersi se, metafora per metafora, non valga la pena di chiamare allora in causa in proposito il vecchio adagio che, meno illusoriamente (o meno furfantescamente) e prima della prima, della seconda, della terza e dell'ennesima rivoluzione industriale e tecnologica, enunciava un'elementare e permanente verità: "Il mondo è fatto a scale: c'è chi scende e c'è chi sale".

25 gennaio 2025

Primo Levi e le vernici

"Io sono un chimico montatore, questo gliel'ho già detto, ma non le ho detto che sono specialista di vernici. Non è una specialità che me la sia scelta io, per qualche motivo personale: è solo che dopo la guerra avevo bisogno di lavorare, bisogno urgente, ho trovato posto in una fabbrica di vernici, e ho pensato «fai che ti basti»; ma poi il lavoro non mi dispiaceva, ho finito con lo specializzarmi, e in definitiva ci sono rimasto": è La chiave a stella di Primo Levi e a parlare è il personaggio che vi fa anche da narratore. Una proiezione dell'autore nei modi che rendono autentica e impareggiabile la prosa di Levi: scevra di soggettivismi, tanto quanto di infingimenti. Una prima persona specchiata, com'è rarissimo, e non solo in letteratura. Una prima persona miracolosamente priva dei viluppi del narcisismo e che, come una vernice fatta a regola d'arte, cola perciò liscia "dall'ugello del viscosimetro".
Se chimico Primo Levi fu per vocazione giovanile, specialista di vernici divenne quindi per accidente. Per accidente, d'altra parte, egli era divenuto sciente di Auschwitz e, sopravvivendo per accidente, se ne sarebbe fatto testimone, da casuale "salvato". Ma cosa più del caso è tratto costitutivo pertinente di un destino? Il destino: Erlebnis bizzarra e sempre disponibile di ciò che sta oltre l'umano. Nel "fare vernici" c'è dunque l'impronta del destino di Levi. E "fare vernici", lo dice lo stesso narratore dopo il passo che si è menzionato, è "un mestiere strano".
La chiave a stella lo sancisce, per quel personaggio narratore in cui l'autore si specchia. Le avventure del montatore Tino Faussone ne occupano la gran parte, ma gli episodi che, con l'intermezzo di "Le zie", concludono e, si può dire, perfezionano l'opera ("Acciughe, I" e "Acciughe, II") sgorgano dall'esperienza di chimico specialista di vernici del narratore e, celandosi dietro i titoli metonimici, ittici e alimentari, parlano in effetti di vernici.
Sull'opera e sulla vita di Primo Levi, c'è una letteratura così sterminata che è impossibile a un lettore dilettante come Apollonio dire se la circostanza sia mai stata messa nella luce dovuta e conseguentemente proiettata tra le osservazioni che potrebbero qualificare la sua vicenda complessivamente, ivi inclusa e principalmente, come è ovvio, quella di scrittore. Forse no. È questa l'impressione che si ricava dalla consultazione della voce "Vernici" presente in Primo Levi di fronte e di profilo, prezioso baedeker che, ora è un decennio, Marco Belpoliti ha donato alla comunità dei lettori e delle lettrici di Levi, traendolo generosamente dalla sua pluridecennale militanza nel campo.
Ma ecco ancora La chiave a stella, invece, e il suo narratore: "...in sostanza, [fare vernici] vuol dire fabbricare delle pellicole, cioè delle pelli artificiali, che però devono avere molte delle qualità della nostra pelle naturale, e guardi che non è poco, perché la pelle è un prodotto pregiato. Anche le nostre pelli chimiche devono avere delle qualità che fanno contrasto: devono essere flessibili e insieme resistere alle ferite; devono aderire alla carne, cioè al fondo, ma la sporcizia non deve aderirci su; devono avere dei bei colori delicati e insieme resistere alla luce; devono essere permeabili all'acqua e impermeabili, e questo appunto è talmente contraddittorio che neanche la nostra pelle è soddisfacente, nel senso che resiste bene alla pioggia e all'acqua di mare, cioè non si restringe, non gonfia e non si scioglie dentro, però se uno insiste gli vengono i reumatismi: è segno che un po' d'acqua passa pure attraverso, e del resto almeno il sudore deve passare per forza, ma solo da dentro verso fuori. Vede che non è semplice." Non fu semplice, d'altra parte, farsi una vernice, cioè una pelle, resistente ad Auschwitz, permeabile e impermeabile, e salvarla, la pelle, per un'inspiegabile combinazione.
Attraverso una similitudine al quadrato, la vernice come pelle, la pelle come attributo umano materiale e morale, la concretezza di Primo Levi procede infatti per allegoria. Il suo realismo è allegorico ed è la ragione profonda per la quale la sua opera, nella sua interezza e non solo per gli scritti di testimonianza, è comparabile alla dantesca. Del resto, nessun realismo autentico può essere diverso: è la figura che sostanzia qualsiasi rendiconto della realtà; è la figura che, dandole una lingua, la fa parlare. 
Insomma, anche per via di un'estrema esperienza di vita, il chimico (della materia e della parola) Primo Levi non smise mai di "fare vernici", come gli era stato assegnato dal destino. E di farle con coscienza, fin quando poté. Perché c'è più del sospetto che, come chimico, come scrittore, come persona, abbia infine constatato che di fare un'onesta vernice, in faccia alla vita, non fosse più il caso. Per una scelta vanamente ribelle al destino. 


 
      

17 gennaio 2025

"Mi è piaciuto" / "Non mi è piaciuto", come segnali del fallimento della formazione umanistica

Si cerca una prova del fallimento del modello di educazione alla conoscenza e alla fruizione delle arti e delle lettere che vige nel modello scolastico nazionale (dalle elementari all'università)? 
La si ha ogni volta che si sente un italiano istruito o un'italiana istruita commentare, se non unicamente, certo crucialmente con un "mi è piaciuto" o un "non mi è piaciuto" la propria esperienza di un libro, di un film, di un quadro, insomma, di un qualsivoglia prodotto di un impegno artistico. 
Varianti correnti e più enfatiche, come oggi si deve, sono in proposito "mi ha emozionato" o "non mi ha emozionato" e simili. 
Negli ultimi decenni, una situazione già grave si sta in effetti ulteriormente aggravando, in proposito. E quel che sembra innovazione è solo deteriore conferma di un tratto persistente di una cultura nazionale che non ci si deve peritare di qualificare, oggi più che mai, anche come popolare (e scadente).
Sono tutte lampanti e crescenti dimostrazioni che da anni di insegnamento, per dire così, umanistico (presente in misura variabile nella scuola italiana di ogni ordine e grado), gli italiani e le italiane ricavano soltanto "io" (o "noi", come sua superfetazione) come criterio e come strumento deputati allo sviluppo e all'espressione di uno sguardo critico sul mondo dello spirito.
Si trovano in pratica dotati e dotate solo di quel parametro infantile e grossolano che ciascuno possiede già da prima di entrare nel sistema della formazione e che sostanzia un gusto nativamente costituito, si direbbe con rivelatrice figura, nell'esperienza alimentare dei cucchiaini di pappa ingoiati nella più tenera infanzia. 

14 gennaio 2025

A frusto a frusto (140)



Persa che si sia l'occasione di diventare adulti da giovani, non lo si diventa mai più. 

12 gennaio 2025

Spettatore pagante (8): "Emilia Pérez" di Jacques Audiard

Del romanzo Écoute di Boris Razon chi scrive questa nota sa soltanto, per averlo appreso in rete, che ha fornito il soggetto al film di Jacques Audiard e che, a quanto pare, il medesimo regista aveva in origine il proposito di fare di quel soggetto un'opera lirica. 
E il soggetto si può dire sia il tratto di maggiore fascino di una pellicola peraltro ben riuscita in ogni altro suo aspetto, ma forse meno di come appunto sarebbe riuscita, sul medesimo soggetto, un'opera lirica. 
Chissà allora che Audiard non ci riprovi, con l'indispensabile alleggerimento del realismo spettacolare imposto da un palcoscenico teatrale, sul quale, per esempio, è impossibile, se non per mediata figura, mettere in scena il sanguinoso conflitto a fuoco tra bande di malviventi.
Al soggetto di Emilia Pérez non manca in effetti nessun ingrediente di quelli che rendono appassionante (quando lo è) il melodramma (quello classico, qui s'intende) e non c'è aspetto del suo sviluppo narrativo che non faccia appello alla figura che del melodramma è il perno: l'enfasi, nella sua variante patetica, naturalmente. 
Testimonianze dello stadio precedente di elaborazione del concetto costruttivo, sono rimaste nel film alcune scene in cui gli interpreti cantano e, intorno a loro, si sviluppa un balletto. Ciò ha fatto sì che si sia attribuita alla pellicola anche l'etichetta di musical, impropriamente. 
Gradevoli e plausibili, nell'insieme gli inserti non sono infatti tali né per numero né per rilievo narrativo da caratterizzare la pellicola. Sono piuttosto relitti allusivi di ciò che, come si è detto, il soggetto avrebbe potuto dare e non ha dato. O, che è quasi lo stesso, modi per fare toccare a chi si trova in sala la stoffa melodrammatica della fabula, la cui forma esteriore non pretende la verosimiglianza ed orna una morale tragicamente ironica. 
La vive e la trae, accompagnando chi assiste alla pellicola, una partecipe testimone intradiegetica: la giovane avvocata Rita Moro Castro, che viene convocata, con modi molto bruschi, da Juan "Manitas" Del Monte, sanguinario boss di un cartello messicano della droga. L'uomo vuole affidarle un compito difficile e oltremodo sorprendente: aiutarlo, nel più assoluto segreto, a compiere tutti i passi per sparire senza perdere le sue gigantesche ricchezze, diventando (e sta qui l'aspetto straordinario) una donna. Così egli dichiara di avere desiderato da sempre, per la sua realizzazione come persona, e di non avere mai potuto nemmeno rivelare questa aspirazione a chicchessia per le costrizioni impostegli dall'ambiente in cui è nato e a partire dal quale ha costruito la sua fortuna criminale.
Rita accetta, insofferente dell'ambiente ipocrita in cui si sta sviluppando con difficoltà la sua vita e la sua carriera professionale, oltre che attirata dal danaro che il boss le promette per remunerarla. E per la sua dedizione e il suo impegno, il desiderio di "Manitas" si compie. 
Il passaggio da un sesso all'altro del(la) protagonista coincide con la sua trasformazione morale: da uomo cattivo, si fa donna buona. Da malfattore a benefattrice, sotto il nome di Emilia Pérez. Né (si osservi a margine) deve essere privo di valore il fatto che il radicale mutamento si realizzi in Terrasanta e non, come il film in un primo momento prospetta possibile, in quell'Oriente iper-tecnologico e ultra-capitalistico che costituisce ormai il terribile orizzonte onirico di sviluppo per l'Occidente. Ipso facto, per il mondo intero, "Manitas" svanisce nel nulla. Ma egli svanisce anche per Emilia Pérez?
Per immagini, dall'oscurità permanente delle ambientazioni della sua prima mezzora, il film passa alla luce: gli sterminati mezzi finanziari accumulati dall'uomo cattivo con i segreti e le violenze del suo malaffare vengono pubblicamente rivolti dalla donna buona che ne è sortita a una (si badi bene, solo) funeraria riparazione dei lutti provocati tra la popolazione messicana. Alla donna buona, essi garantiscono inoltre un opulentissimo tenore di vita. Non solo a lei ma anche alla moglie e ai figli dell'uomo cattivo, che sono stati tenuti all'oscuro del cambiamento e, sulle prime, confinati in Svizzera, convinti inoltre che "Manitas" sia morto, ingoiato dai vortici delle faide malavitose.
La famiglia dell'uomo cattivo finisce tuttavia per mancare alla donna buona. E, sempre con l'assistenza della giovane avvocata, Emilia la richiama a sé, a vivere sotto il medesimo tetto. Si finge all'uopo un'affettuosa parente dell'uomo cattivo e da lui incaricata a provvedere in tal modo. 
Insieme con il potere che viene dal danaro, del suo passato di uomo cattivo, la donna buona tiene però ancora con sé una pistola, anche mentre si dedica al bene del prossimo. E con il gesto che compie in proposito l'interprete e con la relativa inquadratura, il film rivela la presenza dell'arma nel grembo di Emilia quando, inopinatamente innamorata, la esibisce di soppiatto a una vedova (si precisa, felice di essere tale) che diventa la sua amante. Sarebbe ridondante insistere qui sul valore simbolico dell'arnese, a quel punto della narrazione: come rivelatore dettaglio, esso è più che lampante. Sotto la donna buona, c'è ancora, se non un uomo, certamente ancora un suo vestigio. 
E mentre a Emilia poco importa che la giovane donna che aveva sposato quando era un uomo e dalla quale ha appunto avuto due figli si conceda a una sua vecchia passione erotica con un farabutto, il fatto che da quella passione si prepari a sortire un matrimonio le risulta intollerabile per una ragione che è difficile non considerare maschile. I figli di "Manitas" finirebbero sotto la paternità surrogata del farabutto, sfuggendo così alla sua, ancora pienamente effettiva e solo dissimulata dal femminile. Con un geloso sentimento paterno, sotto la donna buona e in funzione dei figli riappare così l'uomo cattivo. Ed è quanto, per traversie e colpi di scena, determina la catastrofe finale. 
Non si dirà tuttavia come questa si compie a chi legge questo diario e non ha (ancora) visto il film, che sul finale, tornando alle fitte ombre del suo esordio, prende appunto le cadenze della pellicola di azione. Quanto si è fin qui riferito è d'altra parte sufficiente a intendere l'allegoria, come si diceva, tragicamente ironica. 
Da uomo cattivo a donna buona, qualche profondo problema rimane, in funzione (di un viscerale valore) della discendenza, fin quando ci sarà, e non si può dire che quel problema sia di poco momento, per gli esseri umani, al di là del genere, ma anche, paradossalmente, in stretta relazione con esso.


10 gennaio 2025

Linguistica da strapazzo (53): Πάντα ῥεῖ...

...è il celebre motto attribuito a Eraclito, otto secoli dopo il momento in cui egli avrebbe potuto eventualmente proferirlo. Tutto scorre ne è, come si sa, la resa italiana. Essa rende compiuta giustizia all'originale? No, è il parere di chi scrive questo frustolo da strapazzo. C'è, se così si vuole dire, perlomeno un residuo. Perché, nell'originale, πάντα è plurale e ῤεῖ non lo è, mentre ciò che si vuole corrisponda al motto in italiano non presenta il bisticcio di numero. In tutto scorre, tutto scorre liscio, da tale punto di vista, perché tutto e scorre sono ambedue singolari: c'è tutto e questo tutto scorre. 
I due lettori di questo diario, cui non mancano certo le relative conoscenze, diranno che l'osservazione è superflua e vana la correlata inquietudine.
Per sedarla, come farebbe un farmaco da banco, basta infatti il pizzico di dottrina un tempo procurata dalla frequenza, anche la più svogliata, di un paio di anni di ginnasio.  
A fare da soggetto della proposizione in questione, un pronome indefinito (quindi di terza persona: la non-persona, per dirla con Benveniste), certo di numero plurale, ma di genere neutro. E, in quella antica lingua, quando il soggetto di una proposizione era di genere neutro (nome o pronome, poco cambiava), il suo numero, alla morfologia verbale, non faceva di norma né caldo né freddo. 
Gli si combinava solitamente una forma verbale al singolare. Per il verbo di una proposizione, in altre parole, il minimo sindacale: terza persona singolare. Ciò che, sotto altri cieli, non ci si perita di definire come una forma impersonale. Quanto bastava insomma a dire che la proposizione in cui quel verbo ricorreva era di modo finito (con le correlate informazioni di stretta pertinenza verbale: tempo, aspetto...). Nel caso in questione, un presente gnomico: il presente che vale a enunciare verità fuori del tempo. Che è come dire che πάντα ῤεῖ non scade (e quindi, a suo modo, non scorre? Bel paradosso!).
Ma sono queste serie faccende da filosofi. Qui ci si occupa piattamente del commercio del numero grammaticale tra il soggetto e il verbo. Decisivo a determinare la forma del verbo nel caso di soggetti di genere diverso dal neutro e, a fortiori, di persona diversa dalla terza; trascurabile invece, data la presenza di un soggetto di genere neutro, in un caso come quello di πάντα ῤεῖ, dice la dottrina. Tutto liscio anche qui, dunque.
Beninteso: chi si contenta gode. Ma c'è chi è d'indole incontentabile (δύσκολος, appunto) e si destina a durature sofferenze o, va detto, a spassi sempre rinnovati. E osserva che, per sanare un conflitto in una combinazione di numero, la pezza riparatrice tira in ballo una categoria perlomeno altrettanto, se non più scabrosa: il genere. Neutro? 
In greco antico, al pari di ciò che accade in lingue apparentate, di neutro in quanto genere grammaticale si cercherà inutilmente una qualificazione diversa da quella che si ottiene correlando in proposito funzione e forma. Ci sono infatti nomi e pronomi che variano per forma in dipendenza dalla funzione sintattica assolta. Tra le altre forme (nella presente discussione, trascurabili e di nessun rilievo contrastivo), in modo specifico essi hanno una forma quando circolano come oggetti e una diversa quando circolano come soggetti. Nomi e pronomi che si comportano così in blocco, li si distingue ulteriormente poi in maschili e femminili, per tradizione. 
Sono facili e seducenti etichette, si badi bene, metonimiche, quindi nettamente analogiche. Non lo si dovrebbe dimenticare mai, quando se ne percepisce il puzzo di stalla o quello di camerata, ancora più piccante ideologicamente. Non è la lingua a puzzare, si badi bene, ma la metalingua delle grammatiche e dei grammatici. Qui quelle etichette poco importano, in ogni caso, ma importa che il valore linguistico di quanto esse qualificano emerge precisamente dal fatto che ci sono invece nomi e pronomi che non presentano una differenza formale da correlare alla menzionata differenza funzionale. 
Neutri è l'etichetta che tradizionalmente designa nomi e pronomi che non si comportano come il blocco di maschili e femminili e va detto a merito di tale etichetta che l'analogia in tal caso puzza un po' meno. E se capita lo faccia, è perché la si mette nei discorsi a stretto contatto con maschile e femminile, termini grammaticali sempre sudaticci e febbricitanti, perché fortemente settici (in questi anni lo si sta sperimentando). 
Che nomi e pronomi detti neutri non presentino differenze formali succede allora perché, nei contesti in cui capita di osservarli e in presenza della menzionata distinzione funzionale, essi le sono formalmente insensibili? O perché in quei contesti, semplicemente, la distinzione funzionale non si dà? Perché, in altre parole, le due funzioni vi si neutralizzano, rendendo ipso facto ridondante ogni eventuale differenza formale? È un bel dilemma e va ben oltre la portata di questo diario e di un suo frustolo. 
Per sineddoche, equivale infatti a chiedersi che valore abbiano, in greco antico, come nelle lingue apparentate, le diverse manifestazioni della morfologia nominale e pronominale una volta che tale morfologia si sia fatta uscire dalle tabelle con cui essa viene ingabbiata e presentata come una tassonomia di enti e la si sia invece restituita, per intero e senza residui, al fondamento squisitamente combinatorio da cui eventualmente, nelle sue differenti fattispecie, essa emerge appunto come fenomeno.
Resta tuttavia già così l'impressione (ed è quanto basta a questa sortita) che nella intrinseca costruzione linguistica di πάντα ῤεῖ il dissidio di numero valga qualcosa che la liscia apparenza di tutto scorre non riesce a restituire. Per via di veloce comparazione, già sopra si era alluso in proposito a una impersonalità. 
Da quel dissidio, tutt'altro che trascurabile, sebbene ovvio, il succo del motto è posto, processualmente, in una sorta di autonomia funzionale della forma verbale, in nulla debitrice del pronome che, ammesso e non concesso figuri funzionalmente come soggetto della proposizione, accompagna in realtà il verbo come potrebbe farlo una predicazione avverbiale. Fuori dell'ipoteca implicita di qualsivoglia corriva ontologia, si direbbe insomma e conclusivamente, πάντα ῤεῖ vale Scorre, universalmente.

1 gennaio 2025

Linguistica candida (72): Le lingue cambiano...

Da qualche secolo, con regolarità (e l'attitudine è loquace indizio di persistente spirito infantile), c'è chi pretende che una lingua cambi secondo le sue idee, le sue intenzioni e i suoi desideri.  Non sa che le lingue cambiano, certamente, ma solo per opera di coloro che, privi di ogni correlato proposito, sono ingenuamente inconsapevoli che, esprimendosi, le stanno cambiando. 

D'altra parte, le lingue cambiano perché coloro che vi si esprimono non controllano compiutamente, tanto meno capiscono fino in fondo ciò che la loro facoltà linguistica consente loro di esprimere. Senza essere esclusivo, tale tratto è tipico, prima psicolinguisticamente, quindi sociolinguisticamente, di coloro che, per tradizione, sono qualificati come semi-colti.

E la velocità del cambiamento è direttamente proporzionale al numero e alla rilevanza sociale degli inconsapevoli della propria espressione, di coloro che non sanno cosa dicono e scrivono. Maggiore è il loro numero, maggiore è il loro rilievo nei consorzi umani che li contengono, più rapido sarà il mutamento della lingua in cui quei consorzi si esprimono.

28 dicembre 2024

Lingua nel pallone (9): "il classe 2005", "braccetto", "quinto"

Gergo e terminologia, come si sa, sono intrecciati. E si vive in un'epoca in cui non c'è attività il cui gergo non sia continuamente sollecitato a rinnovarsi dalle incessanti innovazioni della tecnologia, pena l'essere percepita immediatamente come obsoleta. 
Segue ovviamente l'andazzo anche la fantasiosa tecnica calcistica, con correlate innovazioni terminologiche, riflesse e amplificate dalle cronache sportive.
Quinto e braccetto (destro o sinistro) ne sono recenti esempi. 
Già quasi tre lustri or sono Apollonio rivolgeva un pensiero nostalgico alle parole perdute che denominavano i ruoli ancora negli anni della sua infanzia e della sua giovinezza. E un moto di tenerezza gli ha procurato una di queste sere il lapsus, subito corretto, di un telecronista, a commento dell'ingresso in campo di un giocatore nel corso di una partita: "...prende il ruolo di terz... sì di braccetto sinistro".
Quanto al sinonimo quinto c'è da chiedersi (forse uno dei due lettori di questo diario conosce la risposta) come mai si sia appunto passati a derivare da cinque e sia abbandonato tre. Svalutazione? Non è da ieri, d'altra parte, che chi disquisisce di calcio lo fa dando i numeri (cardinali): 3-4-3, 4-5-1...
La lingua nel pallone ha poi messo (momentaneamente) fuori corso sedicenne, diciassettenne, diciottenne, diciannovenne, ventenne, (forse) ventunenne e (anche) ventiduenne. Oltre, pare ad Apollonio non si vada. Quando si tratta di designare calciatori, da presentare come (ancora) giovani, di conseguenza, sottolineandone la verde età, si è imposto il modulo "il classe [anno di nascita]" (ghiotto dal mero punto di vista lessicologico). 
Per altri versi, l'uso olezza in effetti di leva e di caserma, ma si tratta appunto di una questione di età e di gusto. A gente meno anziana di Apollonio, parrà forse neutro e persino grazioso. A chi, come Apollonio, ne percepisce il sentore militaresco, magari senza avere più memoria e consapevolezza che ci furono "i ragazzi del 99", procurerà un gradevole brivido. Così sin dal giovinetto Patroclo di Omero: di certo, "un classe vattelappesca". Uno sport in cui c'è chi vince e c'è chi perde è, come si sa, compiuta allegoria della guerra.   

22 dicembre 2024

Bolle d'alea (37): Picabia


"Le bonheur pour moi, c'est de ne commander à personne et de ne pas être commandé", scrisse Francis Picabia nel luglio del 1917 e Apollonio fa sue tali parole. Ci vuole poco d'altra parte a intendere anche il contesto di quel pronunciamento. Esso trascende tuttavia qualsiasi accidente, anche il più gigantesco. Vale umanamente per ogni tempo e per ogni luogo.
Ed essere partecipe della felicità come l'intese Picabia è quanto questo diario augura a chi amichevolmente lo legge, quando per la ventesima volta dal momento in cui è apparso in rete - e si stenta a crederci - giunge il canonico periodo di uno scambio dei voti.

13 dicembre 2024

Sommessi commenti sul Moderno (30) e sull'Ultra-Moderno (7): Saggezza, scienza, tecnologia

Pretendendo di farlo sopra una vana sapienza e sull'ignoranza, or sono alcuni secoli la scienza infierì sulla saggezza e la debellò. Fu un passo in avanti, si finì per pensare. Ma lo fu veramente una scienza che, nel suo entusiasmo, covava un seme di dissennatezza? 
Adesso, sulla scienza senza saggezza infierisce straripante e incontrollabile la tecnologia e si può dire l'abbia già debellata. 
La saggezza è a questo punto così lontana dagli spiriti che sperare vi riaffiori è solo un'illusione. Riaffiorano impetuose invece vana sapienza e ignoranza, contro le quali evidentemente né scienza senza saggezza né tecnologia hanno potuto nulla. 
Anche perché scienza senza saggezza e tecnologia, come dicono le loro avventatezze, di ignoranza e vana sapienza sono forse solo sofisticate manifestazioni (né ne è esente, com'è ovvio, questo frustolo medesimo che galleggia, stolto messaggio in bottiglia, sulle onde di una tecnologia).

6 dicembre 2024

Linguistica candida (71): Semplicità della lingua

Ad Apollonio non sono mai andate a genio la scimmiottature delle scienze della natura messe in scena di tanto in tanto da coloro che, come lui, pretendono di occuparsi della lingua. E, pur nutrendo ammirazione e fiducia per gli avanzamenti di conoscenza che vengono da quel lato della ricerca umana (lo si precisa a scanso di equivoci), resta sempre scettico in proposito quanto alla partizione tra il duro e il molle. 
Da parte di chi rivendica per sé la prima qualificazione, gli è sempre parso perlomeno un (adolescenziale) difetto di eleganza. Molto meglio sarebbe che si fosse tutti capaci di riconoscere lo stato delle rispettive ignoranze (e delle correlate impotenze), non per piangersi addosso, ovviamente, ma per maturo sentimento di fraternità: con buona volontà, da ogni punto di vista, ci si prova, insomma.
Ciò premesso e non per paradosso, ma nella medesima vena, Apollonio e il suo alter ego, da quando le conoscono, hanno trovato congeniali al loro ozioso lavoro sulla lingua le parole che Richard Feynman, il celebre fisico statunitense, proferì nel corso di un'intervista televisiva (Take the world from another point of view, ne era il titolo e ebbe luogo nei primi anni Settanta del secolo scorso): "...and nature is no doubt simpler than all our thoughts about it now. And the question is, what way do we have to think about it so that we understand its simplicity?".
Basta che a natura vi si sostituisca lingua ed esse fanno precisamente al caso della disciplina che le si dedica. E la domanda principale di tale disciplina diventa la medesima che Feynman assegna alle scienze della natura: come pensare la lingua in modo tale da comprenderne la semplicità? 
Fu, a ben vedere, la domanda che si pose a suo tempo Ferdinand de Saussure, fornendole una risposta, come appunto si deve, nei termini sperimentali di un metodo. 
Con qualche sporadica applicazione nel corso del Novecento, esso è sostanzialmente rimasto lì e attende di essere messo all'opera con rigore da una ricerca finalmente priva di millenari e sempre rinnovati (pre)concetti, dottrinali, appunto, più che scientifici.     

30 novembre 2024

Lingua loro (50): "...non fa sconti"

La temperie ha nello sconto un suo divino feticcio e gli dedica da un po' una festa comandata, come si sa, in anticipata e concorrente convergenza con il Natale.
Poco da stupirsi, quindi, se a mo' di contrappasso rituale ha concepito una correlata locuzione: quasi uno scarico morale. 
Come l'incassare di cui s'è detto ora è qualche settimana, si tratta di una catacresi bottegaia e spesseggia nella lingua della comunicazione pubblica d'oggidì.
Capita che l'opposizione non si allinei a una scelta europea del governo (è ciò che fanno di norma le opposizioni, d'altra parte): "Commissione UE, Elly Schlein: «Non faremo sconti...»". Non è ovviamente in gioco una transazione economica e se fosse necessario argomentare la pacifica natura figurata del discorso in genere e del discorso politico in particolare, ecco appunto un ottimo esempio. Udendo o leggendo una dichiarazione siffatta, in effetti a nessuno passa giustamente per la testa che la personalità che l'ha rilasciata stia dicendo con essa che ci sarà una vendita in proposito e che sarà a prezzo pieno. 
Che si sia davanti a un tropo fantasioso (ma rapidamente fattosi frusto) è ancora più evidente quando in ballo c'è proprio del denaro. Nell'ordinamento nazionale è infatti lo Stato che trasferisce risorse finanziarie ai Comuni. Eppure, a commento del fatto che ciò si verifica da qualche tempo in misura decrescente, sulla stampa si legge: "Il governo non fa sconti ai Comuni. Ecco la mappa di cinque anni di tagli". 
A essere obbligate a praticare sconti, per così dire, all'amministrazione centrale sono dunque le amministrazioni periferiche. E, se lo si prendesse alla lettera, il titolo di quel resoconto giornalistico direbbe irragionevolmente il contrario, con una stridente contraddizione. 
Naturalmente, nessuno bada alla lettera e a tutti è familiare l'abuso. O, come si diceva nel frustolo che s'è menzionato in apertura, la catacresi. Alla sua luce, in una sorta di universale mercato, ci sono oggi docenti che non fanno sconti ai loro studenti, pubblici ministeri che non fanno sconti agli imputati, pazienti insoddisfatti che non fanno sconti ai loro medici curanti e così via. Né si vede all'orizzonte l'eventualità che anche in proposito si proclami prima o poi un Black Friday.

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Passano poche ore dalla pubblicazione di questo frustolo e in rete Apollonio inciampa nella promozione di un quotidiano che, sotto la foto di due importanti rappresentanti dell'attuale governo, promette una temporanea riduzione del prezzo di abbonamento con queste parole:


Da vecchio didatta pedante, ne consiglia la menzione a chi volesse illustrare come la differenza tra valore proprio e figurato di una locuzione si presti alle acutezze (se così si vuole dire) della comunicazione commerciale. 




17 novembre 2024

Onomastica cinematografica (2): Anora

Anora è il titolo del film più recente di Sean Baker, sceneggiatore e regista americano, ed è il nome della protagonista del film, "una giovane sex worker di Brooklyn", dice la pagina della società che distribuisce la pellicola in Italia, dove, a illustrare il tema di questo frustolo, si troverà anche un loquace trailer
L'opera (che ha dialoghi in inglese, in russo e in armeno) è stata premiata a Cannes, la scorsa primavera. È in effetti abbastanza ben fatta (forse con qualche lungaggine, nella sua prima parte, sostanzialmente preparatoria del dramma). Ma a orientare in tal senso la giuria suppone Apollonio sia stato il fatto che, in essenza e per figura, il film procura un buon ritratto del tempo presente. Dice in effetti quanto esso sia banalmente traviato e mercenario e, d'altra parte, come, per non piangerne, se ne possa e forse se ne debba ridere (con molto amara e disperata coscienza del degrado, si svela tuttavia nella scena, breve ma cruciale, della chiusura). 
Bando però alle vane geremiadi. Qui non si rende conto del film e si pone invece l'attenzione sopra un suo dettaglio onomastico. Se, come si anticipava, si può dire dettaglio il nome che porta la protagonista di un'opera d'invenzione. Sul principio della narrazione, rivolgendosi a un cliente, costei si presenta con un "Hi, I'm Ani". E, più avanti e in passaggi comico-drammatici della pellicola, con rabbia rivendica il diritto e ribadisce il suo desiderio di essere Ani, in faccia a chi, anagraficamente, la chiama Anora
Anora è in effetti una ventitreenne newyorchese. Appartiene quindi tanto alla cultura (o si dirà alla civiltà?), quanto alla generazione per le quali vige internazionalmente una norma per l'identificazione onomastica personale nel discorso quotidiano. Una moderna baritonesi. Se composti da più di due sillabe, i nomi si riducono al bisillabo iniziale e si restringe l'apertura della vocale che il troncamento rende finale. Da Anora, quindi, viene fuori Ani
Anche quando non è richiesta (e non è certo questo il caso della rappresentazione cinematografica della vita sociale di Anora), un'informale familiarità si è fatta insomma rigorosa regola di interazione. Essa rigetta l'onomastica paradigmatica e si bea della sintagmatica, morbidamente, se non morbosamente vezzeggiativa e confidenziale. Proprio mentre scrive queste righe, Apollonio registra nell'italiano di una rete sociale un Giudi per Giuditta, da lui fin qui inaudito. 
Nei termini di un'onomastica cinematografia allusiva, c'è allora da chiedersi se Ani, omofono di any, non sia un nome a suo modo parlante per "a young sex worker", come la lingua principale del film consente di scrivere, senza pronunciarsi esplicitamente quanto al genere della designazione. E si stenta a credere che l'effetto allusivo non sia stato ricercato e ponderato dallo sceneggiatore-regista, quando, battezzando come Anora la sua fantasiosa creatura, le prefigurava Ani come significativa marca onomastica nella narrazione. 
Fuori delle ipotesi sulla intentio auctoris restando ai fatti e all'intentio operis, il film presenta solo un personaggio in cui, via via che la storia procede, occhieggiano e infine si rivelano lampi di sommessa e sotterranea partecipazione per la bizzarra e finalmente deludente vicenda di Anora/Ani. È uno dei suoi vessatori, è russo e di nome fa Igor. Si tratta di un arguto paradosso onomastico, se si pensa a tutti gli Igor di cui il cinema ha dotato il genere horror, anche nelle sue varianti comiche. 
Tocca allora a tale Igor confermare come quel nome proprio proiettato come titolo dell'opera abbia una funzione sistematica nel processo narrativo del film e come il film dica allora e infine che, dalla protagonista, il suo nome intero (integro, si direbbe) vada, caso mai e se possibile, riconquistato, anche contro se stessa. 
Si è quasi alla conclusione. Seduto accanto alla sedicente Ani, Igor, meditando ad alta voce, le dice: "...mi piace Anora. È un bel nome". E la ragazza, questa volta, non protesta né rivendica. 
A differenza di Ani, Anora è in effetti proprio il suo nome proprio, il suo singolare nome di battesimo, non quel nome proprio qualsiasi che la vita le ha fatto indossare nella falsa e dolorosa letizia delle sue relazioni prezzolate.


12 novembre 2024

Spettatore pagante (7): "Parthenope" di Paolo Sorrentino

Parthenope
 è una pellicola allegorica e, nelle intenzioni, dissacrante. Il tessuto del suo enunciato narrativo è fatto dall'intreccio di questi due fili. Ne è fatta, soprattutto, la sua enunciazione, che si atteggia appunto ad allegorica e dissacrante, proprio come si atteggia a sentenziosa (sopra questo terzo carattere, tuttavia, si verrà in fondo). Da parte del regista, un modo un po' artificioso per segnalare l'opera come "film d'autore", dotandola d'altra parte di una singolare sorta di sigillo. 
A quasi tutti i personaggi di rilievo capita in effetti di accendere e di fumare una sigaretta. Enfaticamente. Il film ricorre spesso a primi e primissimi piani. La trovata procura a essi movimento e prospettiva narrativa, oltre a dare, secondo i casi, un tono meditativo, problematico o fascinoso alla figura. Sphragìs del fumatore Sorrentino o timore che gli interpreti, privi del supporto, non sarebbero stati in grado di reggere significativamente simili iterate inquadrature?
Comunque sia, sotto il segno dell'allegoria, il film invita a chiedersi a più riprese cosa ci sia "sotto 'l velame" di figure, parole e immagini, non solo quando paiono strane o quando si può supporre il gioco valga la candela, perché le risposte sono difficili o arcane. In effetti, di norma non sono tali: si tratta di figure di facile lettura. 
Sotto il segno della dissacrazione, il film vuole congiuntamente épater il prototipico bourgeois in cui, proprio in quanto tale, vive e prospera un luogo comune gigantesco e proteiforme: Napoli. Napoli preme molto a Sorrentino. Meglio: proprio in quanto cliché, Napoli preme molto sopra Sorrentino artista (forse anche sopra Sorrentino persona, ma qui non si pratica il metodo di Sainte-Beuve). 
Il cliché nel suo complesso e alcuni degli innumerevoli stereotipi correlati sono pertanto quanto Parthenope prova idealmente a demistificare con le sue trasparenti allegorie. Prova a farlo per via di paradosso.  Si serve infatti delle veneri della cinematografia: luci, colori, inquadrature... Del loro insieme, funge da sineddoche la grazia di Celeste Dalla Porta, nel ruolo della protagonista; una grazia messa in scena come mirabilmente quotidiana, un fascino al tempo stesso quieto e inquietante.
Parthenope non è così il consueto film su Napoli e un'osservazione linguistica lo dice immediatamente. Vi compaiono personaggi che, esprimendosi, si qualificano ovviamente come partenopei. Non così però Parthenope. Sulle labbra di una figura con quel nome, nata nelle acque del Golfo e cresciuta in una casa sulle sue rive non si ode una parlata napoletana. 
Che Parthenope non si esprima in dialetto è ovvio: il plot la colloca in un ambiente borghese. La sua la parola non prende però nemmeno l'inflessione che rende sempre ben riconoscibilmente partenopeo l'italiano del luogo, a prescindere dall'estrazione sociale di chi s'esprime. È questo, per esempio, il caso di Sorrentino medesimo. Appena apre bocca, nessuno lo direbbe veneziano o livornese. E c'è film cui Napoli faccia da tema (o anche solo da sfondo) in cui l'espressione locale - vero e proprio luogo comune -  non abbia una funzione caratterizzante? La presa di distanza, se si vuole, comincia da lì: un'allegoria partenopea priva, nel suo asse principale, di accento partenopeo.
A volere essere spassosamente pignoli, c'è in limine un dettaglio grafico minuscolo a fare da spia di un'intenzione artistica siffatta: l'acca al centro del nome dell'eroina eponima. Un ricercato ammicco cólto e etimologico? Forse, ma una contrapposizione alla secolare tradizione grafica nazionale che ne fa appunto a meno. 
Partenope, senza acca, è il luogo comune e, nella cinematografia nazionale, conta centinaia di evocazioni e di tematizzazioni. Esemplare quella di Carosello napoletano, film di Ettore Giannini consacrato appunto alla Napoli partenopea convenzionale. E consacrato tanto mirabilmente da essere premiato a Cannes, si pensi, giusto settanta anni fa. Era il secondo Dopoguerra. Nella stessa sede, nella scorsa primavera, l'onore non è stato invece tributato alla pellicola di Sorrentino, che tuttavia vi ambiva. 
Mutatis mutandis (come è appena il caso di dire, visto quanto sono mutati i tempi da allora), Parthenope è in effetti un nuovo carosello napoletano straniato e post-moderno. L'acca che fa in due pezzi il nome ne è un segnale. Ma, in funzione della solidità del luogo comune, finalmente senza conseguenze di rilievo: come appunto l'acca, quanto alla pronuncia del nome, resta un ammicco.
Si rischia d'essere corrivi elencando o, ancor peggio, illustrando nei particolari i cliché partenopei presi di mira dalla pellicola. Alcuni sono anche troppo espliciti. La capigliatura rosso fuoco della grande e stagionata attrice di nome Greta Cool non necessita di chiose, per esempio. E, a dirla tutta, a orecchie e occhi bigotti proclamare posticcia tale capigliatura, come finalmente la persona che la indossa e che scarica il suo ben giustificato livore sopra Napoli e i Napoletani, può suonare e apparire blasfemo ben più della plateale profanazione del sacro cui Parthenope volentieri si presta con il cardinal Tesorone. 
Chi assiste al film riconosce insomma i bersagli dell'ottica caustica di Sorrentino e, caso mai ne avesse mancato qualcuno, come ne ha certamente mancati lo spettatore pagante, non avrà perso il palese valore intenzionalmente dissacratorio dell'insieme. 
In funzione delle belle immagini (cui si è già alluso), sfugge tuttavia all'ottica caustica un grande luogo comune partenopeo, certo perché correlato con la figura di Parthenope come mitologica sirena: il mare del Golfo di Napoli. 
Cardine visivo intorno al quale ruota in effetti la narrazione, a esso il regista riserva, per immagini, un'attitudine comparabile con quella espressa dalla prima strofa di Torna a Surriento (e come si fa a non commentare in proposito con un nomen omen?): "Vide o mare quant'è bello, | spira tanto sentimento, | comme tu a chi tiene a mente, | ca scetato o faie sunnà."
Ecco appunto. Al pari del fluido gelatinoso di una celeberrima pellicola americana degli anni Cinquanta, un luogo comune, se è veramente tale, finisce tuttavia per inglobare e digerire chiunque gli si accosti e, anche se armato delle più acuminate e sottili intenzioni critiche, manifesta in realtà con l'atto (sconsiderato) il desiderio di perdervisi. 
Questo è ragionevolmente anche il caso del finalmente desiderante Sorrentino, che con Parthenope ha inteso sfidare il cliché tentacolare di Napoli. E, d'altra parte, dopo avere visto il film, si sfida chiunque a dire che, per lui, come, si può affermare, per l'universo mondo, Napoli non sia e resti appunto un luogo comune appiccicaticcio e gelatinoso. E flaccido e debordante, come si presenta infine il gigantesco e celato pargolo, "fatto di acqua e di sale", del professor Devoto Marotta, interprete Silvio Orlando. 
Davanti al domestico monstrum il padre, fuori di casa pungente e disincantato, cede anche lui a un'elegia dolciastra e instupidente e si assopisce innocuo e rassegnato. Il cliché partenopeo e i suoi corollari sono così quanto una pellicola dall'intento dissacratorio finisce paradossalmente per confermare, con le sue allegorie.
S'era alluso in apertura al tratto sentenzioso di un film che, si ricordi, non è stato solo diretto, ma anche ideato e scritto da Sorrentino. Sulle labbra dei personaggi spesseggiano in effetti le sortite apodittiche. Lo sceneggiatore si può dire sermoneggi dietro le maschere della protagonista, di Achille Lauro, di John Cheever, di Flora Malva, di Greta Cool, del cardinal Tesorone e di altri e altre. 
Conta due ricorrenze topiche però "All'università si viene [cioè: ci si reca] cacati e pisciati". Il motto perentorio del professor Marotta ricorre nella prima parte, proferito a Napoli in un aula universitaria in cui si stanno svolgendo gli esami di Antropologia. Come citazione indiretta, quando il film si avvia al termine, ricorre una seconda volta sulle labbra di un'allieva trentina di Parthenope che l'ha appreso da lei, frattanto diventata un'anziana professoressa sulla soglia della pensione. 
Anche per tale ragione il motto finirà probabilmente per fare da sigillo mnemonico della pellicola. Non potrà certamente insidiargli il ruolo quel "Dio non ama il mare" proferito ex abrupto da una voce anonima sullo scorrere dei titoli di coda: estremo commento ultra-diegetico da parte di un autore in sospetto, a quel punto, di incontinenza, perché incapace di lasciare andare chi esce dalla sala senza lanciargli un ultimo segnale, superfluamente enigmatico. 
Così Parthenope sarà forse il film di "All'università, si viene cacati e pisciati". Più di un frutto dell'invenzione di Sorrentino, l'icastica sentenza pare tratta dal deposito immateriale dei memorabilia della vita universitaria anteriore al Sessantotto, ormai da gran tempo leggendaria. 
Così fosse, si osservi, non sarebbe la prima volta per un film di un regista napoletano. Or sono più di trenta anni, pescata probabilmente dalla medesima fonte, "Non si avvicini, non mi contamini con la sua ignoranza" ebbe lo stesso ruolo in Morte di un matematico napoletano di Mario Martone.

 
Né Martone, del 1959, né Sorrentino, del 1970, hanno ovviamente avuto esperienza diretta di quel mondo perduto. L'ambiente accademico partenopeo pare dunque custodisca e tramandi ancora memorie di detti celebri e ormai, ovviamente, socialmente e antropologicamente improponibili. La condizione raccomandata da Sorrentino, per interposto Marotta, non vige più da gran tempo tra i discenti né, a dire il vero, tra i docenti. E, per la persistente pandemia, il cave riesumato da Martone non avrebbe più ragione d'essere proferito. Ma nella scelta differente, pare a chi scrive si colga il quid delle attitudini umane, finalmente opposte, dei due registi. E soltanto quella di Sorrentino, con la sua ironia, ispira simpatia.  
     



8 novembre 2024

A frusto a frusto (139)

In ultima e stringente analisi, l'ignobile domanda "A che serve?" è ciò che soggiace all'incessante ricerca umana di un'arma letale: dalla clava all'ordigno dell'Apocalisse. Cioè allo strumento infine atto a compiere un destino e a procurare a quella domanda la risposta esauriente e definitiva: l'autodistruzione della specie dal comportamento guidato dall'ignobile domanda "A che serve?".

4 novembre 2024

Spettatore pagante (6): "Megalopolis" di Francis Ford Coppola

Mettere un'opera del proprio ingegno e del proprio impegno sotto un titolo è darle un nome. Ed è già, di norma, atto espressivo e comunicativo di importanza capitale. 
Il battesimo ha un valore ancor più straordinario se, giungendo in veneranda età dell'artista, l'opera è quella intorno alla quale si afferma di avere meditato per decenni; di cui si sostiene di avere sognato lungo tutta la propria luminosa carriera professionale; per la realizzazione della quale si è persino provveduto a liquidare parte del proprio patrimonio personale. È appunto il caso di Megalopolis di Francis Ford Coppola. Troppo, c'è immediatamente da sospettare.
Troppo, senza dubbio. E quel nome, parlante, già dice di un eccesso. Lo dice con il suo primo elemento, per semplice analogia lessicale: è il medesimo di megalomania. Ma dice di un eccesso ancora più grande, megalomane appunto, con il riferimento analogico cui, quanto alla storia del cinema, il suo secondo elemento indirizza senza equivoco: Metropolis di Fritz Lang, film del quale fra tre anni ricorrerà il centenario. 
D'altra parte, che Francis Ford Coppola, con Megalopolis, abbia dato sfogo a una sua vena espressionista è chiaro sin dalle prime inquadrature della pellicola. E il suo principale riferimento diventa lampante quando, andando avanti, si vede lo sviluppo narrativo scandito da didascalie sentenziose ed esplicative, come furono quelle che fungevano da intertitoli nel cinema muto.
Quando Lang prima concepiva, quindi dirigeva il suo film leggendario era tuttavia quasi quarantenne ed era partecipe del fervore (letteralmente) esplosivo e corrusco dei primi decenni dell'Europa del Secolo breve. Il Coppola di Megalopolis è invece un ultra-ottantenne immerso nel gelido e cupo stagno globale in cui si versano i liquami della putrefazione della modernità, quando è trascorso il primo quarto del ventunesimo secolo. 
E non si dica che, nei diversi contesti culturali, ma anche brutalmente sociali e concretamente antropologici, il dato biografico sia privo di correlati, da un lato, compositivi, dall'altro e quanto alla valutazione, critici. 
Tanto fu viva e tesa l'espressione espressionista e conclusivamente inquietante di un giovanilmente maturo europeo degli anni Venti del secolo scorso, quanto vizza, aggranchita e, in chiusura, stucchevolmente consolatoria è quella di un vecchio americano degli anni Venti di questo secolo. 
Al posto di inventare, in effetti, Coppola cita e ricicla all'ingrosso: Shakespeare e Federico Fellini, William Wyler e Marco Aurelio, Gaio Sallustio Crispo e Ridley Scott, H.G. Wells e se stesso. 
Il risultato è un guazzabuglio. Lo spettatore pagante, con la sua modesta cultura generale e in particolare cinematografica, non ha certo potuto riconoscerne tutti gli ingredienti. Ha tuttavia colto il disordine di un composto non amalgamato, l'accozzamento privo di ratio e di grazia, la sciatteria paradossale per lo spreco dei mezzi tecnici (tuttavia, a guardare con attenzione, meno grandioso di quanto si sia favoleggiato).
Megalopolis è insomma un film grottesco, un'americanata, un fantapeplum che muove sovente al riso, già a partire dal frullato onomastico di cui si fregiano i suoi improbabili personaggi: Cesar ['sisa'] Catilina (inventore di una nuova materia, chiamata anch'essa non a caso megalon), Franklyn e Julia Cicero, Hamilton Crasso III, Clodio Pulcher, Wow Platinum. E, ciliegina sulla torta, per la bimbetta che in epilogo continua a muoversi anche quando i suoi summenzionati genitori hanno romanticamente fermato il tempo, Sunny Hope Catilina. 
C'è d'altra parte ancora una differenza fondamentale tra Metropolis e Megalopolis. Il primo, del 1927, è un film muto. Il secondo, purtroppo, no. Non c'è in esso una sola parola che non spinga in effetti a rimpiangere, nel confronto, una sortita cinematograficamente memorabile: "I love the smell of napalm in the morning". 
Allo spettatore pagante essa ricorda che Francis Ford Coppola, quarantenne quando il Secolo breve si avviava alla fine, fu capace di aggiungere alla storia del cinema un capolavoro tardo-espressionista. E l'ammonisce: la vecchiaia è un grande guaio. Gigantesco, quando perde il controllo di sé.

1 novembre 2024

Lingua loro (49): "Potente" e "potenza"

"...è un romanzo grande e potente": con questo lapidario viatico attribuito ad Antonio D'Orrico si apriva ora è un lustro una pagina di réclame di Il Colibrì di Sandro Veronesi. Qui non è questione di quell'opera, ma di potente e di potenza. Sono parole che oggi spesseggiano nel discorso critico o, forse meglio, nella chiacchiera sopra temi letterari o cinematografici.
Apollonio vanta (o sconta) un'esposizione a quella chiacchiera (e, se si vuole, a quel discorso) che supera ormai il mezzo secolo. Saltuario ascoltatore e distratto lettore, ci si intenda. Non pretende quindi che le sue siano asserzioni dottrinali. Osservazioni non solo impressionistiche però, sì, fosse anche soltanto per la sottesa durata. E l'ipotesi che si affaccia, senza ovviamente che se ne proponga un'interpretazione da correlazione causale, è che potente e potenza abbiano cominciato a dilagare nei contesti menzionati più o meno dagli anni in cui è stato commercializzato in Italia il prodotto farmaceutico rappresentato dall'immagine che correda questo frustolo. Insomma, Zeitgeist, si dice dottamente. Più alla buona, aria che tira e che ringalluzzisce non solo lo spirito (pneumatico di suo, pronto quindi a gonfiarsi), ma anche il corpo.  
Non sono ovviamente neologismi, potenzapotente. Ma Apollonio ha la netta percezione che sia in effetti relativamente nuova l'estensione della loro portata, accesamente figurata, alla sfera delle arti menzionate. E che soprattutto sia nuova la loro ascesa, in quelle chiacchiere, al rango di tormentone. Per una prima esperienza e un primo esercizio in corpore vili, ecco un'accidentale e non esauriente raccolta delle ricorrenze di potente e di potenza nelle pagine con cui La bella confusione, libro recente e molto fortunato di Francesco Piccolo, si proietta verso la sua (potente?) conclusione:   

Ho cominciato a leggere Yoga [...] piano piano nella mia testa si è formata chiara l'idea che [...] stava riuscendo a spiegarmi qual è la caratteristica più potente di Otto e mezzo: la vitalità (200).

Questa volontà di stare bene è molto potente quando si vede Otto e mezzo, è molto potente quando si legge Yoga. E per quanto mi riguarda è molto potente anche dentro di me (202-3).

Bisogna dire, a questo punto, che Il Gattopardo e Otto e mezzo, insieme, rappresentano ancora altro, al di là di sé stessi. La potenza di questo momento, il fatto che due autori così importanti abbiano fatto due film così grandiosi contemporaneamente [...] e che quando sono usciti abbiano avuto un effetto devastante, potente [...] ecco, bisogna dire che questi due film rappresentano non so se il punto di alto, ma di sicuro il punto di arrivo di venti anni di grande potenza del cinema italiano nel mondo (211).

Questa potenza e questa specie di ultima esplosione, si manifesta soprattuto nei riconoscimenti ottenuti nei vari festival internazionali (211).

In Otto e mezzo c'è la fine della giovinezza (o la paura della fine della potenza) per un individuo e soprattutto per un artista (213).

Ma quella potenza produttiva non si vedrà più (213).

e in contrasto vede non solo la bellezza, ma la potenza ormai irresistibile di Angelica, e tutta questa potenza sta per culminare proprio di fronte a lui (244).

Ed ecco che l'autobiografismo di Visconti diventa potente oltre ogni sua volontà (245).

Quindi il contrasto tra la giovinezza potente, voluttuosa, e il vecchio che muore (245).

Angelica è assolutamente potente e desiderabile. Come dice Tomasi del quadro, al centro c'è la fine di don Fabrizio, ma in realtà il quadro è stato fatto per la potenza di Angelica (246).

sente il desiderio potentissimo che arriva dal profumo di questa ragazza e anche dalla potenza di questa ragazza (247).

Mentre il finale che vediamo noi [...] è una potente accettazione della vita (251).

si sentono parte di uno stesso mondo che è quel mondo che ha avuto quella potenza assoluta e che adesso, casomai, è meno potente e più in difficoltà (255).

Deriva paradossale, ma forse non sorprendente, del Wille zur Macht nella temperie della modernità putrefatta? O, da parte delle più vive coscienze di tale temperie, non troppo implicita ammissione, rivelata dall'uso evocativo, maniacale e ossessivo del positivo, di trovarsi invece nello stato definito dalle negazioni di potente e di potenza? Apollonio non sa. Giudichi chi legge.

30 ottobre 2024

Lingua nostra (14): "Ultimo" (e, sullo sfondo, come "Lingua loro", "estremo")

Ultimo
 alberga, lo si sa, un'anima da superlativo. Come l'albergherebbe estremo. L'anima superlativa di estremo si è però fatta fantasmatica, nella coscienza di un gran numero di parlanti e di scriventi. 
Sulle labbra o sotto le penne di costoro capita di cogliere, si ponga, un "più estremo". Per esempio, in una sorta di "coccodrillo", presente nell'archivio di una gazzetta qualsiasi e caduto per tale ragione nella rete di un'estemporanea interrogazione di Apollonio, si legge: "Famosi i suoi j'accuse. E l'ultimo, e forse il più estremo, è della fine di settembre". 
A chi correlativamente storce il muso, il giornalista potrebbe sempre opporre una ricorrenza comparabile nei Promessi sposi: "Finalmente, altri casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi tra loro, secondo la scala del mondo". 
All'ombra del fallo (eventuale) di una tale autorità, falli al séguito, com'è appena il caso di dire, smettono di apparire tali. E nessuno, ancor meno Apollonio, si scandalizzerà di conseguenza della loro circolazione "a bischero sciolto".
L'anima superlativa di ultimo è al contrario ancora ben viva e, dal culmine che occupa (superlativa, appunto), oppone fiera resistenza a chi volesse gettare ultimo giù dalle scale, come si è fatto con estremo, oggi ridotto a qualificare un più o un meno e non più un'acme. 
In effetti, anche a chi propala più estremo, suppone Apollonio (speranzoso), più ultimo suonerà ancora stridente, al limite della sopportazione. Mai dire mai, tuttavia, nelle vicende linguistiche, né qualificarle come estreme. Alle orecchie di un Cicerone, fantasiosamente di nuovo mondane, espressioni che passano (e non da tempo) come banali parrebbero testimonianze inoppugnabili di un'estrema perdita della ragione. 
Ma tout passe, tout casse, tout lasse e, miracolosamente, la lingua resta sempre la lingua. Malgrado a parlarla siano gli esseri umani, ci sarebbe da dire, e non per celia. Ci provano di continuo, gli esseri umani, a ridurre alla loro misura, infima, tutto ciò che hanno ricevuto in prestito momentaneo (la vita, la lingua...). Ma, costretti come sono nei loro limiti, non ne hanno evidentemente la facoltà. 
Giunti come si è a riflettere sopra ciò che è momentaneo (quindi, umano), una nota ulteriore sopra ultimo capita allora a fagiolo. "La luna e i falò è l'ultimo romanzo di Cesare Pavese": ineccepibile. E ineccepibilmente, nella nota bio-bibliografica che avrebbe dovuto corredare uno scrittarello del suo alter ego, Apollonio vede comparire un "Fare nomi è il suo ultimo libro". 
Con i suoi usi ineccepibili, ultimo fa appunto simili scherzi e tutte le volte che lo si intende o lo si legge applicato a quanto ha fatto un essere umano, se non lo si sa per altre vie, bisogna che ci si chieda se è ultimo per sempre o ultimo, al Cielo piacendo, solo momentaneamente. Se è un ultimo perfetto o un ultimo che si immagina ancora imperfetto, quindi in attesa di (eventuale) falsificazione e di farsi penultimo, terzultimo... 
Insomma e per concludere con l'aneddoto, dopo essersi concesso pratiche apotropaiche delle quali non sarebbe elegante procurare né qui né altrove una descrizione, con calda approvazione di Apollonio, l'alter ego ha proposto per quella bisogna (e, spera, non come ultima o estrema volontà) una formula meno impegnativa, ma non per tale ragione meno veritiera: "Fare nomi è il suo libro più recente". Cambia poco ma, quando niente, un'espressione neutra. Forse un po' più bene augurante. In attesa che, riferito se possibile ad altro, il più recente diventi un giorno ineluttabilmente l'ultimo o l'estremo senza più.

26 ottobre 2024

Spettatore pagante (5): "Iddu - L'ultimo padrino" di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Il cast di un film è un segnale (commerciale) - è appena il caso di ricordarlo. Come funzionerebbe altrimenti, anche nel piccolo, lo show biz
Fra le altre cose e al pari di altri aspetti (o forse meglio), esso dice come l'opera si indirizzerà e apparirà al pubblico e alla critica, perlomeno nelle intenzioni di chi l'ha ideata e si propone di dirigerla, ma soprattutto in quelle di chi la produce e cerca interpreti che riscaldino il botteghino.
Al riguardo, Iddu - L'ultimo padrino è esemplare (iddu vale 'lui', in siciliano, con pronuncia retroflessa della doppia dentale sonora). Ne sono registi e sceneggiatori i due volenterosi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, certo non notissimi né presenti al pubblico come autori di pellicole memorabili. Ma, nel loro film, ruoli del massimo rilievo sono coperti da Toni Servillo, Daniela Marra, Barbora Bobuľová, Fausto Russo Alesi e, come idduElio Germano. Di quest'ultimo, romano, va subito lodata la cura nella dizione: non il solito siciliano cinematografico e televisivo, ma, con tocco realistico, una parlata accettabilmente prossima ai modi che siciliano e italiano regionale prendono nell'estremo lembo sud-occidentale dell'isola
Nell'insieme, si tratta di attrici e di attori cui, da qualche anno, il cinema italiano che si vuole d'autore fa appello di norma, se non proprio a rigore. Variamente suddivisi e suddivise, hanno in effetti recitato in film di Bellocchio, Moretti, Sorrentino, Garrone, Martone, Salvatores, Guadagnino, per fare qualche nome di spicco. Non solo nei film di costoro, ovviamente, ma si può dire che, per qualche regista (laureato), c'è in quell'elenco chi rappresenta l'interprete per eccellenza.
Con un cast del genere, Iddu è uscito indubbiamente nelle sale come un film d'autore. Anzi d'autori, visto che, come si è detto, di sceneggiatori e registi, ne ha due. Alla qualificazione contribuisce poi il soggetto, liberamente ispirato a o, per dire meglio, allusivo di una figura e di una vicenda di appena perenta attualità. Ne sono state piene in effetti le cronache giornalistiche. 
Il personaggio che tanto nel titolo, quanto qui e là nella sceneggiatura, viene designato per estrema antonomasia con iddu (oltre che, meno enfaticamente, con Matteo) si ispirerebbe infatti a quel Matteo Messina Denaro, cioè a un siciliano della provincia più occidentale dell'isola, che da una pluridecennale latitanza, vissuta quasi a casa propria, ha regolato e mandato gli affari criminali di un'impresa collettiva che, nel film, se non ci si sbaglia, non viene mai designata con un nome, per motivo di ovvia ridondanza. È in effetti di gran lunga la maggiore, tra le radicate in Sicilia, e la più nota. 
Un protagonista e un tema siffatto, per conseguenza, farebbero di Iddu anche, se non soprattutto un film di impegno civile e come tale è stato di norma presentato da chi ne ha scritto. Ma non ci si figuri perciò che si abbia in proposito a che fare con qualcosa che lontanamente somigli, per fare un esempio, a un classico del genere, come Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Nemmeno mutatis mutandis, come imporrebbero in ogni caso i più di sessanta anni trascorsi tra una pellicola e l'altra.
Tanto realista, socialmente impegnata nella denuncia, dirompente e, a suo modo, narrativamente romanzesca fu la pellicola di Rosi, quanto lirica, intimista e intrisa di sensiblerie è Iddu. Personaggio e vicenda di cronaca fanno infatti al film da mero e lontano pretesto. Anche perché lo sviluppo narrativo, lo si volesse proiettare in qualche realtà (la siciliana inclusa), sarebbe inverosimile e fiabesco. Tetramente fiabesco, ci si intenda. 
Ma i personaggi hanno caratterizzazioni stereotipe, come appunto si conviene a una fiaba cupa. E il film ha il suo nocciolo, crudo e malvagio, nel Padre, un archetipo negativo, ad affrancarsi dal quale, ancora oggi, non si riesce. 
La narrazione prende appunto le mosse dalla presenza di una sorta di orco sanguinario (con rituale sacrificio di un agnello) e ne decreta immediatamente un'assenza che ha i tratti di un'incombenza morale, lacerante e non sanata. 
L'archetipo ha anche il suo oggetto di valore o, forse meglio, il suo totem: un pupu (così nel film ci si riferisce a un bronzo antico allusivo del celebre Efebo di Selinunte). Continuare a possederlo o perderne il possesso non sono circostanze neutre, ovviamente. 
Tra i personaggi, sempre, anche se variamente collegati al nocciolo archetipico, non mancano lo sciocco, la strega e un intrepido cavaliere che, per assecondare l'odierna tendenza culturale, è nel caso specifico di genere femminile: anch'esso o, in modo più pregnante, anch'essa ha una sorta di ambiguo padre dal quale, fino in fondo, non riesce a liberarsi. 
Un tragicomico pulecenella funge da attante mobile. È l'elemento cui plot e intreccio affidano per intero la messa in moto e l'avanzare del racconto. Il personaggio, un campano in Sicilia, è disegnato sull'interprete e l'interprete, consapevole del compito da mattatore e con generosa prova di attore, finisce per gigioneggiare (come gli capita ormai spesso e stucchevolmente). Il personaggio si fa di conseguenza caricaturale. 
Anche per questa ragione il film non decolla, come si dice ormai con metafora aeronauticaAppesantita dalla pretesa di essere in ogni caso una buona mimesi della realtà, l'inverosimiglianza non vi diventa fantasia. Nei dialoghi, le non rare citazioni cólte moraleggiano, più che dare un tono morale. Soprattutto, la pellicola resta asfittica, quanto alla narrazione. 
Qualcuno ha scritto (e forse i registi medesimi hanno dichiarato) che, a proposito di mafia e mafiosi, un mondo asfittico e spento è proprio quanto il film si è proposto, per la prima volta, di mettere meritevolmente sul grande schermo. 
Se è così, ci si può solo rammaricare di un avvenuto contagio. Come non dovrebbe appunto accadere nel prodotto di un'arte, da ciò che si è inteso rappresentare, il tratto asfittico si è trasferito ai modi e alle forme dell'opera. E il risultato è che, attirato in sala dal tema e dal cast, lo spettatore pagante ben presto comincia a sbadigliare, perché si annoia.   

18 ottobre 2024

Lingua loro (48): "Incassare"

Il buono e vecchio ottenere non gode di buona stampa, ormai da tempo. Chi traccia la direzione della lingua e determina il suo futuro lo trova moscio, evidentemente. 
Solo per fare un esempio fantasioso: se il Ministro dell'Economia sottoponesse al Parlamento la proposta di nuova introduzione dell'imposta comunale sui cani (abolita, pare, nel 1974, con esiti testimoniati dal decoro urbano di tutte le città italiane) e, appunto sempre più fantasiosamente, il Parlamento approvasse, il giorno dopo dalle gazzette scritte e orali non si avrebbe come resoconto "Il Ministro Pinco Pallino ottiene l'approvazione della norma bla bla...". Si leggerebbe e si udrebbe invece "...incassa l'approvazione...".
I due lettori di Apollonio sono increduli? I risultati della semplice ricerca in rete delle sequenze "incassa... ha incassato... incassare l'approvazione" faranno sì che Apollonio "incassi" il loro consenso.
Non va diversamente infatti con "il consenso", "l'appoggio", "il sostegno", "il plauso" e, esemplare, "l'endorsement". E fin qui, si può pensare, niente di strano. E niente di strano, una volta assuefatti, se "incassa un pareggio" o "una vittoria" una squadra di calcio, se "incassa un 28" il candidato a un esame universitario, se "incassa il Leone d'oro" una pellicola cinematografica e così via. 
Come prova che la catacresi (un momento di pazienza: a breve ci si torna) è tuttavia in avanzato stato di consolidamento e che, non solo ottenere, ma anche ricevere e addirittura subire rischiano di venirne travolti, adesso "si incassa la contestazione", "la bocciatura", "la disapprovazione", "il rifiuto" di qualcuno. Di conseguenza, uno sportivo "incassa una (sonora) sconfitta", un progetto "incassa un rinvio" o "uno stop" e, sul mercato, l'auto elettrica "incassa un (catastrofico) flop" . 
E siccome la lingua è il quid d'ogni perversione, anche se la locuzione è formalmente identica, ciò che si vuole dire con (esempio autentico) "Meloni incassa la bocciatura politica del salario minimo..." è ben diverso da ciò che si vuole dire con (esempio autentico) "Shell incassa la bocciatura di Credit Suisse". Nel primo caso,  "Meloni [felice] ottiene...", nel secondo "Shell [tutt'altro che felice] riceve...". Oggi incassare è vox media, verrebbe fatto di dire. Si "incassa" di tutto.
Illustrare il tropo ideale che soggiace a questi "abusi" (valeva questo catacresi quando - e fu catacresi - sorse come termine retorico e grammaticale) rischia di essere ridondante: la cassa che procura la base lessicale del derivato incassare non è ovviamente quella da morto. Ed è questa ancora una prova che, come nel caso accademico (modesto e locale) di crediti formativi e di molto, molto altro, ad animare e ispirare una lingua siffatta come lingua di questo tempo è uno spirito di micragna bottegaia.