4 marzo 2025

Impossibile non amare il cinema...

 


...quando è capace di dire, con una sorta di ironico e amaro aforisma, tutto ciò che va detto di un paradosso perenne: la labile ed effimera compagine che volta per volta mette insieme, opponendoli, il "con" e il "contro". 

2 marzo 2025

A frusto a frusto (142)

 



Un potere che si fa vanitosamente rabbioso proclama, lo sappia o no, il suo inesorabile tramonto.

27 febbraio 2025

Il CEO di una "company" millenaria

"Chi governa la Chiesa?" si legge e si sente chiedere, con affettata premura, sulle gazzette scritte e parlate in questi giorni. L'attuale papa di Roma, come si sa, non sta bene e da un po' si trova in ospedale, sottoposto a intense cure.
Per chi, creda o non creda, prova a tenere in conto lo spessore culturale che al mondo conferisce una religione, qualsiasi religione, come manifestazione, appunto, di una cultura umana, c'è, in una domanda siffatta (e nelle comparabili), una lampante prova della desolante, spietata, totalitaria piattezza con cui correntemente viene ormai trattata la vicenda della specie, in ogni suo aspetto.
Caso mai ancora ci fosse bisogno di dirlo, per l'attuale e globale Weltanschauung, tutto è management. Tutto va amministrato, perché tutto è soprattutto oggetto di amministrazione (il modello? Buna Monowitz). 
E con un sorriso irriverente e ben augurante per la salute di quell'uomo anziano e malato, Apollonio spera che lui, almeno lui, se sa, come probabilmente sa, della domanda, ilare stia pensando: "Che sciocchezza! Sono solo il vicario, non l'immortale CEO di questa company millenaria".

19 febbraio 2025

Cronache dal demo di Colono (73): Ancora "Mamma", ma soprattutto "Vorrei, ma non..."


"Mamma, stasera non ritorno" è l'incipit del tormentone del momento: "tutta l'Italia, tutta l'Italia, tutta l'Italia ah...". Esso si avvia a diventare la canzone dell'estate e, sempre sotto il segno delle relazioni famigliari, si candida a fungere da (alternativa popolare all') inno nazionale, che, come si sa, si apre invece con "Fratelli...". 
Di passaggio, qualche giorno fa, s'era qui fatta d'altra parte cursoria menzione della Mamma come costante tematica della canzonetta italiana: Se n'era colta una variazione timica, tra passato e presente, nella sua più recente epifania sanremese. L'immagine della Mamma italiana vi sconta infatti il declino cognitivo che, fuori di festeggiamenti che hanno l'aria di essere posticci,  colpisce la nazione. Di essa è ormai appropriata sineddoche e adeguato emblema una Mamma appunto la cui senilità non si accompagna più, come un tempo, a una dolce saggezza, ma alla demenza e alla perdita della memoria. Dietro le sdolcinature del testo specifico e i suoi legittimi intenti commerciali, avrebbe potuto esserci specchio più veritiero? 
Apollonio non aveva fermato ulteriormente la sua attenzione sul resto della merce presente in quella fiera musical-letteraria. Ed è stato un errore. Glielo fa notare (e quasi glielo rimprovera) una persona con cui Apollonio corrisponde da un quarto di secolo e che, di conseguenza, di Apollonio conosce e condivide parecchie fissazioni, come il gusto per l'osservazione quotidiana non tanto delle parole, ma di quelle forme e di quei concetti grammaticali che, come insegnava Edward Sapir, sono il vero nocciolo funzionale delle lingue (e del pensiero).
Ebbene, la persona in questione ha osservato, informandone Apollonio, che il quid ideologico corrente della competizione sanremese è procurato dal suo esito. Le quattro canzoni che sono risultate favorite, "il podio", come si dice adesso con metafora sportiva, e quella a immediato ridosso, pur nelle loro differenze tematiche, hanno un tratto che le accumuna. Eccolo, per specimina:

Prima classificata. Balorda nostalgia: "Io le ho risposto che vorrei vorrei vorrei vorrei vorrei vorrei vorrei tornare a quando ci bastava ridere, piangere, fare l'amore...".

Seconda classificata. Volevo essere un duro: "Volevo essere un duro che non gli importa del futuro un robot un lottatore di sumo uno spaccino in fuga da un cane lupo... Volevo essere un duro...".

Terza classificata. L'albero delle noci: "Vorrei cambiare la voce vorrei cantare senza parole senza mentire per paura di farti soffrire vorrei cantarti l'amore amore il buio che arriva nel giorno che muore...".

Quarta classificata. Battito: "Vorrei guarire ma non credo vedo nero pure il cielo vetri rotti schegge negli occhi...".

Ammesso che, nei testi e nei discorsi, le parole in quanto tali esistano (la questione è complessa e Apollonio non vuole annoiare qui i suoi due lettori), volere è sempre ben più di una parola e non c'è testo o discorso che ne alberghi un'epifania che non sia determinato dalla sua ingombrante portata predicativa. 
Come espressioni, tra dire Parto e dire Voglio partire, per fare l'esempio più banale, c'è un abisso. Un abisso al cui fondo c'è, come concetto grammaticale (Sapir, appunto, e Benveniste), una caratterizzazione morale del soggetto, che nel caso specifico è una prima persona.
La faccenda diventa più gustosa e intricata quando ad attualizzare volere e il suo soggetto di prima persona sono modi e tempi che (si scusi il bisticcio) ne modalizzano appunto il valore. Vorrei (come modo) e volevo (come tempo, ma in realtà anch'esso come modo) sono due casi esemplari e, spesso, in eventuale commutazione di registro, valgono come mere varianti (Coseriu e Ambrosini). Vorrei o Volevo aggiungere qualcosa... dice per esempio e alternativamente chi si propone di intervenire in una discussione. Una voglia in sordina, che si atteggia a perenta, meglio, a non attuale.
Va a questo punto precisato, a scanso di equivoci, che forme come vorrei e come volevo, con il loro pesante portato, sono da sempre tutt'altro che rare nelle canzonette: è una parte importante di ciò che, come cascame, esse hanno ereditato dall'"io" lirico della tradizione romantica e tardo-romantica.
Il narrato di ciascuna delle quattro tuttavia permette di integrare l'osservazione generale con un'interessante e contemporanea prospettiva pragmatica. A riassumerla con una battuta, come qui è indispensabile, si è nei quattro casi davanti a un 'vorrei (o volevo), ma non posso (o non ho potuto)'. Condizione (esistenziale o, se si preferisce, di vita) che si combina bene, oggi, con un ulteriore tratto comune dei componimenti: l'inequivocabile genere maschile dei quattro "io" che vi prendono la parola. Nelle quattro canzoni, insomma, pur nelle differenze, ha uniforme presenza un "io" maschile dal volere esposto, ma ben più che attenuato. Forse, affatto frustrato. Aggiungere qualcosa, in proposito, sarebbe ridondante.
Sopra la musica popolare, è un luogo comune che si menzioni e si citi L'éloge de la mauvaise musique di Marcel Proust, ma a questo punto, ringraziando chi, ammonendo il distratto Apollonio, ha procurato lo spunto a questo frustolo, cursorio perlomeno quanto il primo, la lettura del relativo passaggio è d'obbligo: "Détestez la mauvaise musique, ne la méprisez pas. Comme on la joue, la chante bien plus, bien plus passionnément que la bonne, bien plus qu'elle, elle s'est peu à peu remplie du rêve et des larmes des hommes. Qu'elle vous soit par là vénérable. Sa place, nulle dans l'histoire de l'Art, est immense dans l'histoire sentimentale des sociétés. Le respect, je ne dis pas l'amour, de la mauvaise musique n'est pas seulement une forme de ce qu'on pourrait appeler la charité du bon goût ou son scepticisme, c'est encore la conscience de l'importance du rôle social de la musique" (Les plaisirs et les jours, XIII).


16 febbraio 2025

A frusto a frusto (141)


Corporale o spirituale che sia, la consapevolezza di sé cresce proporzionalmente all'innalzamento della soglia del dolore.  

13 febbraio 2025

La Mamma, nella canzone italiana. Solo uno spunto...

 ...naturalmente. Il tema è infatti molto impegnativo e chiama in causa competenze e conoscenze storiche, antropologiche, musicali, psicologiche, linguistiche. 
Culturali, insomma, in più di una disciplina, se non in più di una dimensione del mondo e, in particolare, della nazione che si esprime nella lingua del sì. Ben al di là di ciò cui può attingere questo diario.
A procurare lo spunto è tuttavia l'attualità: il settantacinquesimo Festival della canzone italiana, in quel di Sanremo (sia detto di passaggio: anche la grafica del suo logo decreta che 2025 è ormai definitivamente venti-venticinque: qui, quanto si scriveva in proposito quasi un anno fa).
Ebbene, la canzone che vi sta facendo il massimo scalpore ha per tema la Mamma. S'intitola (caso mai i suoi due lettori non lo sapessero già) "Quando sarai piccola": è una straniante acutezza che, rovesciandolo, richiama naturalmente il "quando sarai grande..." che una persona adulta indirizza familiarmente a una bimba. Autore e interprete della canzone Simone Cristicchi: artista uso a mettere in versi e musica vicende sociali commoventi, godendo della relativa reputazione. Apollonio prima ne ha appreso qualcosa, quindi ne ha fatto verifica
La circostanza è a suo modo consolante: gli Italiani non cambiano. E non si tratta, si badi, di un uso del maschile detto esteso, ma di maschile a tutti gli effetti, verrebbe fatto di pensare. Ove la canzone di Cristicchi trionfasse nella competizione (c'è chi dice avverrà: lo si saprà prima della fine della settimana in cui questo frustolo viene steso e compare), non sarebbe la prima dedicata alla Mamma a farlo. 
Gino Latilla e Giorgio Consolini (allora usava così) portarono infatti alla vittoria "Tutte le mamme" nell'edizione del Festival del 1954, la quarta. L'alter ego di Apollonio solo da poco aveva in quei mesi superato la fase della lallazione e se la sentì cantare intorno, a buona ragione, negli anni a venire.
D'altra parte, da un quindicennio un tormentone era già "Mamma", paradigmatica anche nel titolo. Beniamino Gigli (e non un Pinco Pallino dalla voce gracchiante) ne aveva fatto una hit nazionale, internazionalmente riconosciuta come ben accetto prodotto culturale del più tipico spirito italiano. 
Tra campi e cantieri, dentro e fuori dei confini nazionali, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta la si sentiva cantare. Erano anche tempi di emigrazione, soprattutto maschile, e, lasciando la patria (che curioso bisticcio tra sentimento morale ed etimologia!), si lasciava la madre: si usciva dal suo grembo. Dunque, alla madre gli Italiani, testimonia la canzone, aspiravano a tornare (si intenda la cosa nel senso che si vuole: eventualmente in quello dissacrante di una fulminante battuta di Woody Allen). 
Se l'orizzonte morale degli Italiani, mammoni, non è dunque complessivamente cambiato, molto cambiata è la Mamma, nella nuova prospettiva. In ogni caso, un tratto permane, nei tre concordi campioni: la Mamma invecchia. "...e gli anni passano... le mamme imbiancano...";  "...sento la mano tua stanca... oggi la testa tua bianca...", dicevano in proposito gli stagionati. 
Del capo della mamma, il più recente non procura a sua volta un'immagine esteriore, ma interiore, prodotta dall'avanzare negli anni. I toni sono quelli di una cura filiale, ma elegiaci (la presente non è epoca atta ad accettare altro), e dicono che, invecchiando e, forse anche incanutendo, la Mamma soprattutto non c'è più con la testa (dolorosamente: Apollonio lo sa).
Bisogna ammetterlo per l'ennesima volta. Non c'è specchio che renda meglio l'immagine della nazione del Festival della canzone italiana di Sanremo. Proprio in quanto nazione, dotata appunto di un comune sentire, essa vi si celebra in effetti ormai da tre quarti di secolo.
E oggi, con il suo festival di canzonette, l'Italia si riconosce in una Mamma ormai suonata (ohibò!). Una Mamma che ha perso consapevolezza di sé, della sua storia, dei suoi figli. E alla quale, con tono di amorevole condiscendenza, non resta che dire, concludendo: "...adesso è tardi, fai la brava, buonanotte". 
      

9 febbraio 2025

Linguistica candida (73): Nomi propri. Embè?

Il nome proprio è un ineffabile mistero, riflesso, come si sa, fin dentro le Tavole della Legge affidate a Mosè e da lui originariamente divulgate. Allo spirito grosso di Apollonio (e a quello comparabile, se non più grosso, del suo alter ego), esso si presenta però nella maniera meccanica della sintassi, che è come dire "della composizione" (non si dovrebbe mai omettere di chiarirlo, caso mai sfuggisse).
Ciò non vuole dire che siano a suo avviso infondate o, si direbbe con Galileo, "di lana caprina", le questioni che si addensano sopra il tema per ogni sorta di pensiero esoterico e di correlata pratica (religioni, logica, filosofia e chi più ne ha più ne metta). 
Non nega di averne il sospetto, tuttavia. Forse per mascherare una scarsa fiducia in se stesso. Di fronte a esse, prova infatti un senso di inadeguatezza di capacità e competenze. Ad attirarlo, al contrario, sono faccende minuscole. Un esempio? Quattro (fra gli innumerevoli possibili).
A sequenze come arrivafelice ([ar'ri:vafe'li:tʃe]), labiondacantava ([la'bjondakan'ta:va]), recitabene (['rɛtʃita'bɛ:ne]), vieneassunta ['vjɛneas'sunta], chi le ascolta assegna immediatamente e implicitamente differenti analisi e quindi valori diversi (cioè diverso significato e, si badi bene, anche se non pare, diverso significante) secondo che, per dirla con il comodo artificio concesso dall'ortografia, nel primo caso intenda felice o Felice, nel secondo, la bionda o La Bionda (Carmelo), nel terzo, bene o Bene (Carmelo), nel quarto assunta o Assunta. Perché?
Attenzione: rispondere snocciolando oppositivamente i relativi termini categoriali (aggettivo o nome proprio, nel primo caso; nel secondo, articolo e nome comune o nome proprio; nel terzo, avverbio o nome proprio; nel quarto, participio o nome proprio) è produrre tautologie. I termini categoriali, con i loro riferimenti, sono infatti mere chiose parafrastiche del problema, non sue spiegazioni. 
Nella sua interezza, la grammatica dei grammatici (che oggi passano per linguisti) ha d'altra parte questo carattere: è un modo di assegnare un nome ("proprio": cioè un termine) a qualcosa, illudendo (e forse illudendosi) che ciò equivalga a chiarirla, quando consiste soltanto nel servirsi di etichette millenarie e non pensarci più. A frequentare certe opere che si pretendono linguistiche, "Warum? Hier ist kein Warum" verrebbe fatto di commentare, per fortuna solo ironicamente, ricordando il tragico resoconto che Primo Levi fece del fallimento della ragione moderna.
Per farsi appunto una ragione di quisquilie come le menzionate, all'alter ego di Apollonio, come forse sanno i due lettori di questo diario, è capitato qualche anno fa di scrivere addirittura un libro sulle procedure con le quali nella lingua si producono (talvolta, per poi sciogliersi) quei coaguli funzionali che per tradizione grammaticale vengono appunto detti nomi propri (e anche di pubblicarlo, grazie alla benevolenza di un amico)
Vi ha messo dentro un po' delle riflessioni e delle divagazioni che ha dedicato al mistero dei nomi propri, in qualche decennio di scapestrataggine disciplinare (non vige oggi un corrivo culto degli ossimori? Si lasci che anche questo diario vi indulga, di tanto in tanto). A ispirarle, lo si ribadisce, solo il desiderio, strettamente personale, di capirci qualcosa.
Declinato intimamente, tale desiderio è in fondo solo il modesto riflesso di un'attitudine tipica dell'epoca che, nei suoi estremi bagliori, procurò la provinciale formazione di Apollonio e del suo alter ego. L'utopia (di nuovo) moderna (ma ci fu mai evo più contraddittorio?) di una conoscenza che prova a (o forse solo pretende di) ridurre un mistero, qualsiasi mistero, per sua natura indefinito, alla definizione di un problema. Meglio, di una serie di problemi, da affrontare uno per uno, ordinatamente, nella speranza di un'intelligenza che non se ne lasciasse sopraffare. 
Così insegnava un tempo, si pensi, già agli alunni e alle alunne della scuola primaria italiana, il racconto guerresco, ma per antica allegoria, della leggenda romana degli "Orazi e Curiazi", traendone l'indicazione di una prassi procedurale che, proprio in quanto tale, associava a un'etica una teoretica della ragionevolezza.

4 febbraio 2025

Vocabol'aria (22): Ascensore sociale

Della funzione della scuola, capita di sentire dare di tanto in tanto una suggestiva qualificazione figurata: ascensore sociale. Lamentandone spesso il cattivo funzionamento, è un modo per riferirsi agli esiti, possibilmente non solo individuali, di un'aspirazione. 
Ora è un sessantennio, Paolo Pietrangeli menzionò tale aspirazione nel verso di una sarcastica strofe della sua Contessa: "Anche l'operaio vuole il figlio dottore..." (il ritornello della fortunata canzone, come si sa, spiegava il sarcasmo).
La locuzione ascensore sociale deve tuttavia essere nata ben prima di quella sua illustrazione canora e poetica. Ascensore, nel valore oggi comune, è parola esemplata sul francese ascenseur, che ancora nel 1905 Alfredo Panzini diceva circolante in italiano come prestito: "Piccola ed elegante cabina che sale o scende lungo regoli nel vano delle scale de' grandi edifici moderni, per innalzare facilmente pesi o persone. Questa parola nei dizionari recenti è fatta italiana in ascensore, ma nell'uso prevale la parola francese".
E nel corso (della prima metà) del Novecento, se non prima, sarà stato il discorso della sociologia e della politica d'Oltralpe a procurare l'ambiente propizio alla nascita di ascensore sociale, come metafora poi trasferitasi nell'italiano. 
La sfera semantica che essa arricchisce è infatti un carattere tipico e generale del Moderno, contrapposto all'Ancien régime e ai suoi cascami: la mobilità sociale. Non lo si ricorda mai, ma emblematica in proposito fu e resta appunto la vicenda di quell'ufficialetto còrso che, ante litteram, montando sopra un velocissimo ascensore militare (non c'è solo lo scolastico e ne esiste anche uno ecclesiastico, come si sa), si fece imperatore. Per indubitabili meriti.
Ascensore sociale, come polirematica, non ha trovato menzione nel Grande dizionario italiano dell'uso diretto da Tullio De Mauro, ancora nel 2000, né si è affacciata, quattro anni più tardi, nel Supplemento, diretto da Edoardo Sanguineti, del Grande Dizionario della lingua italiana. In proposito, a nulla evidentemente servì la comune inclinazione ideologica e politica dei due importanti intellettuali. O forse percepirono la sottile scivolosità della questione cui la metafora presta la sua forma. Chi assicura infatti che "il figlio dottore", asceso materialmente e fattosi "dottore", continui, per ascesi morale, a sentirsi socialmente "figlio"? Gia nel 1928, con Zappatore, Libero Bovio, musica di Ferdinando Albano, aveva infatti illustrato populisticamente il caso contrario.
Quando ascensore sociale compare in un discorso, come illustrazione della funzione della scuola o della scuola tout court, si può infatti essere quasi certi che a parlare sia una parte politica che si atteggia a progressista. E siccome è un tropo, la locuzione è loquace testimone di un modo di vedere ciò cui si applica e la prospettiva che orienta lo sguardo. Come si è detto, il modo è propriamente moderno (giudichi chi legge se, in quanto tale, oggi non risulti perciò gravemente obsoleto). 
Moderna e, a essere precisi, del pieno Ottocento è d'altra parte l'apparizione, con rilevanza materiale e culturale, dell'oggetto designato dalla parola ascenseur per denotazione. I lessici francesi la dicono attestata appunto dal 1867 con questo significato. E del Moderno e di tutte le sue ideologie del progresso, la figura che ne discende porta lo stigma
Andare in su è, di norma, difficile e faticoso più di andare in giù. È quindi spiegabile, per una sorta di pertinenza, che si sia fatto ricorso a un derivato dell'inusuale ascendre, piuttosto che a uno del comune descendre, per designare (peraltro, c'è da credere tecnicamente, sulle prime) la "piccola ed elegante cabina" che va appunto tanto in su, quanto in giù. Pur essendo stata chiamata e continuando a chiamarsi ascensore, ci si infila in essa tanto per salire, quanto per scendere, come sa ciascuno. 
Ma quando la parola si presta a costituire una figura, il valore di connotazione emerge imperioso e la base della derivazione, di botto, si fa interpretazione esclusiva. Chi prospetta funzionalmente la scuola come un ascensore (sociale) pensa infatti a qualcosa che serve solo per andare in su e un'idea siffatta intende trasmettere.
C'è oggi da chiedersi, amaramente, se, come nel caso dello sviluppo economico e della crescita costante (di chi? a scapito di chi?), cioè di un nerbo ideologico della falsa coscienza del Moderno, una idea siffatta sia producente, non tanto come programma, quanto, si direbbe primariamente, come strumento volto a una migliore comprensione delle dinamiche sociali in atto, totalizzanti, forse meglio, totalitarie, da cui la scuola, come istituzione e come pratica, è ormai travolta. 
E c'è da chiedersi se, metafora per metafora, non valga la pena di chiamare allora in causa in proposito il vecchio adagio che, meno illusoriamente (o meno furfantescamente) e prima della prima, della seconda, della terza e dell'ennesima rivoluzione industriale e tecnologica, enunciava un'elementare e permanente verità: "Il mondo è fatto a scale: c'è chi scende e c'è chi sale".

25 gennaio 2025

Primo Levi e le vernici

"Io sono un chimico montatore, questo gliel'ho già detto, ma non le ho detto che sono specialista di vernici. Non è una specialità che me la sia scelta io, per qualche motivo personale: è solo che dopo la guerra avevo bisogno di lavorare, bisogno urgente, ho trovato posto in una fabbrica di vernici, e ho pensato «fai che ti basti»; ma poi il lavoro non mi dispiaceva, ho finito con lo specializzarmi, e in definitiva ci sono rimasto": è La chiave a stella di Primo Levi e a parlare è il personaggio che vi fa anche da narratore. Una proiezione dell'autore nei modi che rendono autentica e impareggiabile la prosa di Levi: scevra di soggettivismi, tanto quanto di infingimenti. Una prima persona specchiata, com'è rarissimo, e non solo in letteratura. Una prima persona miracolosamente priva dei viluppi del narcisismo e che, come una vernice fatta a regola d'arte, cola perciò liscia "dall'ugello del viscosimetro".
Se chimico Primo Levi fu per vocazione giovanile, specialista di vernici divenne quindi per accidente. Per accidente, d'altra parte, egli era divenuto sciente di Auschwitz e, sopravvivendo per accidente, se ne sarebbe fatto testimone, da casuale "salvato". Ma cosa più del caso è tratto costitutivo pertinente di un destino? Il destino: Erlebnis bizzarra e sempre disponibile di ciò che sta oltre l'umano. Nel "fare vernici" c'è dunque l'impronta del destino di Levi. E "fare vernici", lo dice lo stesso narratore dopo il passo che si è menzionato, è "un mestiere strano".
La chiave a stella lo sancisce, per quel personaggio narratore in cui l'autore si specchia. Le avventure del montatore Tino Faussone ne occupano la gran parte, ma gli episodi che, con l'intermezzo di "Le zie", concludono e, si può dire, perfezionano l'opera ("Acciughe, I" e "Acciughe, II") sgorgano dall'esperienza di chimico specialista di vernici del narratore e, celandosi dietro i titoli metonimici, ittici e alimentari, parlano in effetti di vernici.
Sull'opera e sulla vita di Primo Levi, c'è una letteratura così sterminata che è impossibile a un lettore dilettante come Apollonio dire se la circostanza sia mai stata messa nella luce dovuta e conseguentemente proiettata tra le osservazioni che potrebbero qualificare la sua vicenda complessivamente, ivi inclusa e principalmente, come è ovvio, quella di scrittore. Forse no. È questa l'impressione che si ricava dalla consultazione della voce "Vernici" presente in Primo Levi di fronte e di profilo, prezioso baedeker che, ora è un decennio, Marco Belpoliti ha donato alla comunità dei lettori e delle lettrici di Levi, traendolo generosamente dalla sua pluridecennale militanza nel campo.
Ma ecco ancora La chiave a stella, invece, e il suo narratore: "...in sostanza, [fare vernici] vuol dire fabbricare delle pellicole, cioè delle pelli artificiali, che però devono avere molte delle qualità della nostra pelle naturale, e guardi che non è poco, perché la pelle è un prodotto pregiato. Anche le nostre pelli chimiche devono avere delle qualità che fanno contrasto: devono essere flessibili e insieme resistere alle ferite; devono aderire alla carne, cioè al fondo, ma la sporcizia non deve aderirci su; devono avere dei bei colori delicati e insieme resistere alla luce; devono essere permeabili all'acqua e impermeabili, e questo appunto è talmente contraddittorio che neanche la nostra pelle è soddisfacente, nel senso che resiste bene alla pioggia e all'acqua di mare, cioè non si restringe, non gonfia e non si scioglie dentro, però se uno insiste gli vengono i reumatismi: è segno che un po' d'acqua passa pure attraverso, e del resto almeno il sudore deve passare per forza, ma solo da dentro verso fuori. Vede che non è semplice." Non fu semplice, d'altra parte, farsi una vernice, cioè una pelle, resistente ad Auschwitz, permeabile e impermeabile, e salvarla, la pelle, per un'inspiegabile combinazione.
Attraverso una similitudine al quadrato, la vernice come pelle, la pelle come attributo umano materiale e morale, la concretezza di Primo Levi procede infatti per allegoria. Il suo realismo è allegorico ed è la ragione profonda per la quale la sua opera, nella sua interezza e non solo per gli scritti di testimonianza, è comparabile alla dantesca. Del resto, nessun realismo autentico può essere diverso: è la figura che sostanzia qualsiasi rendiconto della realtà; è la figura che, dandole una lingua, la fa parlare. 
Insomma, anche per via di un'estrema esperienza di vita, il chimico (della materia e della parola) Primo Levi non smise mai di "fare vernici", come gli era stato assegnato dal destino. E di farle con coscienza, fin quando poté. Perché c'è più del sospetto che, come chimico, come scrittore, come persona, abbia infine constatato che di fare un'onesta vernice, in faccia alla vita, non fosse più il caso. Per una scelta vanamente ribelle al destino. 


 
      

17 gennaio 2025

"Mi è piaciuto" / "Non mi è piaciuto", come segnali del fallimento della formazione umanistica

Si cerca una prova del fallimento del modello di educazione alla conoscenza e alla fruizione delle arti e delle lettere che vige nel modello scolastico nazionale (dalle elementari all'università)? 
La si ha ogni volta che si sente un italiano istruito o un'italiana istruita commentare, se non unicamente, certo crucialmente con un "mi è piaciuto" o un "non mi è piaciuto" la propria esperienza di un libro, di un film, di un quadro, insomma, di un qualsivoglia prodotto di un impegno artistico. 
Varianti correnti e più enfatiche, come oggi si deve, sono in proposito "mi ha emozionato" o "non mi ha emozionato" e simili. 
Negli ultimi decenni, una situazione già grave si sta in effetti ulteriormente aggravando, in proposito. E quel che sembra innovazione è solo deteriore conferma di un tratto persistente di una cultura nazionale che non ci si deve peritare di qualificare, oggi più che mai, anche come popolare (e scadente).
Sono tutte lampanti e crescenti dimostrazioni che da anni di insegnamento, per dire così, umanistico (presente in misura variabile nella scuola italiana di ogni ordine e grado), gli italiani e le italiane ricavano soltanto "io" (o "noi", come sua superfetazione) come criterio e come strumento deputati allo sviluppo e all'espressione di uno sguardo critico sul mondo dello spirito.
Si trovano in pratica dotati e dotate solo di quel parametro infantile e grossolano che ciascuno possiede già da prima di entrare nel sistema della formazione e che sostanzia un gusto nativamente costituito, si direbbe con rivelatrice figura, nell'esperienza alimentare dei cucchiaini di pappa ingoiati nella più tenera infanzia. 

14 gennaio 2025

A frusto a frusto (140)



Persa che si sia l'occasione di diventare adulti da giovani, non lo si diventa mai più. 

12 gennaio 2025

Spettatore pagante (8): "Emilia Pérez" di Jacques Audiard

Del romanzo Écoute di Boris Razon chi scrive questa nota sa soltanto, per averlo appreso in rete, che ha fornito il soggetto al film di Jacques Audiard e che, a quanto pare, il medesimo regista aveva in origine il proposito di fare di quel soggetto un'opera lirica. 
E il soggetto si può dire sia il tratto di maggiore fascino di una pellicola peraltro ben riuscita in ogni altro suo aspetto, ma forse meno di come appunto sarebbe riuscita, sul medesimo soggetto, un'opera lirica. 
Chissà allora che Audiard non ci riprovi, con l'indispensabile alleggerimento del realismo spettacolare imposto da un palcoscenico teatrale, sul quale, per esempio, è impossibile, se non per mediata figura, mettere in scena il sanguinoso conflitto a fuoco tra bande di malviventi.
Al soggetto di Emilia Pérez non manca in effetti nessun ingrediente di quelli che rendono appassionante (quando lo è) il melodramma (quello classico, qui s'intende) e non c'è aspetto del suo sviluppo narrativo che non faccia appello alla figura che del melodramma è il perno: l'enfasi, nella sua variante patetica, naturalmente. 
Testimonianze dello stadio precedente di elaborazione del concetto costruttivo, sono rimaste nel film alcune scene in cui gli interpreti cantano e, intorno a loro, si sviluppa un balletto. Ciò ha fatto sì che si sia attribuita alla pellicola anche l'etichetta di musical, impropriamente. 
Gradevoli e plausibili, nell'insieme gli inserti non sono infatti tali né per numero né per rilievo narrativo da caratterizzare la pellicola. Sono piuttosto relitti allusivi di ciò che, come si è detto, il soggetto avrebbe potuto dare e non ha dato. O, che è quasi lo stesso, modi per fare toccare a chi si trova in sala la stoffa melodrammatica della fabula, la cui forma esteriore non pretende la verosimiglianza ed orna una morale tragicamente ironica. 
La vive e la trae, accompagnando chi assiste alla pellicola, una partecipe testimone intradiegetica: la giovane avvocata Rita Moro Castro, che viene convocata, con modi molto bruschi, da Juan "Manitas" Del Monte, sanguinario boss di un cartello messicano della droga. L'uomo vuole affidarle un compito difficile e oltremodo sorprendente: aiutarlo, nel più assoluto segreto, a compiere tutti i passi per sparire senza perdere le sue gigantesche ricchezze, diventando (e sta qui l'aspetto straordinario) una donna. Così egli dichiara di avere desiderato da sempre, per la sua realizzazione come persona, e di non avere mai potuto nemmeno rivelare questa aspirazione a chicchessia per le costrizioni impostegli dall'ambiente in cui è nato e a partire dal quale ha costruito la sua fortuna criminale.
Rita accetta, insofferente dell'ambiente ipocrita in cui si sta sviluppando con difficoltà la sua vita e la sua carriera professionale, oltre che attirata dal danaro che il boss le promette per remunerarla. E per la sua dedizione e il suo impegno, il desiderio di "Manitas" si compie. 
Il passaggio da un sesso all'altro del(la) protagonista coincide con la sua trasformazione morale: da uomo cattivo, si fa donna buona. Da malfattore a benefattrice, sotto il nome di Emilia Pérez. Né (si osservi a margine) deve essere privo di valore il fatto che il radicale mutamento si realizzi in Terrasanta e non, come il film in un primo momento prospetta possibile, in quell'Oriente iper-tecnologico e ultra-capitalistico che costituisce ormai il terribile orizzonte onirico di sviluppo per l'Occidente. Ipso facto, per il mondo intero, "Manitas" svanisce nel nulla. Ma egli svanisce anche per Emilia Pérez?
Per immagini, dall'oscurità permanente delle ambientazioni della sua prima mezzora, il film passa alla luce: gli sterminati mezzi finanziari accumulati dall'uomo cattivo con i segreti e le violenze del suo malaffare vengono pubblicamente rivolti dalla donna buona che ne è sortita a una (si badi bene, solo) funeraria riparazione dei lutti provocati tra la popolazione messicana. Alla donna buona, essi garantiscono inoltre un opulentissimo tenore di vita. Non solo a lei ma anche alla moglie e ai figli dell'uomo cattivo, che sono stati tenuti all'oscuro del cambiamento e, sulle prime, confinati in Svizzera, convinti inoltre che "Manitas" sia morto, ingoiato dai vortici delle faide malavitose.
La famiglia dell'uomo cattivo finisce tuttavia per mancare alla donna buona. E, sempre con l'assistenza della giovane avvocata, Emilia la richiama a sé, a vivere sotto il medesimo tetto. Si finge all'uopo un'affettuosa parente dell'uomo cattivo e da lui incaricata a provvedere in tal modo. 
Insieme con il potere che viene dal danaro, del suo passato di uomo cattivo, la donna buona tiene però ancora con sé una pistola, anche mentre si dedica al bene del prossimo. E con il gesto che compie in proposito l'interprete e con la relativa inquadratura, il film rivela la presenza dell'arma nel grembo di Emilia quando, inopinatamente innamorata, la esibisce di soppiatto a una vedova (si precisa, felice di essere tale) che diventa la sua amante. Sarebbe ridondante insistere qui sul valore simbolico dell'arnese, a quel punto della narrazione: come rivelatore dettaglio, esso è più che lampante. Sotto la donna buona, c'è ancora, se non un uomo, certamente ancora un suo vestigio. 
E mentre a Emilia poco importa che la giovane donna che aveva sposato quando era un uomo e dalla quale ha appunto avuto due figli si conceda a una sua vecchia passione erotica con un farabutto, il fatto che da quella passione si prepari a sortire un matrimonio le risulta intollerabile per una ragione che è difficile non considerare maschile. I figli di "Manitas" finirebbero sotto la paternità surrogata del farabutto, sfuggendo così alla sua, ancora pienamente effettiva e solo dissimulata dal femminile. Con un geloso sentimento paterno, sotto la donna buona e in funzione dei figli riappare così l'uomo cattivo. Ed è quanto, per traversie e colpi di scena, determina la catastrofe finale. 
Non si dirà tuttavia come questa si compie a chi legge questo diario e non ha (ancora) visto il film, che sul finale, tornando alle fitte ombre del suo esordio, prende appunto le cadenze della pellicola di azione. Quanto si è fin qui riferito è d'altra parte sufficiente a intendere l'allegoria, come si diceva, tragicamente ironica. 
Da uomo cattivo a donna buona, qualche profondo problema rimane, in funzione (di un viscerale valore) della discendenza, fin quando ci sarà, e non si può dire che quel problema sia di poco momento, per gli esseri umani, al di là del genere, ma anche, paradossalmente, in stretta relazione con esso.


10 gennaio 2025

Linguistica da strapazzo (53): Πάντα ῥεῖ...

...è il celebre motto attribuito a Eraclito, otto secoli dopo il momento in cui egli avrebbe potuto eventualmente proferirlo. Tutto scorre ne è, come si sa, la resa italiana. Essa rende compiuta giustizia all'originale? No, è il parere di chi scrive questo frustolo da strapazzo. C'è, se così si vuole dire, perlomeno un residuo. Perché, nell'originale, πάντα è plurale e ῤεῖ non lo è, mentre ciò che si vuole corrisponda al motto in italiano non presenta il bisticcio di numero. In tutto scorre, tutto scorre liscio, da tale punto di vista, perché tutto e scorre sono ambedue singolari: c'è tutto e questo tutto scorre. 
I due lettori di questo diario, cui non mancano certo le relative conoscenze, diranno che l'osservazione è superflua e vana la correlata inquietudine.
Per sedarla, come farebbe un farmaco da banco, basta infatti il pizzico di dottrina un tempo procurata dalla frequenza, anche la più svogliata, di un paio di anni di ginnasio.  
A fare da soggetto della proposizione in questione, un pronome indefinito (quindi di terza persona: la non-persona, per dirla con Benveniste), certo di numero plurale, ma di genere neutro. E, in quella antica lingua, quando il soggetto di una proposizione era di genere neutro (nome o pronome, poco cambiava), il suo numero, alla morfologia verbale, non faceva di norma né caldo né freddo. 
Gli si combinava solitamente una forma verbale al singolare. Per il verbo di una proposizione, in altre parole, il minimo sindacale: terza persona singolare. Ciò che, sotto altri cieli, non ci si perita di definire come una forma impersonale. Quanto bastava insomma a dire che la proposizione in cui quel verbo ricorreva era di modo finito (con le correlate informazioni di stretta pertinenza verbale: tempo, aspetto...). Nel caso in questione, un presente gnomico: il presente che vale a enunciare verità fuori del tempo. Che è come dire che πάντα ῤεῖ non scade (e quindi, a suo modo, non scorre? Bel paradosso!).
Ma sono queste serie faccende da filosofi. Qui ci si occupa piattamente del commercio del numero grammaticale tra il soggetto e il verbo. Decisivo a determinare la forma del verbo nel caso di soggetti di genere diverso dal neutro e, a fortiori, di persona diversa dalla terza; trascurabile invece, data la presenza di un soggetto di genere neutro, in un caso come quello di πάντα ῤεῖ, dice la dottrina. Tutto liscio anche qui, dunque.
Beninteso: chi si contenta gode. Ma c'è chi è d'indole incontentabile (δύσκολος, appunto) e si destina a durature sofferenze o, va detto, a spassi sempre rinnovati. E osserva che, per sanare un conflitto in una combinazione di numero, la pezza riparatrice tira in ballo una categoria perlomeno altrettanto, se non più scabrosa: il genere. Neutro? 
In greco antico, al pari di ciò che accade in lingue apparentate, di neutro in quanto genere grammaticale si cercherà inutilmente una qualificazione diversa da quella che si ottiene correlando in proposito funzione e forma. Ci sono infatti nomi e pronomi che variano per forma in dipendenza dalla funzione sintattica assolta. Tra le altre forme (nella presente discussione, trascurabili e di nessun rilievo contrastivo), in modo specifico essi hanno una forma quando circolano come oggetti e una diversa quando circolano come soggetti. Nomi e pronomi che si comportano così in blocco, li si distingue ulteriormente poi in maschili e femminili, per tradizione. 
Sono facili e seducenti etichette, si badi bene, metonimiche, quindi nettamente analogiche. Non lo si dovrebbe dimenticare mai, quando se ne percepisce il puzzo di stalla o quello di camerata, ancora più piccante ideologicamente. Non è la lingua a puzzare, si badi bene, ma la metalingua delle grammatiche e dei grammatici. Qui quelle etichette poco importano, in ogni caso, ma importa che il valore linguistico di quanto esse qualificano emerge precisamente dal fatto che ci sono invece nomi e pronomi che non presentano una differenza formale da correlare alla menzionata differenza funzionale. 
Neutri è l'etichetta che tradizionalmente designa nomi e pronomi che non si comportano come il blocco di maschili e femminili e va detto a merito di tale etichetta che l'analogia in tal caso puzza un po' meno. E se capita lo faccia, è perché la si mette nei discorsi a stretto contatto con maschile e femminile, termini grammaticali sempre sudaticci e febbricitanti, perché fortemente settici (in questi anni lo si sta sperimentando). 
Che nomi e pronomi detti neutri non presentino differenze formali succede allora perché, nei contesti in cui capita di osservarli e in presenza della menzionata distinzione funzionale, essi le sono formalmente insensibili? O perché in quei contesti, semplicemente, la distinzione funzionale non si dà? Perché, in altre parole, le due funzioni vi si neutralizzano, rendendo ipso facto ridondante ogni eventuale differenza formale? È un bel dilemma e va ben oltre la portata di questo diario e di un suo frustolo. 
Per sineddoche, equivale infatti a chiedersi che valore abbiano, in greco antico, come nelle lingue apparentate, le diverse manifestazioni della morfologia nominale e pronominale una volta che tale morfologia si sia fatta uscire dalle tabelle con cui essa viene ingabbiata e presentata come una tassonomia di enti e la si sia invece restituita, per intero e senza residui, al fondamento squisitamente combinatorio da cui eventualmente, nelle sue differenti fattispecie, essa emerge appunto come fenomeno.
Resta tuttavia già così l'impressione (ed è quanto basta a questa sortita) che nella intrinseca costruzione linguistica di πάντα ῤεῖ il dissidio di numero valga qualcosa che la liscia apparenza di tutto scorre non riesce a restituire. Per via di veloce comparazione, già sopra si era alluso in proposito a una impersonalità. 
Da quel dissidio, tutt'altro che trascurabile, sebbene ovvio, il succo del motto è posto, processualmente, in una sorta di autonomia funzionale della forma verbale, in nulla debitrice del pronome che, ammesso e non concesso figuri funzionalmente come soggetto della proposizione, accompagna in realtà il verbo come potrebbe farlo una predicazione avverbiale. Fuori dell'ipoteca implicita di qualsivoglia corriva ontologia, si direbbe insomma e conclusivamente, πάντα ῤεῖ vale Scorre, universalmente.

1 gennaio 2025

Linguistica candida (72): Le lingue cambiano...

Da qualche secolo, con regolarità (e l'attitudine è loquace indizio di persistente spirito infantile), c'è chi pretende che una lingua cambi secondo le sue idee, le sue intenzioni e i suoi desideri.  Non sa che le lingue cambiano, certamente, ma solo per opera di coloro che, privi di ogni correlato proposito, sono ingenuamente inconsapevoli che, esprimendosi, le stanno cambiando. 

D'altra parte, le lingue cambiano perché coloro che vi si esprimono non controllano compiutamente, tanto meno capiscono fino in fondo ciò che la loro facoltà linguistica consente loro di esprimere. Senza essere esclusivo, tale tratto è tipico, prima psicolinguisticamente, quindi sociolinguisticamente, di coloro che, per tradizione, sono qualificati come semi-colti.

E la velocità del cambiamento è direttamente proporzionale al numero e alla rilevanza sociale degli inconsapevoli della propria espressione, di coloro che non sanno cosa dicono e scrivono. Maggiore è il loro numero, maggiore è il loro rilievo nei consorzi umani che li contengono, più rapido sarà il mutamento della lingua in cui quei consorzi si esprimono.

28 dicembre 2024

Lingua nel pallone (9): "il classe 2005", "braccetto", "quinto"

Gergo e terminologia, come si sa, sono intrecciati. E si vive in un'epoca in cui non c'è attività il cui gergo non sia continuamente sollecitato a rinnovarsi dalle incessanti innovazioni della tecnologia, pena l'essere percepita immediatamente come obsoleta. 
Segue ovviamente l'andazzo anche la fantasiosa tecnica calcistica, con correlate innovazioni terminologiche, riflesse e amplificate dalle cronache sportive.
Quinto e braccetto (destro o sinistro) ne sono recenti esempi. 
Già quasi tre lustri or sono Apollonio rivolgeva un pensiero nostalgico alle parole perdute che denominavano i ruoli ancora negli anni della sua infanzia e della sua giovinezza. E un moto di tenerezza gli ha procurato una di queste sere il lapsus, subito corretto, di un telecronista, a commento dell'ingresso in campo di un giocatore nel corso di una partita: "...prende il ruolo di terz... sì di braccetto sinistro".
Quanto al sinonimo quinto c'è da chiedersi (forse uno dei due lettori di questo diario conosce la risposta) come mai si sia appunto passati a derivare da cinque e sia abbandonato tre. Svalutazione? Non è da ieri, d'altra parte, che chi disquisisce di calcio lo fa dando i numeri (cardinali): 3-4-3, 4-5-1...
La lingua nel pallone ha poi messo (momentaneamente) fuori corso sedicenne, diciassettenne, diciottenne, diciannovenne, ventenne, (forse) ventunenne e (anche) ventiduenne. Oltre, pare ad Apollonio non si vada. Quando si tratta di designare calciatori, da presentare come (ancora) giovani, di conseguenza, sottolineandone la verde età, si è imposto il modulo "il classe [anno di nascita]" (ghiotto dal mero punto di vista lessicologico). 
Per altri versi, l'uso olezza in effetti di leva e di caserma, ma si tratta appunto di una questione di età e di gusto. A gente meno anziana di Apollonio, parrà forse neutro e persino grazioso. A chi, come Apollonio, ne percepisce il sentore militaresco, magari senza avere più memoria e consapevolezza che ci furono "i ragazzi del 99", procurerà un gradevole brivido. Così sin dal giovinetto Patroclo di Omero: di certo, "un classe vattelappesca". Uno sport in cui c'è chi vince e c'è chi perde è, come si sa, compiuta allegoria della guerra.   

22 dicembre 2024

Bolle d'alea (37): Picabia


"Le bonheur pour moi, c'est de ne commander à personne et de ne pas être commandé", scrisse Francis Picabia nel luglio del 1917 e Apollonio fa sue tali parole. Ci vuole poco d'altra parte a intendere anche il contesto di quel pronunciamento. Esso trascende tuttavia qualsiasi accidente, anche il più gigantesco. Vale umanamente per ogni tempo e per ogni luogo.
Ed essere partecipe della felicità come l'intese Picabia è quanto questo diario augura a chi amichevolmente lo legge, quando per la ventesima volta dal momento in cui è apparso in rete - e si stenta a crederci - giunge il canonico periodo di uno scambio dei voti.

13 dicembre 2024

Sommessi commenti sul Moderno (30) e sull'Ultra-Moderno (7): Saggezza, scienza, tecnologia

Pretendendo di farlo sopra una vana sapienza e sull'ignoranza, or sono alcuni secoli la scienza infierì sulla saggezza e la debellò. Fu un passo in avanti, si finì per pensare. Ma lo fu veramente una scienza che, nel suo entusiasmo, covava un seme di dissennatezza? 
Adesso, sulla scienza senza saggezza infierisce straripante e incontrollabile la tecnologia e si può dire l'abbia già debellata. 
La saggezza è a questo punto così lontana dagli spiriti che sperare vi riaffiori è solo un'illusione. Riaffiorano impetuose invece vana sapienza e ignoranza, contro le quali evidentemente né scienza senza saggezza né tecnologia hanno potuto nulla. 
Anche perché scienza senza saggezza e tecnologia, come dicono le loro avventatezze, di ignoranza e vana sapienza sono forse solo sofisticate manifestazioni (né ne è esente, com'è ovvio, questo frustolo medesimo che galleggia, stolto messaggio in bottiglia, sulle onde di una tecnologia).

6 dicembre 2024

Linguistica candida (71): Semplicità della lingua

Ad Apollonio non sono mai andate a genio la scimmiottature delle scienze della natura messe in scena di tanto in tanto da coloro che, come lui, pretendono di occuparsi della lingua. E, pur nutrendo ammirazione e fiducia per gli avanzamenti di conoscenza che vengono da quel lato della ricerca umana (lo si precisa a scanso di equivoci), resta sempre scettico in proposito quanto alla partizione tra il duro e il molle. 
Da parte di chi rivendica per sé la prima qualificazione, gli è sempre parso perlomeno un (adolescenziale) difetto di eleganza. Molto meglio sarebbe che si fosse tutti capaci di riconoscere lo stato delle rispettive ignoranze (e delle correlate impotenze), non per piangersi addosso, ovviamente, ma per maturo sentimento di fraternità: con buona volontà, da ogni punto di vista, ci si prova, insomma.
Ciò premesso e non per paradosso, ma nella medesima vena, Apollonio e il suo alter ego, da quando le conoscono, hanno trovato congeniali al loro ozioso lavoro sulla lingua le parole che Richard Feynman, il celebre fisico statunitense, proferì nel corso di un'intervista televisiva (Take the world from another point of view, ne era il titolo e ebbe luogo nei primi anni Settanta del secolo scorso): "...and nature is no doubt simpler than all our thoughts about it now. And the question is, what way do we have to think about it so that we understand its simplicity?".
Basta che a natura vi si sostituisca lingua ed esse fanno precisamente al caso della disciplina che le si dedica. E la domanda principale di tale disciplina diventa la medesima che Feynman assegna alle scienze della natura: come pensare la lingua in modo tale da comprenderne la semplicità? 
Fu, a ben vedere, la domanda che si pose a suo tempo Ferdinand de Saussure, fornendole una risposta, come appunto si deve, nei termini sperimentali di un metodo. 
Con qualche sporadica applicazione nel corso del Novecento, esso è sostanzialmente rimasto lì e attende di essere messo all'opera con rigore da una ricerca finalmente priva di millenari e sempre rinnovati (pre)concetti, dottrinali, appunto, più che scientifici.     

30 novembre 2024

Lingua loro (50): "...non fa sconti"

La temperie ha nello sconto un suo divino feticcio e gli dedica da un po' una festa comandata, come si sa, in anticipata e concorrente convergenza con il Natale.
Poco da stupirsi, quindi, se a mo' di contrappasso rituale ha concepito una correlata locuzione: quasi uno scarico morale. 
Come l'incassare di cui s'è detto ora è qualche settimana, si tratta di una catacresi bottegaia e spesseggia nella lingua della comunicazione pubblica d'oggidì.
Capita che l'opposizione non si allinei a una scelta europea del governo (è ciò che fanno di norma le opposizioni, d'altra parte): "Commissione UE, Elly Schlein: «Non faremo sconti...»". Non è ovviamente in gioco una transazione economica e se fosse necessario argomentare la pacifica natura figurata del discorso in genere e del discorso politico in particolare, ecco appunto un ottimo esempio. Udendo o leggendo una dichiarazione siffatta, in effetti a nessuno passa giustamente per la testa che la personalità che l'ha rilasciata stia dicendo con essa che ci sarà una vendita in proposito e che sarà a prezzo pieno. 
Che si sia davanti a un tropo fantasioso (ma rapidamente fattosi frusto) è ancora più evidente quando in ballo c'è proprio del denaro. Nell'ordinamento nazionale è infatti lo Stato che trasferisce risorse finanziarie ai Comuni. Eppure, a commento del fatto che ciò si verifica da qualche tempo in misura decrescente, sulla stampa si legge: "Il governo non fa sconti ai Comuni. Ecco la mappa di cinque anni di tagli". 
A essere obbligate a praticare sconti, per così dire, all'amministrazione centrale sono dunque le amministrazioni periferiche. E, se lo si prendesse alla lettera, il titolo di quel resoconto giornalistico direbbe irragionevolmente il contrario, con una stridente contraddizione. 
Naturalmente, nessuno bada alla lettera e a tutti è familiare l'abuso. O, come si diceva nel frustolo che s'è menzionato in apertura, la catacresi. Alla sua luce, in una sorta di universale mercato, ci sono oggi docenti che non fanno sconti ai loro studenti, pubblici ministeri che non fanno sconti agli imputati, pazienti insoddisfatti che non fanno sconti ai loro medici curanti e così via. Né si vede all'orizzonte l'eventualità che anche in proposito si proclami prima o poi un Black Friday.

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Passano poche ore dalla pubblicazione di questo frustolo e in rete Apollonio inciampa nella promozione di un quotidiano che, sotto la foto di due importanti rappresentanti dell'attuale governo, promette una temporanea riduzione del prezzo di abbonamento con queste parole:


Da vecchio didatta pedante, ne consiglia la menzione a chi volesse illustrare come la differenza tra valore proprio e figurato di una locuzione si presti alle acutezze (se così si vuole dire) della comunicazione commerciale. 




17 novembre 2024

Onomastica cinematografica (2): Anora

Anora è il titolo del film più recente di Sean Baker, sceneggiatore e regista americano, ed è il nome della protagonista del film, "una giovane sex worker di Brooklyn", dice la pagina della società che distribuisce la pellicola in Italia, dove, a illustrare il tema di questo frustolo, si troverà anche un loquace trailer
L'opera (che ha dialoghi in inglese, in russo e in armeno) è stata premiata a Cannes, la scorsa primavera. È in effetti abbastanza ben fatta (forse con qualche lungaggine, nella sua prima parte, sostanzialmente preparatoria del dramma). Ma a orientare in tal senso la giuria suppone Apollonio sia stato il fatto che, in essenza e per figura, il film procura un buon ritratto del tempo presente. Dice in effetti quanto esso sia banalmente traviato e mercenario e, d'altra parte, come, per non piangerne, se ne possa e forse se ne debba ridere (con molto amara e disperata coscienza del degrado, si svela tuttavia nella scena, breve ma cruciale, della chiusura). 
Bando però alle vane geremiadi. Qui non si rende conto del film e si pone invece l'attenzione sopra un suo dettaglio onomastico. Se, come si anticipava, si può dire dettaglio il nome che porta la protagonista di un'opera d'invenzione. Sul principio della narrazione, rivolgendosi a un cliente, costei si presenta con un "Hi, I'm Ani". E, più avanti e in passaggi comico-drammatici della pellicola, con rabbia rivendica il diritto e ribadisce il suo desiderio di essere Ani, in faccia a chi, anagraficamente, la chiama Anora
Anora è in effetti una ventitreenne newyorchese. Appartiene quindi tanto alla cultura (o si dirà alla civiltà?), quanto alla generazione per le quali vige internazionalmente una norma per l'identificazione onomastica personale nel discorso quotidiano. Una moderna baritonesi. Se composti da più di due sillabe, i nomi si riducono al bisillabo iniziale e si restringe l'apertura della vocale che il troncamento rende finale. Da Anora, quindi, viene fuori Ani
Anche quando non è richiesta (e non è certo questo il caso della rappresentazione cinematografica della vita sociale di Anora), un'informale familiarità si è fatta insomma rigorosa regola di interazione. Essa rigetta l'onomastica paradigmatica e si bea della sintagmatica, morbidamente, se non morbosamente vezzeggiativa e confidenziale. Proprio mentre scrive queste righe, Apollonio registra nell'italiano di una rete sociale un Giudi per Giuditta, da lui fin qui inaudito. 
Nei termini di un'onomastica cinematografia allusiva, c'è allora da chiedersi se Ani, omofono di any, non sia un nome a suo modo parlante per "a young sex worker", come la lingua principale del film consente di scrivere, senza pronunciarsi esplicitamente quanto al genere della designazione. E si stenta a credere che l'effetto allusivo non sia stato ricercato e ponderato dallo sceneggiatore-regista, quando, battezzando come Anora la sua fantasiosa creatura, le prefigurava Ani come significativa marca onomastica nella narrazione. 
Fuori delle ipotesi sulla intentio auctoris restando ai fatti e all'intentio operis, il film presenta solo un personaggio in cui, via via che la storia procede, occhieggiano e infine si rivelano lampi di sommessa e sotterranea partecipazione per la bizzarra e finalmente deludente vicenda di Anora/Ani. È uno dei suoi vessatori, è russo e di nome fa Igor. Si tratta di un arguto paradosso onomastico, se si pensa a tutti gli Igor di cui il cinema ha dotato il genere horror, anche nelle sue varianti comiche. 
Tocca allora a tale Igor confermare come quel nome proprio proiettato come titolo dell'opera abbia una funzione sistematica nel processo narrativo del film e come il film dica allora e infine che, dalla protagonista, il suo nome intero (integro, si direbbe) vada, caso mai e se possibile, riconquistato, anche contro se stessa. 
Si è quasi alla conclusione. Seduto accanto alla sedicente Ani, Igor, meditando ad alta voce, le dice: "...mi piace Anora. È un bel nome". E la ragazza, questa volta, non protesta né rivendica. 
A differenza di Ani, Anora è in effetti proprio il suo nome proprio, il suo singolare nome di battesimo, non quel nome proprio qualsiasi che la vita le ha fatto indossare nella falsa e dolorosa letizia delle sue relazioni prezzolate.


12 novembre 2024

Spettatore pagante (7): "Parthenope" di Paolo Sorrentino

Parthenope
 è una pellicola allegorica e, nelle intenzioni, dissacrante. Il tessuto del suo enunciato narrativo è fatto dall'intreccio di questi due fili. Ne è fatta, soprattutto, la sua enunciazione, che si atteggia appunto ad allegorica e dissacrante, proprio come si atteggia a sentenziosa (sopra questo terzo carattere, tuttavia, si verrà in fondo). Da parte del regista, un modo un po' artificioso per segnalare l'opera come "film d'autore", dotandola d'altra parte di una singolare sorta di sigillo. 
A quasi tutti i personaggi di rilievo capita in effetti di accendere e di fumare una sigaretta. Enfaticamente. Il film ricorre spesso a primi e primissimi piani. La trovata procura a essi movimento e prospettiva narrativa, oltre a dare, secondo i casi, un tono meditativo, problematico o fascinoso alla figura. Sphragìs del fumatore Sorrentino o timore che gli interpreti, privi del supporto, non sarebbero stati in grado di reggere significativamente simili iterate inquadrature?
Comunque sia, sotto il segno dell'allegoria, il film invita a chiedersi a più riprese cosa ci sia "sotto 'l velame" di figure, parole e immagini, non solo quando paiono strane o quando si può supporre il gioco valga la candela, perché le risposte sono difficili o arcane. In effetti, di norma non sono tali: si tratta di figure di facile lettura. 
Sotto il segno della dissacrazione, il film vuole congiuntamente épater il prototipico bourgeois in cui, proprio in quanto tale, vive e prospera un luogo comune gigantesco e proteiforme: Napoli. Napoli preme molto a Sorrentino. Meglio: proprio in quanto cliché, Napoli preme molto sopra Sorrentino artista (forse anche sopra Sorrentino persona, ma qui non si pratica il metodo di Sainte-Beuve). 
Il cliché nel suo complesso e alcuni degli innumerevoli stereotipi correlati sono pertanto quanto Parthenope prova idealmente a demistificare con le sue trasparenti allegorie. Prova a farlo per via di paradosso.  Si serve infatti delle veneri della cinematografia: luci, colori, inquadrature... Del loro insieme, funge da sineddoche la grazia di Celeste Dalla Porta, nel ruolo della protagonista; una grazia messa in scena come mirabilmente quotidiana, un fascino al tempo stesso quieto e inquietante.
Parthenope non è così il consueto film su Napoli e un'osservazione linguistica lo dice immediatamente. Vi compaiono personaggi che, esprimendosi, si qualificano ovviamente come partenopei. Non così però Parthenope. Sulle labbra di una figura con quel nome, nata nelle acque del Golfo e cresciuta in una casa sulle sue rive non si ode una parlata napoletana. 
Che Parthenope non si esprima in dialetto è ovvio: il plot la colloca in un ambiente borghese. La sua la parola non prende però nemmeno l'inflessione che rende sempre ben riconoscibilmente partenopeo l'italiano del luogo, a prescindere dall'estrazione sociale di chi s'esprime. È questo, per esempio, il caso di Sorrentino medesimo. Appena apre bocca, nessuno lo direbbe veneziano o livornese. E c'è film cui Napoli faccia da tema (o anche solo da sfondo) in cui l'espressione locale - vero e proprio luogo comune -  non abbia una funzione caratterizzante? La presa di distanza, se si vuole, comincia da lì: un'allegoria partenopea priva, nel suo asse principale, di accento partenopeo.
A volere essere spassosamente pignoli, c'è in limine un dettaglio grafico minuscolo a fare da spia di un'intenzione artistica siffatta: l'acca al centro del nome dell'eroina eponima. Un ricercato ammicco cólto e etimologico? Forse, ma una contrapposizione alla secolare tradizione grafica nazionale che ne fa appunto a meno. 
Partenope, senza acca, è il luogo comune e, nella cinematografia nazionale, conta centinaia di evocazioni e di tematizzazioni. Esemplare quella di Carosello napoletano, film di Ettore Giannini consacrato appunto alla Napoli partenopea convenzionale. E consacrato tanto mirabilmente da essere premiato a Cannes, si pensi, giusto settanta anni fa. Era il secondo Dopoguerra. Nella stessa sede, nella scorsa primavera, l'onore non è stato invece tributato alla pellicola di Sorrentino, che tuttavia vi ambiva. 
Mutatis mutandis (come è appena il caso di dire, visto quanto sono mutati i tempi da allora), Parthenope è in effetti un nuovo carosello napoletano straniato e post-moderno. L'acca che fa in due pezzi il nome ne è un segnale. Ma, in funzione della solidità del luogo comune, finalmente senza conseguenze di rilievo: come appunto l'acca, quanto alla pronuncia del nome, resta un ammicco.
Si rischia d'essere corrivi elencando o, ancor peggio, illustrando nei particolari i cliché partenopei presi di mira dalla pellicola. Alcuni sono anche troppo espliciti. La capigliatura rosso fuoco della grande e stagionata attrice di nome Greta Cool non necessita di chiose, per esempio. E, a dirla tutta, a orecchie e occhi bigotti proclamare posticcia tale capigliatura, come finalmente la persona che la indossa e che scarica il suo ben giustificato livore sopra Napoli e i Napoletani, può suonare e apparire blasfemo ben più della plateale profanazione del sacro cui Parthenope volentieri si presta con il cardinal Tesorone. 
Chi assiste al film riconosce insomma i bersagli dell'ottica caustica di Sorrentino e, caso mai ne avesse mancato qualcuno, come ne ha certamente mancati lo spettatore pagante, non avrà perso il palese valore intenzionalmente dissacratorio dell'insieme. 
In funzione delle belle immagini (cui si è già alluso), sfugge tuttavia all'ottica caustica un grande luogo comune partenopeo, certo perché correlato con la figura di Parthenope come mitologica sirena: il mare del Golfo di Napoli. 
Cardine visivo intorno al quale ruota in effetti la narrazione, a esso il regista riserva, per immagini, un'attitudine comparabile con quella espressa dalla prima strofa di Torna a Surriento (e come si fa a non commentare in proposito con un nomen omen?): "Vide o mare quant'è bello, | spira tanto sentimento, | comme tu a chi tiene a mente, | ca scetato o faie sunnà."
Ecco appunto. Al pari del fluido gelatinoso di una celeberrima pellicola americana degli anni Cinquanta, un luogo comune, se è veramente tale, finisce tuttavia per inglobare e digerire chiunque gli si accosti e, anche se armato delle più acuminate e sottili intenzioni critiche, manifesta in realtà con l'atto (sconsiderato) il desiderio di perdervisi. 
Questo è ragionevolmente anche il caso del finalmente desiderante Sorrentino, che con Parthenope ha inteso sfidare il cliché tentacolare di Napoli. E, d'altra parte, dopo avere visto il film, si sfida chiunque a dire che, per lui, come, si può affermare, per l'universo mondo, Napoli non sia e resti appunto un luogo comune appiccicaticcio e gelatinoso. E flaccido e debordante, come si presenta infine il gigantesco e celato pargolo, "fatto di acqua e di sale", del professor Devoto Marotta, interprete Silvio Orlando. 
Davanti al domestico monstrum il padre, fuori di casa pungente e disincantato, cede anche lui a un'elegia dolciastra e instupidente e si assopisce innocuo e rassegnato. Il cliché partenopeo e i suoi corollari sono così quanto una pellicola dall'intento dissacratorio finisce paradossalmente per confermare, con le sue allegorie.
S'era alluso in apertura al tratto sentenzioso di un film che, si ricordi, non è stato solo diretto, ma anche ideato e scritto da Sorrentino. Sulle labbra dei personaggi spesseggiano in effetti le sortite apodittiche. Lo sceneggiatore si può dire sermoneggi dietro le maschere della protagonista, di Achille Lauro, di John Cheever, di Flora Malva, di Greta Cool, del cardinal Tesorone e di altri e altre. 
Conta due ricorrenze topiche però "All'università si viene [cioè: ci si reca] cacati e pisciati". Il motto perentorio del professor Marotta ricorre nella prima parte, proferito a Napoli in un aula universitaria in cui si stanno svolgendo gli esami di Antropologia. Come citazione indiretta, quando il film si avvia al termine, ricorre una seconda volta sulle labbra di un'allieva trentina di Parthenope che l'ha appreso da lei, frattanto diventata un'anziana professoressa sulla soglia della pensione. 
Anche per tale ragione il motto finirà probabilmente per fare da sigillo mnemonico della pellicola. Non potrà certamente insidiargli il ruolo quel "Dio non ama il mare" proferito ex abrupto da una voce anonima sullo scorrere dei titoli di coda: estremo commento ultra-diegetico da parte di un autore in sospetto, a quel punto, di incontinenza, perché incapace di lasciare andare chi esce dalla sala senza lanciargli un ultimo segnale, superfluamente enigmatico. 
Così Parthenope sarà forse il film di "All'università, si viene cacati e pisciati". Più di un frutto dell'invenzione di Sorrentino, l'icastica sentenza pare tratta dal deposito immateriale dei memorabilia della vita universitaria anteriore al Sessantotto, ormai da gran tempo leggendaria. 
Così fosse, si osservi, non sarebbe la prima volta per un film di un regista napoletano. Or sono più di trenta anni, pescata probabilmente dalla medesima fonte, "Non si avvicini, non mi contamini con la sua ignoranza" ebbe lo stesso ruolo in Morte di un matematico napoletano di Mario Martone.

 
Né Martone, del 1959, né Sorrentino, del 1970, hanno ovviamente avuto esperienza diretta di quel mondo perduto. L'ambiente accademico partenopeo pare dunque custodisca e tramandi ancora memorie di detti celebri e ormai, ovviamente, socialmente e antropologicamente improponibili. La condizione raccomandata da Sorrentino, per interposto Marotta, non vige più da gran tempo tra i discenti né, a dire il vero, tra i docenti. E, per la persistente pandemia, il cave riesumato da Martone non avrebbe più ragione d'essere proferito. Ma nella scelta differente, pare a chi scrive si colga il quid delle attitudini umane, finalmente opposte, dei due registi. E soltanto quella di Sorrentino, con la sua ironia, ispira simpatia.  
     



8 novembre 2024

A frusto a frusto (139)

In ultima e stringente analisi, l'ignobile domanda "A che serve?" è ciò che soggiace all'incessante ricerca umana di un'arma letale: dalla clava all'ordigno dell'Apocalisse. Cioè allo strumento infine atto a compiere un destino e a procurare a quella domanda la risposta esauriente e definitiva: l'autodistruzione della specie dal comportamento guidato dall'ignobile domanda "A che serve?".

4 novembre 2024

Spettatore pagante (6): "Megalopolis" di Francis Ford Coppola

Mettere un'opera del proprio ingegno e del proprio impegno sotto un titolo è darle un nome. Ed è già, di norma, atto espressivo e comunicativo di importanza capitale. 
Il battesimo ha un valore ancor più straordinario se, giungendo in veneranda età dell'artista, l'opera è quella intorno alla quale si afferma di avere meditato per decenni; di cui si sostiene di avere sognato lungo tutta la propria luminosa carriera professionale; per la realizzazione della quale si è persino provveduto a liquidare parte del proprio patrimonio personale. È appunto il caso di Megalopolis di Francis Ford Coppola. Troppo, c'è immediatamente da sospettare.
Troppo, senza dubbio. E quel nome, parlante, già dice di un eccesso. Lo dice con il suo primo elemento, per semplice analogia lessicale: è il medesimo di megalomania. Ma dice di un eccesso ancora più grande, megalomane appunto, con il riferimento analogico cui, quanto alla storia del cinema, il suo secondo elemento indirizza senza equivoco: Metropolis di Fritz Lang, film del quale fra tre anni ricorrerà il centenario. 
D'altra parte, che Francis Ford Coppola, con Megalopolis, abbia dato sfogo a una sua vena espressionista è chiaro sin dalle prime inquadrature della pellicola. E il suo principale riferimento diventa lampante quando, andando avanti, si vede lo sviluppo narrativo scandito da didascalie sentenziose ed esplicative, come furono quelle che fungevano da intertitoli nel cinema muto.
Quando Lang prima concepiva, quindi dirigeva il suo film leggendario era tuttavia quasi quarantenne ed era partecipe del fervore (letteralmente) esplosivo e corrusco dei primi decenni dell'Europa del Secolo breve. Il Coppola di Megalopolis è invece un ultra-ottantenne immerso nel gelido e cupo stagno globale in cui si versano i liquami della putrefazione della modernità, quando è trascorso il primo quarto del ventunesimo secolo. 
E non si dica che, nei diversi contesti culturali, ma anche brutalmente sociali e concretamente antropologici, il dato biografico sia privo di correlati, da un lato, compositivi, dall'altro e quanto alla valutazione, critici. 
Tanto fu viva e tesa l'espressione espressionista e conclusivamente inquietante di un giovanilmente maturo europeo degli anni Venti del secolo scorso, quanto vizza, aggranchita e, in chiusura, stucchevolmente consolatoria è quella di un vecchio americano degli anni Venti di questo secolo. 
Al posto di inventare, in effetti, Coppola cita e ricicla all'ingrosso: Shakespeare e Federico Fellini, William Wyler e Marco Aurelio, Gaio Sallustio Crispo e Ridley Scott, H.G. Wells e se stesso. 
Il risultato è un guazzabuglio. Lo spettatore pagante, con la sua modesta cultura generale e in particolare cinematografica, non ha certo potuto riconoscerne tutti gli ingredienti. Ha tuttavia colto il disordine di un composto non amalgamato, l'accozzamento privo di ratio e di grazia, la sciatteria paradossale per lo spreco dei mezzi tecnici (tuttavia, a guardare con attenzione, meno grandioso di quanto si sia favoleggiato).
Megalopolis è insomma un film grottesco, un'americanata, un fantapeplum che muove sovente al riso, già a partire dal frullato onomastico di cui si fregiano i suoi improbabili personaggi: Cesar ['sisa'] Catilina (inventore di una nuova materia, chiamata anch'essa non a caso megalon), Franklyn e Julia Cicero, Hamilton Crasso III, Clodio Pulcher, Wow Platinum. E, ciliegina sulla torta, per la bimbetta che in epilogo continua a muoversi anche quando i suoi summenzionati genitori hanno romanticamente fermato il tempo, Sunny Hope Catilina. 
C'è d'altra parte ancora una differenza fondamentale tra Metropolis e Megalopolis. Il primo, del 1927, è un film muto. Il secondo, purtroppo, no. Non c'è in esso una sola parola che non spinga in effetti a rimpiangere, nel confronto, una sortita cinematograficamente memorabile: "I love the smell of napalm in the morning". 
Allo spettatore pagante essa ricorda che Francis Ford Coppola, quarantenne quando il Secolo breve si avviava alla fine, fu capace di aggiungere alla storia del cinema un capolavoro tardo-espressionista. E l'ammonisce: la vecchiaia è un grande guaio. Gigantesco, quando perde il controllo di sé.