11 ottobre 2024

Per il centoventottesimo anniversario di Roman Jakobson

Ciò che Roman Jakobson professò nella sua maturità di studioso incoraggia a formulare un'ipotesi: per un essere umano, venire al mondo è la messa in opera di un'intenzione vitale (cioè espressiva) e comunicativa. La sua prima intenzione con una manifestazione. Nel caso di Jakobson medesimo, la manifestazione di tale intenzione avvenne a Mosca nel 1896. 
Né il luogo né il tempo furono ovviamente esiti di una scelta personale. Nessuno può fare come gli aggrada al riguardo e si è obbligati a prendere ciò che capita. Affacciandosi alla vita, che è come gettarsi nel flusso di una catena sintagmatica, si accetta (senza possibilità di rifiuto) una sorta di collasso della paradigmatica. Come se il tutto si verificasse sotto il segno della funzione poetica, senza che dell'ipotetico poeta resti altra traccia. In qual genere poi si inscriverà il componimento, come vi si mescoleranno il comico, l'elegiaco, il tragico e (favorevole un'epoca) perfino l'epico, si saprà irrimediabilmente strada facendo, caso mai, e, a dire il vero, solo a cose fatte per intero. 
Ma da Jakobson ebbero precocissima e piena adesione spirituale il luogo di quella sua prima intenzione realizzata e, in coordinazione con il tempo, ciò che al luogo si correlava culturalmente. E se le vicende della sua vita lo fecero esule più di una volta e titolare, negli anni, di cittadinanze diverse, egli curò infine che rimanesse testimonianza di quella adesione originaria, con un messaggio dal valore emotivo e referenziale al tempo stesso.
Nel 1896, il codice vigente a Mosca denominava 29 settembre il giorno in cui Jakobson nacque. Il codice vigente a Berlino, a Parigi, a Londra, a Roma lo denominava invece 11 ottobre. Effetto del noto divario tra calendario giuliano (allora in uso in Russia) e calendario gregoriano. E buona illustrazione della convenzionalità del tempo cronico. Così l'avrebbe qualificato anni dopo, con apparente pleonasmo, Émile Benveniste, per differenziarlo dal tempo che qualificò come fisico e da quello che qualificò come linguistico. 
Fare emergere e cogliere ordinate differenze nell'espressione umana fu, come si sa, fisima di molti linguisti del Novecento, convinti che proprio nella differenza si dovesse cercare la specificità di quella dote che, inquadrata con i mezzi di qualsiasi scientismo naturalista, non può che parere più che  bizzarra, quando è invece tanto ordinaria da farsi quasi sempre fucina di piatte stupidità fàtiche. 
Jakobson contribuì decisivamente all'impresa della determinazione delle differenze. Si può dire che ne fu il campione. Un indirizzo in tal senso gli era d'altra parte venuto dal magistero del connazionale Nikolaj Trubeckoj, che, ammesso l'avesse potuto e voluto, non ebbe il tempo di riparare nel Nuovo Mondo, come Jakobson fece avventurosamente, quando nel cuore del Vecchio erano evidenti i segni che si era già andati verso il peggio.
Un indice dei nomi presenti in questo diario, se mai lo si compilasse, direbbe che Jakobson, Roman è forse il nome con il maggior numero di ricorrenze (e non sempre per manifestare un consenso da parte di chi lo menziona). Gli fa certamente concorrenza Saussure, Ferdinand de, il cui titolare nacque addirittura nel 1857. Insomma, gente del tempo che fu. 
C'è criterio più chiaro e inequivocabile per sancire l'inattualità di Apollonio e di quanto propone qui, quando si è da un pezzo nel Ventunesimo secolo?
In una conversazione privata di qualche tempo fa e con riferimento ai nominati, da un buon sodale venne ad Apollonio e al suo alter ego il commento: "Torneranno...". L'intenzione era amichevolmente consolatoria. E a suo modo liquidatrice, come sono quasi sempre le consolazioni. 
Con il suo alter ego, Apollonio apprezzò l'intento ma sorrise intimamente del suo metodo e del suo merito. Per lui Jakobson non se n'è mai andato. E con lui, mantengono la loro viva presenza altri i cui nomi non sempre compaiono in questo diario o che non vi compaiono con la stessa frequenza, ma che vi operano attivamente. Non è del resto svanito il gran tema umano che aveva appassionato tutti costoro, in modi e da punti di vista diversi.
Caso mai, ad andare e venire (quindi a tornare, con diversa valorizzazione della marcatezza non tanto dello spazio, quanto della persona: di nuovo, fisime da linguisti) è stata, è e sarà la corte degli orecchianti. Essa regola infatti i propri usi e soprattutto i propri abusi in conformità con gli andazzi.
Ma ci sia o non ci sia folla intorno, in permanente compagnia di Jakobson sta un piccolo novero di persone felici. Apollonio ne fa parte. Come può, naturalmente, e con i suoi limiti, come testimonia la sommessa celebrazione qui officiata.

Nel séguito, un po' a casaccio e senza pretesa di completezza, pagine di questo diario in cui Roman Jakobson fa da (co)protagonista:







[Dall'alter ego giunge ad Apollonio il rimprovero di non avere menzionato qui anche il frutto di un suo modesto impegno. Se ne trova in effetti testimonianza nella colonna che affianca i frustoli, ma forse ha ragione e gli si accorda una ridondanza.]





7 ottobre 2024

Luchino Visconti, araldo di "quella che è..."

In italiano, da qualche tempo, il sistema della determinazione nominale si sta evolvendo. Ancora poche settimane or sono, questo diario lo ha nuovamente documentato: "la Stampa ricorda anche quelle che sono le tre vittime nel Canton Ticino", per esempio. Ma hanno già più di tre lustri acute osservazioni in proposito di Stefano Bartezzaghi. 
Da esse, qualche anno dopo, l'alter ego di Apollonio prese in effetti spunto per un contributo specialistico che provò a collocare il fenomeno recente, in apparenza solo peregrino e frutto di un momentaneo andazzo, in una deriva diacronica plurisecolare: l'affiorare dell'articolo romanzo, come forma della determinazione nominale, a partire da un sistema, il latino, che, senza alcun danno, ne faceva bellamente a meno. Non per celia vi si affermava che nella deriva si vedesse già allora e di nuovo all'opera una "prevalenza del cretino".
Si individuava così, ancora grossolanamente, un vettore del mutamento linguistico dal rilievo pancronico di norma trascurato o, meglio, non (ancora) riconosciuto nella sua forza. Proprio come lo è "le rôle de la betîse dans l'Histoire", secondo Raymond Aron. A tempestiva conferma dell'ipotesi, venne il successivo reperimento di un dato e l'alter ego di Apollonio lo offrì a una considerazione più vasta della specialistica in un intervento divulgativo sul tema. 
Eccolo qui ripreso (il corsivo è aggiunto per segnalare ciò che è pertinente): "Un gruppo di studiosi fascisti docenti nelle Università italiane sotto l'egida del Ministero della Cultura Popolare ha fissato nei seguenti termini quella che è la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza" si legge in effetti, come esordio, nel primo fascicolo (agostano) della prima annata (1938) della rivista La difesa della razza. Non serve altro, qui si opina.
Il dato mostra altresì freddamente come lo sviluppo in questione non sia cominciato proprio ieri. Se è stato segnalato nella letteratura linguistica negli ultimi decenni, è solo perché esso è frattanto divenuto un fenomeno macroscopico. Oggi è visibile a chiunque presta un'anche modesta attenzione alle condizioni del mare dell'espressione e della comunicazione in cui si trova immerso. In una pausa delle stesura di questo frustolo, per esempio, Apollonio si è fatto spettatore di un notiziario teletrasmesso e, senza intenzione particolare di ricerca, ha udito dalla viva voce di intervistati e intervistate parecchie ricorrenze della perifrasi. 
Per dirla in altro modo figurato: la frana è ormai inarrestabile, a parere di Apollonio, ma i sassolini che la segnalavano come prossima avevano cominciato a rotolare per la china già molto tempo fa. Ed è oggi appunto chiaro (facile senno del poi) che si trattava di sassolini molto significativi, in funzione del criterio pancronico cui si è fatto riferimento. Una lettura stravagante procura adesso un'ulteriore stagionata e pregnante testimonianza ad Apollonio, che è felice di condividerla con i suoi due lettori. 
Erano stavolta i primi anni Sessanta del secolo scorso: un'epoca di "intellettuali". Diversamente da oggi, letteratura e cinema, anche per le loro implicazioni politiche e di vita civile, agitavano gli interessi del pubblico di quotidiani e rotocalchi. 
Nel loro Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra" (edizione più recente, Feltrinelli, Milano 2023), Alberto Anile e M. Gabriella Giannice riferiscono appunto di numerose interviste concesse alla stampa da Luchino Visconti nel corso della lunga gestazione del suo film ispirato al romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 
In una di esse, secondo la citazione di Anile e Giannice, il regista si sarebbe espresso così (anche qui il corsivo è aggiunto): "Non conosco ancora l'esatto binario su cui correrà il mio Gattopardo [...]. Il nome mi affascina di per se stesso, come un aroma forte di odori e di sensazioni. Comunque, mi lascerò guidar da quella che è l'improvvisazione del momento, ma quello che ho in mente di trattare a fondo è la non accettazione dell'immobilismo storico del Lampedusa".
La filologia impone cautela. Il testo che ora si legge è frutto di due mediazioni: anzitutto, quella di chi trascrisse a suo tempo l'intervista; oggi, quella di chi ne riporta la trascrizione. Potrebbe quindi albergare interpolazioni. 
Non stupirebbe tuttavia che Visconti fosse allora all'avanguardia e dettasse la tendenza anche quanto agli usi linguistici: il "conte rosso", così era detto il nobiluomo a quei tempi e con ragione. Di quel colore politico e all'avanguardia, tra cultura, spettacolo e vita pubblica, lo era in tutto, da qualche decennio e in particolare in quei frangenti. 
E a proposito della direzione della sua deriva e di ciò che ne sarebbe seguito, fulminante sarebbe stata di lì a poco l'amara opinione di Ennio Flaiano (riferita da Francesco Piccolo, nel suo La bella confusione, Einaudi, Torino 2023): "Fellini non mi interessa più perché va verso la sartoria. Visconti perché va verso l'arredamento". 
Si dirà di nuovo figurata tale definizione, ma essa è precisa e appropriata anche quanto alla perifrasi "quella che è...". Dietro l'apparenza di raffinatezza, già allora manifestazione (preparatoria ed efficace) di manieristico cattivo gusto nell'arredamento del discorso. 


4 ottobre 2024

"Linguaggio", "significato", "noi" nella letteratura (divulgativa) delle Scienze: un esempio

Apollonio legge di tanto in tanto libri (divulgativi) come quello di cui qui si dà la copertina. Lo induce o, meglio, lo costringe a farlo il suo alter ego, con il pretesto che sarebbero letture necessarie al suo lavoro. Forse fu modicamente vero un dì. Adesso anche l'alter ego bighellona curioso tra le carte altrui, come farebbe intorno ai recinti dei cantieri stradali. Di che lavoro si tratterebbe mai? Ma si lasci all'anziano l'illusione d'essere ancora attivo. 
In effetti, dalla varia prospettiva delle Scienze (il maiuscolo vale a dire "le vere"), si tratta di libri pieni di riferimenti alla facoltà espressiva e comunicativa degli esseri umani. Questa vi è designata con regolarità come "linguaggio". 
Va detto che si tratta di una scelta (insegnava Roman Jakobson: c'è qualcosa nella lingua che non lo sia?). Forse chi la compie non ne è consapevole e ritiene che, fuor di linguaggio, non potrebbe dire altro: faccenda non da poco. Ma non è questo tuttavia il tema del frustolo, che vale invece da confessione di una défaillance.
"Linguaggio" o come diavolo lo si voglia chiamare, Apollonio si vanta di un interesse e di una curiosità in proposito ormai più che cinquantennali. Ma è probabile sia solo vacua vanteria, da parte sua. Riconosce infatti molto poco dell'oggetto del suo interesse e della sua curiosità nelle menzioni del "linguaggio" e nei riferimenti al "linguaggio" che fanno libri come l'esposto. Né l'aiuta in proposito una sortita come "Se guardiamo al linguaggio come uno strumento, un utensile cognitivo..." che trova nel libro preso da campione accidentale.  
Sarà perché, come ostacolo, in Apollonio risuona ancora l'opinione di un vecchio arnese. Émile Benveniste, inveterato uomo di lettere, richiesto di un parere da una prestigiosa rivista di psicologia, sentenziò, or sono quasi settanta anni: "...il paragone del linguaggio con un strumento [...] deve riempirci di diffidenza, come ogni affermazione semplicistica nei confronti del linguaggio". Ciarpame da Secolo breve
Non va meglio poi con significato. Sempre nello stesso libro si legge "Noi esseri umani siamo quello che siamo in quanto tendiamo costantemente alla ricerca di significato". Apollonio non solo non capisce cosa qui significhi significato, ma non ha nemmeno chiaro se, nel caso specifico e anche altrove, visto che il libro, di significato, fa scialo, significato valga come termine o come parola. 
La distinzione è sempre utile nel discorso ed è capitale (o dovrebbe esserlo) in quello scientifico. Se ne è paradossalmente debitori, si pensi, a un sopraffino cultore della vaghezza: Giacomo Leopardi. Ma essere vaghi come si deve, nella lingua o, se si preferisce, nel "linguaggio", non è in effetti faccenda da poco e necessita di una gran precisione.
Di conseguenza, Apollonio precipita in un'ebete stupefazione quando, proseguendo, legge sotto le medesime penne: "Considerando allora la scena del film di Kubrik [2001: A Space Odyssey, naturalmente] è probabile che vi sia un momento zero che precede l'uso, da parte dello scimmione, dell'osso del femore come una clava. Quel momento zero ha una connotazione originaria: mentre denota l'emergere del comportamento simbolico, segna anche l'avvento della differenziazione umana. Il fatto che un osso, che potrebbe essere solo un osso, a un certo punto diventi un'altra cosa dipende dalla pausa di riflessione che lo scimmione mostra di fare. Il tempo che intercorre da quando l'animale preleva l'osso, osservandolo attentamente mentre lo stringe nella mano, a quando passa all'azione, un tempo abbastanza lungo che lo scimmione impiega a guardare l'osso, girandolo e rigirandolo, è il tempo del sensemaking. È il tempo in cui avviene una traduzione da un oggetto, dalla cosa in sé, al significato della cosa". 
Ma questa, si sa, è Scienza (divulgata) ed è ovvio che essa superi le capacità di comprensione di una persona semplice come Apollonio che, senza pretendersi "scimmione", ha una cosa sotto i suoi occhi e tra le mani: il libro; lo gira e rigira e non riesce a farlo passare da oggetto a "significato"; non sa quindi cosa farne. E questo frustolo testimonia appunto impietosamente del suo fallimento.
C'è da dire, a sua giustificazione, che egli non padroneggia le diavolerie tecnologiche che, davanti agli Scienziati e alle Scienziate, squadernano oggi i cervelli di coloro che parlano (e addirittura pensano) come fossero libri aperti. Forse perciò è incapace di immaginare correlativamente le scene aurorali dell'umanità. Non solo prese in prestito dal cinema o dalla letteratura (che fanno in ciò il loro onesto mestiere), le trova infatti spesso evocate e ricostruite, come fossero in visione diretta, in libri come il qui esposto, spesso ma non sempre con mediazione introduttiva di un "probabilmente". 
Si pensi: nella sua cruda naïveté, Apollonio trova da sempre esilarante anche la fola freudiana dell'orda primitiva. È uso in effetti praticare solo analisi minute e alla buona solo di cose che osserva e che il suo modesto mestiere gli consente di mettere in relazione. Per esempio: le innumerevoli ricorrenze della persona grammaticale in Se questo è un uomo di Primo Levi. 
E non ne ricava naturalmente un'idea generale di come sia venuta fuori e di cosa sia la facoltà di esprimersi e di comunicare degli esseri umani. Tanto meno il gran pensiero che, culla moral-materiale dell'umanità, sia stato "uno spazio noicentrico", come "spazio condiviso che implica necessariamente la primogenitura del noi": è quanto in effetti sostiene d'emblée la pubblicazione qui presa a campione, sul fondamento di squadernamenti cerebrali dall'indiscussa affidabilità sperimentale. Ma "noi"?
A fatica e distinguendo tra tanti tipi, funzionalmente opponibili non nel "linguaggio" ma in modeste ricognizioni testuali, Apollonio trae solo qualche ipotesi sul modo, intricato e sistematico, con cui la lingua costruisce la panoplia (tale gli appare in effetti) della quarta persona grammaticale nel discorso: qualche esempio qui, qui, qui, qui, qui, qui... E osserva che essa talvolta include, talaltra non lo fa; talvolta cela la persona (fino a qualificarsi come impersonale), talaltra la gonfia; soprattutto, spesso imbroglia ed è inoltre pronta a usi intollerabilmente paternalistici. 
E, ci si faccia caso, proprio uno dei tanti e differenti "noi" marca stilisticamente e ideologicamente i libri (divulgativi) che, potenza delle Scienze, abbandonata la fredda non-persona che dovrebbe caratterizzarne e garantirne il discorso, sono sempre in grado di dire a "noi" cos'è il "linguaggio", chiarendoci così il "significato" dell'essere umani. Come fa il libro in questione: simpaticamente, moraleggiando e in quattro e quattr'otto. Si vuole mettere?

29 settembre 2024

Linguistica candida (70): Storia e diacronia

Benevolmente, lascino i due lettori di Apollonio che di tanto in tanto egli se ne esca, tra altre futilità forse poco meno impopolari, anche con quelle, impopolarissime, prese di mira da questo frustolo e da altri simili.
Con candore, porge così un contentino al suo alter ego, come una sorta di risarcimento a una severa osservanza disciplinare, quasi sempre qui tenuta tra le quinte, come se se ne avesse onta.
Né credano perciò che tra specialisti e specialiste i temi presi così in considerazione abbiano appunto grande corso. Lo si ribadisce, caso mai non lo si fosse inteso: in questo diario, tutto è gratuito e personale o, per dirla con espressione che sarà universalmente trasparente, ci se la canta e ci se la suona per passatempo.
Ebbene, c'è chi dice di occuparsi di linguistica storica solo perché prende di mira lingue del tempo che fu. Lingue antiche. Talvolta tanto antiche da finire fuori della storia, visto che ci si figura che abbiano appunto preceduto la storia. Lingue "ricostruite", dove il prefisso perturba in molti la giusta percezione di quanto lo segue, con cui si dichiara appunto che si tratta di costruzioni, non di osservazioni. 
Lingue ipotetiche, insomma, non documentate né documentabili: con buona pace della storia, che senza documenti (o monumenti) va notoriamente a ramengo. Eppure, la disciplina che se ne occupa, come si diceva, passa (quasi) universalmente per storica.
Sono i paradossi prodotti dalla leggerezza, se non dall'inconsapevolezza con cui capita usino le parole coloro che pretendono appunto di occuparsi scientificamente di parole (e di altro dell'espressione). Lo sospettò, ai suoi tempi, Ferdinand de Saussure.
Forse per un momento e per istinto di solidarietà, come un Amleto, egli pensò d'essere stato chiamato dal destino a porre rimedio a tale inconsapevolezza e a mettere così la disciplina sul suo indispensabile cardine. "...montrer au linguiste ce qu'il fait" avrebbe significato svegliare un drappello di sonnambolici e attivissimi dormienti (oggi diventato un reggimento).
Ma il suo successivo silenzio lo testimonia: concluse che era impossibile o che non ne valeva la pena. Chi sonnamboleggia si infastidisce di essere svegliato. Meglio, per lui, per tutti, che resti a operare dormendo. E a dire che Saussure ebbe torto a tacere non sarà certo chi verga queste righe. Consapevole com'è d'essere un "povero untorello" quando il fantasioso uzzolo di "spiantare Milano" (a dirla per figura con Alessandro Manzoni) gli si presenta allo spirito e ne viene immediatamente rimosso
Fu prudente Saussure a non cadere insomma nella trappola che, a contatto con il mondo com'è in permanenza, un'indole ingenua, se non sciocca tende a ogni Amleto (lo decretò definitivamente l'arte del Bardo). E bisognerà che con ironia (quindi, finalmente con verità) un giorno o l'altro lo si riconosca. Bally e Sechehaye fecero un gran torto al loro maestro, evocandolo in quella estenuante seduta spiritica che fu il suo o il loro Cours de linguistique générale.
Eppure, solo per tornare oziosamente sopra una vecchia questione che lì sorge, senza esservi a dire il vero risolta, la differenza tra prospettiva storica e prospettiva diacronica, quando si tratta di lingua, ad Apollonio e al suo alter ego pare semplicissima e cristallina. E nelle loro mute conversazioni si stupiscono che ci sia confusione in proposito, nello stagno della disciplina.
Orbene: quando è questione di lingua, la prospettiva storica prende in considerazione e descrive, su base documentaria, quanto è accaduto: idealmente, a tappeto. Idealmente, perché pensare che tutto l'accaduto sia documentato sarebbe gigantesca illusione.
La linguistica diacronica considera anch'essa con attenzione l'accaduto mediato dal documentato, ma prova a distinguervi il pertinente dal non pertinente. E, trattandosi di pertinenza, lo fa alla luce di un'ipotesi di sistema.
Accade di tutto, è la divisa della linguistica diacronica, ma di tutto ciò che accade, anche quando capita sia documentato, non tutto ha un valore: c'è da chiedersi se è pertinente. Per la prospettiva diacronica, il valore di ciò che accade non dipende dal semplice fatto che sia accaduto (e sia documentato), insomma.
La prospettiva storica è invece giustamente refrattaria all'idea di sistema. Tutto vi è accidente, nel senso proprio: se accade ed è documentato è quanto basta perché se ne debba dare conto. Anche la determinazione di cause o effetti dell'accaduto, nella prospettiva storica, ha un senso sotto il segno di tale fondamentale accidentalità: una volta accertato, l'accidente è, come dato, la costante ed è insopprimibile; la sua (eventuale) spiegazione, causale o finale, la variabile.
Al contrario, per la prospettiva diacronica,
il dato è un costrutto e si correla sempre a un sistema: senza tale correlazione, esso letteralmente svanisce. Il dato è in altre parole un rapporto, una dipendenza, una funzione e anche le sue cause e i suoi fini (se determinabili) sono parziali epifanie di un valore funzionale. 
Una linguistica priva di un'idea di sistema tuttavia non si dà. Attenzione! Una linguistica. Non una considerazione della lingua anche disciplinarmente orientata. L'espressione, in uno dei suoi innumerevoli aspetti, costituisce infatti l'oggetto di una panoplia di discipline: non c'è fare umano che essa non incroci (talvolta determinandolo).
Ma se si tratta di una considerazione propriamente linguistica, un'idea di sistema le è connaturata. Se si volesse asistematica, la linguistica urterebbe infatti natura e funzionamento, non tanto del suo oggetto, quanto del suo medesimo fondamento. Come disciplina (e sta qui la sua vera specificità), la linguistica non è una dottrina esterna alla lingua e che le si impone, a mo' di spiegazione e di chiarimento.
La linguistica è solo lingua fattasi cosciente di sé, quindi capace di esprimere se stessa come metalingua: lingua che parla di lingua. Ed è un brutto segno, anzi il segno che non si è sopra una buona strada, quando si fanno in proposito troppo ingombranti terminologia o formalismo, che sotto spoglie diverse sono in realtà la medesima cosa. Scorciatoie che, se non ben controllate, portano appunto fuori da un corretto cammino verso la comprensione.
Ne segue, per riprendere il filo del tema di questo frustolo, che parlare sul serio di linguistica storica è, a essere rigorosi, come parlare di una sfera cubica: una contradictio in adiectoLinguistica implica sistema, storica lo esclude. A meno che storica non sia solo un attributo retoricamente esornativo, che ricorre perché suona bene, o si presti, in prospettiva micro-sociologica, a definire l'hortus conclusus di una confraternita accademica che, nell'esercitarvi il suo (modesto) potere, trova la sua (modestissima) identità (sa insomma ciò che fa in tale campo e poco le importa di sapere cosa fa, disciplinarmente).
Ciò che passa sotto il nome di linguistica storica è in effetti e a ben vedere filologia. Per dire meglio, una specializzazione della filologia, cioè un ramo di una disciplina nobile e antica che, modernamente, si può dire poggi sopra il postulato che Vico pose con l'esatta convergenza di verum e factum. Anche questo è un paradosso, a dire il vero, ma è molto bello e non si ha il cuore di obiettargli alcunché: solo di aggiungere, con un filo di irriverenza, l'osservazione che ci sono fatti che sono fatte di specie poco degne di una caccia. 
In altri termini, la cosiddetta linguistica storica è una filologia settorialmente orientata verso i fenomeni linguistici (e, ben fatta, ha un suo corso vigoroso e rispettabile). I filologi a tutto campo, come dovrebbero essere (ma talvolta non sono) gli storici, hanno però tenuto sempre in sospetto di incompletezza questa filologia specialistica,
con qualche iattanza: un'ancella, infine, troppo formale ed esteriore per essere capace di cogliere la carnosa sostanza delle vicende umane. Insomma, una disciplina minore.
E anche se gonfia pomposamente il petto, quando va a spasso, la linguistica che si qualifica come storica o, in altri e più corretti termini, la filologia specializzata nella lingua abita in realtà i locali di servizio del labirintico edificio delle discipline storiche. E sta lì in attesa che dai piani nobili chi fa storia con tutti i crismi, se pensa di averne bisogno, la chiami a procurare quanto può, per poi congedarla, eventualmente con lode contegnosa: "Brava, ma basta così. Torna pure in cucina". 
La linguistica, la vera, il cui oggetto è un sistema processuale, cioè in continuo divenire, e un processo sistematico, cioè che non eccede mai il sistema, non è invece una disciplina ancillare o minore. Come si disse un tempo presuntuosamente e con scarso frutto di consapevolezza, evidentemente, è una scienza dell'uomo (oggi: dell'essere umano) e solo perciò anche di quanto accade all'uomo (oggi: all'essere umano). E nella correlazione funzionale tra tempo e lingua, come sistema, consiste appunto lo specifico della prospettiva diacronica, in linguistica. 
Un'oltre-filologia, insomma, capace di ponderare fatti e dati iuxta propria principia. Negli ultimi due secoli, di tanto in tanto, la si è vista baluginare, qui e là
. E già questo consola.
Come sconforta, d'altra parte, o fa perlomeno pensare che persino Roman Jakobson, colui che, in vita, tenne a presentarsi come il linguista per eccellenza e come tale fu ed è ancora considerato, volle che il suo avello in terra americana di lui dicesse a conti fatti e conclusivamente "Filologo russo":




24 settembre 2024

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (38): "Erlebnis" ed espressione (con il pretesto di Primo Levi)



Sciogliere, senza residui, la propria Erlebnis in una espressione non è sciorinarne piattamente i contenuti né dirne con enfasi il senso. È darle invece la forma di una relazione sistematica e precisa, fin nel dettaglio, tra signifiant e signifié. In altre parole, è impegnarsi a demistificare la perniciosa fola dell'ineffabile. 

15 settembre 2024

Nipotini e nipotine di Oscar Wilde

"I never read a book I must review; it prejudices you so", scrisse ai suoi tempi un Oscar Wilde in apparenza provocatorio, ma ben saldo invece in una marmorea tradizione di pensatori paradossali. 
A leggere quanto passa oggi per recensione sulle gazzette culturali, c'è da dire che un'attitudine siffatta è diventata la regola. 
Chi recensisce un libro tiene soprattutto a mostrare di averne penetrato l'essenza, di averlo "capito", d'essere etimologicamente intelligente. E poco importa che dimostri di averlo letto, quel libro. Meglio non l'abbia fatto, pare la regola.
Nipotini e nipotine di Wilde pullulano così in un mondo che, è appena il caso di dirlo, nuota appunto da tempo in un oceano di intelligenza. Oggi c'è persino il caso che vi anneghi. Non essendo bastevole la naturale all'universale lavacro, se ne può infatti produrre a volontà di artificiale: la si tocca, se ne spalancano le cateratte e se ne viene sommersi.  
Wilde è però morto prima che la dichiarazione di metodo producesse un séguito tanto numeroso. La vedesse oggi all'opera così efficacemente, capirebbe come, per non trovarsi un giorno a fare da mosca cocchiera a ripugnanti sciami di mosche, lo spirito non basta ed è persino probabile sia controproducente? 
Apollonio non lo sa. Può solo osservare ancora una volta come il tempo sia crudele. E fu questo, a ben vedere, il più profondo e consapevole pensiero di un Oscar Wilde che, dal tempo, riceve dunque in proposito (e non solo in proposito, va detto) ciò che si merita.

8 settembre 2024

Spettatore pagante (4): Una camiciola, come significante


Non mancherà la circostanza (quanto esteriore?) d'essere venuto al mondo nello stesso anno (con qualche mese di anticipo) a determinare l'attenzione che ad Apollonio risulta naturale rivolgere alle epifanie di Nanni Moretti. Anche questa sua, recentissima, a Venezia, gli appare semiologicamente rimarchevole e, come sempre, tipica di un antipatico intollerabilmente simpatico.
Come oggi si dice, sul red carpet (espressione che l'iterazione ossessiva rende odiosa), cioè nel luogo e nel contesto in cui si esibiscono, con rare eccezioni, innumerevoli varianti del cattivo gusto cinematografaro più raffinato e pretenzioso, ecco Moretti arrivare con questa camiciola del tempo che fu, bianca, ma segnata da righine multicolori, aperta ovviamente sul collo e, soprattutto, con manica corta. E presentarsi così, pare, anche alla premiazione. 
Si tratta di un capo che, un tempo, nel secolo scorso, capitava spesso indosso a un "operaio della cultura" come si voleva fosse un regista. Se ne trovano testimonianze in rete: una in particolare, con Federico Fellini e Roberto Rossellini a colloquio, ambedue così abbigliati davanti a una libreria, appunto, colma di volumoni. Esibire la foto qui avrebbe un costo e la (facile) verifica è pertanto rimessa ai lettori di questo diario, se lo desiderano.
Insomma, a significare che il mondo (del cinema) come va non piace, con quel po' di furbizia di chi sta al tempo stesso con un piede dentro e uno fuori, e che se ne preferirebbe un altro, basta, come significante e chissà se al di là di un'intenzione, una camiciola.

4 settembre 2024

Bolle d'alea (36): Contini




Danteggiare fu dunque illegittimo, anzi impossibile, quanto lecito petrarcheggiare: l'assoluto è per definizione ripetibile e produttivo di serie, l'eccesso si compiace di frutti unici e incomparabili.

"Un'interpretazione di Dante", Paragone, ottobre 1965 (adesso in G. Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Einaudi, Torino 1970, p. 379)


 

31 agosto 2024

Come fu che la Crusca perse l'articolo...

 



Il post in una rete sociale dell'Accademia della Crusca parzialmente ripreso nell'immagine e raggiungibile qui ha almeno due aspetti per risultare interessante a chi è curioso dei fatti della lingua. 
Uno è banale e solo apparentemente piccante. Al fondo e a caratteri cubitali, il post porta una scritta, "ORA IN PREORDER", che ha scatenato ironie, ire, sdegni, anatemi da parte dell'orda, sempre vigile e inquieta, dei difensori della lingua nazionale: in proposito, una montagna di commenti che cruscheggiano contro la Crusca e, conseguentemente, l'osservazione che, per quanto uno si atteggi a cruscante, incontrerà sempre qualcuno più cruscante di lui (osservazione che vale, come si sa, per quasi tutti gli aspetti morali della vita umana e che, specificamente, è stata ampiamente verificata, nel Moderno, da molte, se non da tutte le azioni o reazioni politiche).
Nemmeno un commento, se Apollonio non sbaglia, ha invece suscitato l'altro interessante dettaglio espressivo del post, certo più sottile e non corrivamente lessicale (ma si sa, consapevoli che la lingua non sia fatta solo di parole e ancora meno di regole e parole si è fortunatamente in pochissimi). Ad Apollonio, vizioso di lingua per un otium ormai totale, quel dettaglio pare invece un dato sensazionale. Può darsi che si tratti solo di una svista, ma qui si corre deliberatamente il rischio di prenderla sul serio. Del resto, dai tempi del dottor Freud, se non si prendono sul serio le sviste, da prendere sul serio non resta veramente quasi nulla.
Recita allora il post in apertura: "Il nuovo libro di Crusca edito da Mondadori!", Sì, proprio così: "di Crusca" scrive l'Accademia della Crusca nella réclame che fa a se stessa. C'è chi penserà a questo punto immediatamente: "Sarà effetto della concisione imposta dal medium e dal tipo di comunicazione". 
Nell'interrogarsi sui fatti di lingua, un funzionalismo molto alla buona, epifania concettuale di uno spirito fondamentalmente bottegaio, fa in effetti sempre da panacea. Quando osserva qualcosa, "A che serve?" è la domanda-emblema di tale attitudine etica, prima ancora che teoretica. È domanda alla quale non è mai difficile trovare una risposta. Trovatala, ogni spirito si acquieta (o si agita di conseguenza, ma non quanto all'interrogazione di base, divenuta un pretesto). Se dunque "la Crusca" si trasforma in "Crusca" è per far presto e non prendere troppo spazio... Del resto, l'articolo, in quel post, a che servirebbe? Ecco appunto.
Mani avanti. Chi la pensa così ed è contento o contenta della risposta può tranquillamente smettere di leggere questo futilissimo e faticoso frustolo o, caso mai, di commentarlo. Qui, di un fatto, ci si chiede anzitutto il come e solo secondariamente, molto secondariamente si prova a immaginare il perché, in un ordine inoltre che privilegia la causa sul fine, facendone netta distinzione. E che rifugge di conseguenza dalla prestidigitazione di fare collassare la prima nel secondo. "Causa finale" l'hanno chiamata i filosofi e Voltaire, in una sua pagina divertente, l'ha messa alla berlina: "...lo stomaco per digerire... gli occhi per vedere... i bachi da seta in Cina, per avere la seta in Europa...".
Bando però a simili astruserie epistemologiche (che parolona!). Peraltro, la concisione le banalizza e se stanno funestando questa sortita, la colpa è dell'alter ego di Apollonio, con i suoi suggerimenti, e del suo terrore che Apollonio, nel suo sparuto diario, non sia chiaro e provochi equivoci: l'effetto, come si vede, è paradosso. Ma convincerlo!
Si venga dunque al sodo, sempre che a fatti di lingua tanto impalpabili si possa attribuire una qualificazione siffatta.
Il sodo è che l'Accademia della Crusca vale, da secoli, come nome proprio e, come fanno spesso i nomi propri, nei secoli ha prodotto anche un suo singolare ipocoristico, se così si vuole dire: la Crusca. Ci si intenda, qui si mira al valore correlativo, nei discorsi, più che alla forma, e inoltre ipocoristico corrisponde etimologicamente a 'vezzeggiativo'. 
Ma come capita talvolta a simili scorciamenti, l'intento, ammesso ci sia, sfuma e la Crusca e i suoi derivati (un paio hanno già fatto capolino in questo frustolo: altri se ne trovano qui) hanno preso i sensi e i valori procurati dai discorsi e dai tempi in cui sono incorsi e ricorsi. Testimone all'uopo, il Grande Dizionario della Lingua Italiana promosso da Salvatore Battaglia.
I tempi, appunto, e i discorsi: in relazione con l'articolo mancante, sono il tema specifico di questo frustolo. In effetti, da qualche decennio, la Crusca è inopinatamente venuta in una sua auge singolare. 
Non si scrive tornata, perché il suo attuale successo non è né qualitativamente né quantitativamente comparabile con quello, sempre contrastatissimo e fomentatore di polemiche, che ebbe in altri momenti della sua storia secolare: trattava roba (la lingua, e specialmente il lessico) che interessava solo una ristrettissima e permalosissima cerchia di dotti e letterati; oggi, fatta salva la caratteristica di permalosità, non è più così. Lo dice la robusta presenza dell'Accademia nelle reti sociali: su Facebook, si è quasi in cinquecentomila a prestarle attenzione. Oltre che di santi e di navigatori, l'Italia è sì paese di poeti (e di poete, oggi conviene dire), ma forse non si è ancora giunti a tale numero. Ci si sta insomma lavorando...
Si scrive invece "inopinatamente" perché nessuno, accademico o no che fosse, avrebbe potuto sognare un séguito tanto vasto, non solo ai tempi in cui era presidente dell'Accademia Bruno Migliorini (sono trascorsi solo settant'anni), ma nemmeno fino al crollo del Muro di Berlino. 
Poi, il mondo è molto cambiato, eticamente, oltre che materialmente, com'è ridondante ricordare. E, parrà strano, ma non lo è, il successivo crescente successo di un istituto culturale come l'Accademia della Crusca può essere considerato, in Italia, un effetto (nemmeno troppo mediato) di tale mutamento morale. Bisogna però che qui si metta da parte questo aspetto della faccenda, rimandandolo eventualmente a un'altra volta, per tornare, appunto futilmente, alla scomparsa dell'articolo.
Ebbene, il nome proprio di qualcuno o di qualcosa il cui bacino di interesse raggiunge la cifra cui sopra si è alluso, nella società dei consumi di massa, soprattutto in quella più modesta del cosiddetto consumo culturale, è ipso facto un marchio o, come si dice con terminologia internazionale, un brand. Qualunque cosa sia l'oggetto designato e qualsivoglia intento abbia chi ne parla (come del resto qui si sta facendo), l'Accademia della Crusca e la Crusca, come scorciamento, sono le forme con cui il marchio appunto si presenta nei discorsi del tempo presente. 
Come forme di un brand, esse entrano pertanto nelle tipiche derive. E qui, per capire una di queste derive, un esempio verrà utile, soprattutto perché tratto dal medesimo àmbito di produzione, lo si dica pure, culturale. 
Nel corrente discorso, la Mondadori del vecchio Arnoldo (M.), la Rizzoli del grande Angelo (R.), la Bompiani del raffinato Valentino (B.) non esistono più. Chiunque detenga le relative proprietà, esistono i marchi Mondadori, Rizzoli, Bompiani, tutti senza articolo, si osservi. Tornati, insomma, anche nelle forme, meri nomi propri, ovviamente senza essere più antroponimi. Exempla ficta: "In futuro, Apollonio pubblicherà con Rizzoli...", "Mondadori, quest'anno, ipoteca lo Strega...", "A Bompiani non fa difetto il coraggio...". 
La ragione è trasparente. Prima, il nome (e il relativo marchio) era riduzione (per ridondanza) di quello che si dà a un opificio: "la [casa editrice] Mondadori", "la [casa editrice] Bompiani" e così via. Luoghi, attrezzature, persone che producevano libri. Oggi l'opificio è, ben che vada, provvisoria proiezione di un'impresa finanziaria e, nei discorsi, Mondadori, Rizzoli, Bompiani e così via sono meri brands, da vendere, da comprare, da esibire, caso mai da esecrare, come tali.
Dal discorso in generale, al discorso in particolare: "Il nuovo libro di Crusca edito da Mondadori!", recita il post della gloriosa Accademia. Poverina, dalla Villa Medicea di Castello, cos'altro avrebbe potuto scrivere? Si fosse presentata ancora con l'articolo ("della Crusca"), a diretto contatto nel medesimo enunciato con il brand Mondadori, implicitamente presentato quest'ultimo come valorizzante, avrebbe fatto figura di vecchia e pezzente. 
Via l'articolo, allora: Crusca. Simile in ciò ai brands di prestigio del Made in Italy, che del resto sono spesso, in origine, autentici nomi propri: FerrariMaserati e Armani, Prada, Dolce & Gabbana, Versace... 
Ecco allora come fu che la Crusca perse il suo articolo... Fu atto di nobilitazione onomastica e di adeguamento al mondo. 
Ma puff! Che fatica, per un la. Si fa prima a sbraitare contro le parole che non piacciono: "Che orrore!", "Sanguinano le orecchie!"... Ancora solo un paio di parole, allora, sempre che i due lettori di Apollonio siano rimasti fin qui a fargli compagnia. 
Da anziano filologo, scapestrato, ma non fino al punto da negare il suo alternante attaccamento al nobile istituto e la sua permanente amicizia verso le colonne che, in tempi non facili come i presenti, lo reggono, Apollonio augura finalmente a Crusca di aprire presto e correlativamente uno show room in via della Spiga. E spera, con Crusca, che la folla dei suoi seguaci super-cruscanti, visto che di show room si tratta, non venga a rompere, oltre al resto, anche le vetrine.

27 agosto 2024

Millanterie temporali: cronologiche e oltre

Sono passati più di venti anni e chissà se i due lettori di Apollonio lo ricordano. Intorno al cambiamento cronologico di millennio, specificazioni come "...del nuovo millennio", "...per il nuovo millennio", "...nel nuovo millennio" e così via spesseggiarono nei titoli e come qualificazioni di imprese delle lettere e delle arti. Di esse, quasi sempre, a distanza di solo cinque lustri nessuno conserva appunto memoria. Giustamente.
Già allora il cosiddetto consumo culturale (in Italia peraltro sempre modestissimo) bruciava commercialmente i prodotti destinatigli in poche settimane e quelle qualificazioni parevano soprattutto comiche. 
Con il transeunte supporto cronologico, chissà se erano consapevoli tuttavia d'essere sospette di una sorgente torbida e inquietante. Nel Novecento, l'idea del millennio s'era infatti presentata allo spirito di chi aveva tragicamente immaginato e propagandato un Tausendjähriges Reich
Bastarono pochi anni e le macerie di antiche, civilissime città europee testimoniarono quanto il sogno fosse insensato e come fosse un incubo anche per la nazione che se ne era lasciata ammaliare. Entrando nella modernità, l'umanità è d'altra parte tornata bambina, per scelta. È letteralmente rimbambita, in altre parole. E, abbandonata la maturità, da qualsiasi sua porzione, anche in apparenza di antica e nobile attitudine alla ponderazione, ci si possono attendere atti e comportamenti infantilmente sconsiderati. 
Sulla scala di quella che, rispetto alla tutto sommato recentissima tragedia, pare invece e ancora soltanto una farsa, la stagione del millennio è appunto rapidamente passata. Si è tornati a misure cronologiche più conformi a ciò che qualificano (giorni, settimane, mesi...). E anche il secolo, di cui si sta già consumando questo primo e oscuro quarto, pare pronto a liquefarsi.
Ciò non significa che, sulla piazza, facciano difetto le millanterie temporali. Gli addetti sono infatti sempre al lavoro. Sull'onda di (un chissà quanto felice) antropocene, di moda è venuto in proposito il suffissoide -cene e lo si vede circolare in quantità. 
Ne risulta in tal modo sfondata addirittura la barriera del temps chronologique, per dirla con la designazione di una delle tre categorie individuate per opposizione da Émile Benveniste sul tema semiologico del tempo. Si collocano così in uno sbardellato e fantasioso temps physique alzate d'ingegno che non è difficile considerare prodotte e vigenti in realtà soltanto per il tempo di alcoliche apericene*. 

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* Circola in una quantità e in una varietà, il suffissoide -cene, che, da un lato, Apollonio, nella sua isolata e silenziosa Citera, non immaginava nemmeno fossero quelle che apprende per comunicazione privata di un cortese sodale (giunta a séguito della modesta apparizione di questo frustolo) e che, dall'altro, pare abbiano già persino prodotto, con riferimento tanto all'àpeiron di presocratica memoria, quanto ai recenti riti alimentari, un omonimico apericene. Apollonio, che ne sa poco, lo immagina pensato sul faceto, ma non si stupirebbe se fosse sul serio o, come è forse il caso, tra il serio e il faceto. Insomma, si è già rapidamente giunti in parecchi al -cene delle beffe e all'un dì proverbiale "E chi non beve con me, peste lo colga!".

22 agosto 2024

A frusto a frusto (138) [Glossa riverente al Bardo]


Il tuo tempo, come quello di Amleto, "out of joint"? Rallegratene! Non c'è tempo che non sia stato tale. Se proprio il tuo non lo fosse, te miserevole. Sarebbe l'annuncio apocalittico della fine dei tempi. 

18 agosto 2024

Cronache dal demo di Colono (72): Boxeur / Boxeuse, come pretesto

Ha un merito la zuffa volgare e riprovevole che, a cospetto del mondo intero, ma soprattutto in Italia, si è prodotta qualche settimana fa sul tema della relazione tra nobile arte e gentil sesso, per dirla come usava un dì il velo di due trasparenti eufemismi. Un'eco della rissa è giunta anche nella silenziosa Citera di Apollonio
Lo schiamazzo ha però messo in chiaro, ancora una volta, che, per gli esseri umani, non c'è dato naturale che non passi attraverso il filtro di complessi sistemi culturali. L'ha messo in chiaro, naturalmente, per chi è capace di vedere e, per questo solo fatto, in un mondo in cui tale capacità latita, si inscrive in una minuscola minoranza. 
Come unico strumento di quieta sopravvivenza, a tale minoranza s'addice il silenzio, rotto eventualmente da complici e sommessi mormorii (questo frustolo è tale, ci si intenda): Mutu cu sapi u iocu, si dice opportunamente in Sicilia.
Del resto, anche altre distinzioni fondamentali, persino più fondamentali, come quella tra vita e morte, stanno nel novero di quelle determinate per via palesemente culturale e mutano di conseguenza.
Da tempo, si tengono in effetti per morte persone le cui parti sono vive abbastanza da contribuire, una volta trasferite, a migliorare la vita di periclitanti viventi: in esseri umani visti come macchine, pezzi da prelevare, pezzi da inserire.
Lo si fa senza implicazioni etiche di sorta né qui si intende sollevarne: solo ricordarne il processo. Si è infatti investita un'autorità superiore (cioè un istituto culturale per eccellenza) del compito di dire quando un essere umano è vivo o morto. Quando vale ancora la pena o quando non vale più la pena di considerarlo "tra noi"...
Come nel caso della boxeuse (meno cruciale, si ammetterà, anche se tanto rumoroso) in cui da ogni parte si invoca infatti in irrefragabile sostegno la Scienza. Singolare e con maiuscola, aruspice somma e veridica della Natura, singolare e con maiuscola. Per questo capace di dirimere il dilemma: boxeuse o boxeur? Vivo o morto?
Si sorvola sul fatto che non c'è sapere umano che non sia un costrutto culturale. In Natura non si dà né Scienza, singolare e con maiuscola, né scienze, plurale e con minuscola. 
In effetti, le scienze, tutte minuscole, interagiscono ovviamente con i loro differenti oggetti, qualificandoli e qualificandosene, ma, a prescindere dalle diversità correlate con tale interazione, sono tutte modi con cui una cultura, anch'essa minuscola (visto che ce ne sono state, ce ne sono e ce ne saranno tante), dice a chi vi si trova inscritto o inscritta cosa è pertinente. Pertinente, per esempio, per dire se si è vivi o si è morti, se, quando la morfologia non basta e interviene la sintassi, l'articolo da associare a pugile sia il o la
Una scienza procura in tal modo idee e immagini, peraltro sempre provvisorie, mai definitive, di ciò che cade eventualmente sotto l'osservazione (potrebbe infatti non farlo: l'osservazione umana non è mai esauriente, perché il tutto è semplicemente irraggiungibile). 
Nel caso di oggetti naturali, le relative scienze non sono altro che i sistemi di idee che di essi si è fatta una cultura, con la decisiva guida di un metodo. "Grazie al Cielo" è il pensiero che consola Apollonio, che ha l'impressione che qui stia forse il loro unico valore; che nella consapevole costrizione al metodo stia, per dire così, il disperante e paradossale vantaggio dell'amatissima cultura in cui, per accidente, nuota dalla nascita. La necessità di un metodo dice infatti che di vie ce ne sono sempre tante, diverse, concorrenti. Di tale cultura tuttavia non riesce a nascondersi i devastanti e mortiferi difetti: il principale consiste (e sta qui la lacerante contraddizione) nella sua sostanziale intolleranza all'esistenza di altro da sé. 
Quanto alle scienze, ci si intenda, Apollonio ne fa sempre gran conto. Può trattarsi in effetti di buone idee, anche di ottime idee, che possono avere riscontri pratici e applicazioni di piccola, grande, gigantesca efficacia (che, si badi bene, non sono mai naturali e sono invece prodotti di un ingegno avventuriero, come è appunto l'umano). 
Se sono tali, le scienze non sono, non saranno mai però ciò che crede chi, chierico o profano, le vede come le chiese in cui si officiano i riti di certezza di un numero comparabile di inconcusse fedi. Sono invece, perlomeno idealmente, i rings in cui si confrontano (o dovrebbero confrontarsi) scetticismi inesausti, sempre consapevoli e pronti, di conseguenza, a prenderle e a darle...

13 agosto 2024

Una nota di socio-antropologia lampedusiana: dall'ozio all'approssimazione

"La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicina completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalla smisurata mole dei conventi [...] erano essi, i conventi a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere [...]. A quell'ora, poi, a notte quasi fatta, essi erano i despoti del panorama. Ed era contro di essi che in realtà erano accesi i fuochi delle montagne, attizzati del resto da uomini assai simili a quelli che nei conventi vivevano, fanatici come essi, chiusi come essi, come essi avidi di potere, cioè, com'è l'uso, di ozio". 
Sarebbe ridondante precisare a chi presta la sua attenzione a questo diario da dove sono tratte le righe che ha appena lette. Difficile trovarne di più asciutte, di più penetranti, di meno effimere a dire, sul fondamento di una constatazione prima topografica, quindi contrastiva, quale fosse il principale carattere socio-antropologico della civitas oggetto di osservazione, esemplare sineddoche della grande isola mediterranea cui funge opportunamente da capoluogo. Dietro un potere da conservare o da acquisire, un'inestinguibile brama di ozio. 
Oggi ci vuole poco a considerare tale carattere permanente. Esso ha in effetti trasceso gli accidenti storici menzionati in quella rappresentazione letteraria. I durevoli conventi e gli effimeri fuochi contingentemente accesi nell'occasione lì evocata? Mere evenienze. I primi si sono svuotati, ma solo perché consorterie e conventicole di coloro cui, per oziare, serve il potere hanno trovato luoghi più coerenti col tempo per annidarvisi. E ai secondi basta sempre poco per atteggiarsi a festose luminarie, a occhi di bue, a luci della ribalta, a lustrini e così via. 
Si tratta tuttavia, allora come oggi, di una civitas. E, forma di vita umana associata, non c'è civitas che non comporti che qualcosa vi si faccia, che vi vigano attività o, perlomeno, loro parvenze. A ciò si aggiunga che, proprio per il suo carattere di comunità umana, in una civitas, il potere non è mai assoluto. Finisce sempre per incontrare limiti, per essere condiviso. Grande che esso si presenti, è insomma un potere relativo. L'ozio che garantisce è parziale. Chi ha molto potere gode di molto ozio. Ma l'opportunità di oziare si assottiglia via via che si scende giù per la scala del potere. Fino a diventare quasi nulla. 
Mai nulla del tutto, si osservi. La civitas in questione presenta infatti un dato antropologico di rilievo. Proprio in funzione della brama di ozio, culturalmente costitutiva, non c'è suo o sua componente che non finisca per arrogarsi una porzione, anche minima, di potere e che non la eserciti regolarmente con attitudini di norma violente: incoercibili e, caso mai, solo molto malamente mascherate. 
Fosse anche solo il potere di collocare una sedia sgangherata o una arsa fioriera in un marciapiede, come fosse uno spazio esclusivamente privato. O quello di utilizzare l'angolo di una via come discarica dei propri rifiuti. O quello di collocare un mezzo di locomozione personale (qualunque taglia esso abbia: dal SUV al monopattino) come meglio fa comodo e così via. Tutte forme di potere. Miserabili, si dirà. Ma, ci si pensi, perfettamente funzionali agli ozi (miserabili) che esse procurano e che ne rendono perfettamente conto. 
Chi, per esempio, lascia la sua auto in doppia, terza, quarta fila, non lo fa per scarso senso civico o per malgarbo: lo fa per smania di ozio e quindi per esibizione di potere. Quegli eventuali quattro passi in più che avrebbe in caso contrario dovuto fare, con la pur modestissima fatica, avrebbero nociuto alla sua considerazione di sé, l'avrebbero qualificato ai suoi occhi e a quelli della sua comunità come, alla lettera, un(a) imbecille.
Come si concilia allora la brama d'ozio che caratterizza nel loro insieme i cives della menzionata civitas con la necessità di fare o perlomeno di farne un sembiante? Come si comportano, quando si trovano obtorto collo a operare?
Anche qui, l'osservazione procura un dato inequivocabile. Trasformano l'ozio in approssimazione. Colmano ciò che sono costretti a fare di inesattezze, imprecisioni, pressappochismi, raffazzonature, abborracciamenti, rabberciature, raccozzamenti. E lo fanno, questo sì, con la massima cura. Ciò che conta è infatti lasciare in proposito un segno inequivocabile: è capitato di fare qualcosa, ma lo si è fatto di cordiale malavoglia. 
C'è, in tale attitudine, la marca di uno spregio metafisico, la negazione che un ben fatto, tra gli esseri umani, almeno in tale contesto, possa darsi. E c'è anche l'anatema per chi o per cosa ha turbato l'ozio. Da una prospettiva che considera espressione e comunicazione, si può dire a buon diritto che, davanti al fare, con la sua determinazione a essere approssimativo, il cives di tale civitas scaglia contro ogni eventuale ordine del mondo, contro le nette sfere celesti una sonora e terragna bestemmia: "qui, non come Dio comanda, ma a cazzo di cane!". 
Ed è così che, con qualche rimarchevole e segnata eccezione, certo da secoli e, nei tempi recenti, in modo sfacciato e senza eccezione, non c'è cosa in effetti che in Sicilia non si faccia alla bell'e meglio, sans façon, come capita. E a chi, incredulo forestiere, fosse necessaria una visita per constatarlo, sarebbe bastevole solo un giorno per raccoglierne esperienze dirette in quantità.  
Appena il caso di osservare, a questo punto, che nella vita civile una generale approssimazione rappresenta l'habitat più favorevole alla presenza e alla crescita del malaffare. Non è per caso dunque che siano divenuti proverbiali i modi del malaffare che prosperano in tale civitas, orientati fondamentalmente a ribadire un potere. Alla luce dell'osservazione da cui si è partiti, essi producono correlativamente un'attitudine all'ozio che, con circolo vizioso, ingigantisce vieppiù le approssimazioni che consentono al malaffare di prosperare.
Condizioni accidentalmente favorevoli all'osservazione rendono spesso palesi i guasti che un'approssimazione sistematica e generalizzata produce ora in un àmbito della vita associata (si metta, lo stato delle strade), ora in un altro (si metta, la rete idrica). Ovviamente, senza effetti correttivi o, meglio, con effetti correttivi sempre approssimativi. Non da oggi, non da ieri, chi avrebbe dovuto curarsi di un aspetto o dell'altro, strappato dal proprio ozio, lo ha fatto approssimativamente e, complice, l'intero corpo sociale, con la miriade delle sue approssimazioni, lo ha coperto e lo copre: chi non arronza scagli la prima pietra...
Per la brama di ozio, l'operosità puntigliosa, l'accuratezza, la ricerca del ben fatto sono dunque attitudini, si vorrebbe dire, sentimenti che, ammesso abbiano abitato tale civitas di tanto in tanto e ormai in tempi lontani (ce ne sono singolari e, a dire il vero, molto sorprendenti prove) devono sempre essere stati importati: così dice, d'altra parte, l'opera citata in esordio, in un suo successivo passaggio. 
O, se fortuitamente indigeni (non c'è civitas che manchi di pecore nere), tali sentimenti sono (stati) visti appunto come un'autentica devianza, come una diversità pericolosa per la comunità oziosa. Con esiti talvolta letali, per coloro che se ne sono fatti araldi e che, negli intervalli di un ozio sacrosanto, ciò che era loro capitato in sorte di fare, avrebbero soltanto voluto farlo, scandalosamente, a solitaria regola d'arte.

9 agosto 2024

Temi estivi: Ferdinand de Saussure, nel "tiatro" di Andrea Camilleri

"DIPASQUALE: Allora Andrea, noi ci siamo conosciuti, anzi io ho conosciuto te, nel 1985, in Accademia dove venivo a fare l'esame da allievo regista e tu eri docente di Regia e stavi in commissione d'esame. Anzi stavi dietro la commissione, perché non amavi stare nel tavolo insieme agli altri...

CAMILLERI: No, ero in seconda fila...

...E mi fregasti con una domanda... non so se te lo ricordi...

 No...

La domanda era, dopo un esame tenuto con la commissione di circa un'ora e mezza, sul corso di linguistica generale di Saussure. Non mi hai fatto una domanda generica, ma una domanda relativa ad una nota in appendice, che noi sappiamo essere importante in Saussure. Una nota particolare nell'appendice del testo editato dagli allievi... Albert Sechehaye e Charles Bally, e volevi sapere se io la conoscessi o meno. Mi andò di fortuna perché l'avevo letta, altrimenti forse oggi non sarei qui con te.

Vedi, questa era una mia tecnica, ovvero quella di lasciare parlare molto. Se lasciavo parlare molto, voleva dire che la cosa che veniva detta mi interessava, magari non la condividevo, ma mi interessava l'intelligenza di ciò che veniva detto. E allora alla fine, cosa che i miei allievi ignoravano, la domanda carogna era come una conferma a un giudizio positivo: cioè vedere in che modo uno se la cavava. Ammetterai che una domanda così è una domanda carogna!

Abbastanza, infatti mi sentii perso!

Bastava che tu mi dicessi: nel mio libro non c'è... e io non ti avrei squalificato..."

È un passaggio, dalla pagina 36 alla pagina 38, di Il teatro certamente. Dialogo con Giuseppe Dipasquale, volumetto che l'editore Sellerio, pubblicandolo, ha attribuito come postumo ad Andrea Camilleri, ora è un anno. A concepirlo e a comporlo, più che a procurarne una semplice cura, è stato in effetti Giuseppe Dipasquale, che di Camilleri fu allievo all'Accademia nazionale d'arte drammatica, come lascia intendere il passo.
Il libro contiene conversazioni tra lo scrittore di Porto Empedocle e il suo più giovane sodale ricostruite sul fondamento di registrazioni che, da un certo momento in avanti, il secondo, ospite consueto di casa Camilleri, aveva ritenuto di fare di loro chiacchierate private. Una pensata lungimirante: "Un giorno proposi ad Andrea di registrare le nostre conversazioni. Lui acconsentì volentieri", narra Dipasquale quasi sul principio della sua premessa al libro.
La premessa reca inoltre un'anticipazione dell'aneddoto appena riferito, che aggiunge alle battute della conversazione un dettaglio non trascurabile. Precisa infatti sopra cosa verteva la "domanda carogna" (così Camilleri, che - c'è bisogno di dirlo? - era un maestro nell'ammiccante riciclo di cliché espressivi). Scrive allora Dipasquale:  

"L'episodio che racconto sempre [lo fece in effetti anche in una molto affollata presentazione palermitana del libro in cui un anno fa incappò Apollonio] e che in questa conversazione ricordo ad Andrea riguarda proprio un treno: fu in Accademia Silvio d'Amico che Camilleri dopo avermi fatto parlare per un'ora e mezza senza proferire parola, mi inchiodò su un'unica domanda. «Mi sa spiegare» mi disse sornione nella sua elegante e profumatissima figura dandomi del lei «l'esempio che Ferdinand de Saussure, nel Cours de linguistique générale, fa a proposito di un treno?». Basito, attonito, sperduto. Avevo ventidue anni, avevo letto Saussurre [sic] e l'esempio che chiedeva Andrea si trovava nelle note in appendice! Ebbi fortuna, lo ricordai e da lì iniziò la mia amicizia con questo meraviglioso e immenso uomo". 

Galeotto del pluridecennale sodalizio tra Camilleri e Dipasquale fu dunque Saussure. Chi l'avrebbe mai detto? Il racconto li atteggia d'altra parte a fini lettori e profondi conoscitori delle pieghe più riposte del Cours de linguistique générale: "...una nota in appendice, che noi sappiamo essere importante in Saussure...", dice lo scolaro al compiaciuto e consenziente maestro, sollecitandone la connivenza, nel corso della conversazione.
In effetti, nel Cours, senza differenze tra la prima e la seconda edizione, si parla di treni:

"Ainsi nous parlons d'identité à propos de deux express «Genève-Paris 8 h. 45 du soir» qui partent à vingt-quatre heures d'intervalle. À nos yeux, c'est le même express, et pourtant probablement locomotive, wagons, personnel, tout est différent".

Sono però parole tratte dal cruciale terzo capitolo ("Identités, réalités, valeurs") della seconda parte ("Linguistique synchronique") dell'apocrifo saussuriano. Tratte, in sostanza, dal suo cuore concettuale. Non da una nota peregrina di una fantomatica appendice, voluta dai curatori: peraltro, il loro Cours non ne contiene. 
Va detto inoltre che, dagli anni Sessanta del secolo scorso, per via della pubblicazione della traduzione italiana del Cours curata da Tullio De Mauro e da lui corredata, essa sì, da un imponente apparato di note, mimesi dell'esempio ferroviario rimbalzavano di frequente in scritti di divulgazione della linguistica detta strutturale, oltre che nella manualistica universitaria. Erano modi di illustrare con chiarezza analogica la necessità sperimentale di distinguere tra langue e parole. Lì, probabilmente, Dipasquale e son maître avevano orecchiato il bastevole per imbastire su due piedi la complice e istrionesca fanfaronata. E, alla prova, il maestro aveva così constatato degno di lui l'aspirante allievo: "...vedere in che modo uno se la cavava". 
Bando però alle pedanterie. Qui servono a mettere in più chiara luce, per un migliore apprezzamento, la fabula e l'intreccio del minuscolo gag narrato da Dipasquale. Esso è costruito per intero intorno al topos (e alla maschera) del docente burbero e coltissimo, ma in fondo bonariamente umano, con la sua "domanda carogna". Non solo Saussure ("Saussurre" sarà certamente una coquille), già roba da iniziati, ma, per iperbole, Saussure all'immaginario culmine della sua misteriosa ed esoterica trasmissione. Sapiente per via di fortuna, il pivello esce tuttavia dal malo passo e se la cava... Happy end.
Tiatro, insomma. Meglio: eterna, italiana commedia dell'arte. Capitava spesso, quando Andrea Camilleri entrava teatralmente in scena, come fece nel corso di quell'esame. Non si ha il coraggio di scrivere che lo facesse sempre, nella sua vita pubblica, e che quindi capitava sempre. Non si può nascondere però che, sotto sotto, lo si pensa: un onesto "tragediaturi" in servizio permanente effettivo. 
E bisogna allora essere grati a Dipasquale. Con il pretesto di uno pseudo-Saussure, la sua svelta e sapiente regia e il ruolo di spalla di una coppia comica, per lui appropriatissimo, restituiscono nel racconto l'Andrea Camilleri "proto-pirsonaggio", elementare maschera del suo tiatro stabile, nella sua autenticità costantemente paradossale.