4 novembre 2024

Spettatore pagante (6): "Megalopolis" di Francis Ford Coppola

Mettere un'opera del proprio ingegno e del proprio impegno sotto un titolo è darle un nome. Ed è già, di norma, atto espressivo e comunicativo di importanza capitale. 
Il battesimo ha un valore ancor più straordinario se, giungendo in veneranda età dell'artista, l'opera è quella intorno alla quale si afferma di avere meditato per decenni; di cui si sostiene di avere sognato lungo tutta la propria luminosa carriera professionale; per la realizzazione della quale si è persino provveduto a liquidare parte del proprio patrimonio personale. È appunto il caso di Megalopolis di Francis Ford Coppola. Troppo, c'è immediatamente da sospettare.
Troppo, senza dubbio. E quel nome, parlante, già dice di un eccesso. Lo dice con il suo primo elemento, per semplice analogia lessicale: è il medesimo di megalomania. Ma dice di un eccesso ancora più grande, megalomane appunto, con il riferimento analogico cui, quanto alla storia del cinema, il suo secondo elemento indirizza senza equivoco: Metropolis di Fritz Lang, film del quale fra tre anni ricorrerà il centenario. 
D'altra parte, che Francis Ford Coppola, con Megalopolis, abbia dato sfogo a una sua vena espressionista è chiaro sin dalle prime inquadrature della pellicola. E il suo principale riferimento diventa lampante quando, andando avanti, si vede lo sviluppo narrativo scandito da didascalie sentenziose ed esplicative, come furono quelle che fungevano da intertitoli nel cinema muto.
Quando Lang prima concepiva, quindi dirigeva il suo film leggendario era tuttavia quasi quarantenne ed era partecipe del fervore (letteralmente) esplosivo e corrusco dei primi decenni dell'Europa del Secolo breve. Il Coppola di Megalopolis è invece un ultra-ottantenne immerso nel gelido e cupo stagno globale in cui si versano i liquami della putrefazione della modernità, quando è trascorso il primo quarto del ventunesimo secolo. 
E non si dica che, nei diversi contesti culturali, ma anche brutalmente sociali e concretamente antropologici, il dato biografico sia privo di correlati, da un lato, compositivi, dall'altro e quanto alla valutazione, critici. 
Tanto fu viva e tesa l'espressione espressionista e conclusivamente inquietante di un giovanilmente maturo europeo degli anni Venti del secolo scorso, quanto vizza, aggranchita e, in chiusura, stucchevolmente consolatoria è quella di un vecchio americano degli anni Venti di questo secolo. 
Al posto di inventare, in effetti, Coppola cita e ricicla all'ingrosso: Shakespeare e Federico Fellini, William Wyler e Marco Aurelio, Gaio Sallustio Crispo e Ridley Scott, H.G. Wells e se stesso. 
Il risultato è un guazzabuglio. Lo spettatore pagante, con la sua modesta cultura generale e in particolare cinematografica, non ha certo potuto riconoscerne tutti gli ingredienti. Ha tuttavia colto il disordine di un composto non amalgamato, l'accozzamento privo di ratio e di grazia, la sciatteria paradossale per lo spreco dei mezzi tecnici (tuttavia, a guardare con attenzione, meno grandioso di quanto si sia favoleggiato).
Megalopolis è insomma un film grottesco, un'americanata, un fantapeplum che muove sovente al riso, già a partire dal frullato onomastico di cui si fregiano i suoi improbabili personaggi: Cesar ['sisa'] Catilina (inventore di una nuova materia, chiamata anch'essa non a caso megalon), Franklyn e Julia Cicero, Hamilton Crasso III, Clodio Pulcher, Wow Platinum. E, ciliegina sulla torta, per la bimbetta che in epilogo continua a muoversi anche quando i suoi summenzionati genitori hanno romanticamente fermato il tempo, Sunny Hope Catilina. 
C'è d'altra parte ancora una differenza fondamentale tra Metropolis e Megalopolis. Il primo, del 1927, è un film muto. Il secondo, purtroppo, no. Non c'è in esso una sola parola che non spinga in effetti a rimpiangere, nel confronto, una sortita cinematograficamente memorabile: "I love the smell of napalm in the morning". 
Allo spettatore pagante essa ricorda che Francis Ford Coppola, quarantenne quando il Secolo breve si avviava alla fine, fu capace di aggiungere alla storia del cinema un capolavoro tardo-espressionista. E l'ammonisce: la vecchiaia è un grande guaio. Gigantesco, quando perde il controllo di sé.

1 novembre 2024

Lingua loro (49): "Potente" e "potenza"

"...è un romanzo grande e potente": con questo lapidario viatico attribuito ad Antonio D'Orrico si apriva ora è un lustro una pagina di réclame di Il Colibrì di Sandro Veronesi. Qui non è questione di quell'opera, ma di potente e di potenza. Sono parole che oggi spesseggiano nel discorso critico o, forse meglio, nella chiacchiera sopra temi letterari o cinematografici.
Apollonio vanta (o sconta) un'esposizione a quella chiacchiera (e, se si vuole, a quel discorso) che supera ormai il mezzo secolo. Saltuario ascoltatore e distratto lettore, ci si intenda. Non pretende quindi che le sue siano asserzioni dottrinali. Osservazioni non solo impressionistiche però, sì, fosse anche soltanto per la sottesa durata. E l'ipotesi che si affaccia, senza ovviamente che se ne proponga un'interpretazione da correlazione causale, è che potente e potenza abbiano cominciato a dilagare nei contesti menzionati più o meno dagli anni in cui è stato commercializzato in Italia il prodotto farmaceutico rappresentato dall'immagine che correda questo frustolo. Insomma, Zeitgeist, si dice dottamente. Più alla buona, aria che tira e che ringalluzzisce non solo lo spirito (pneumatico di suo, pronto quindi a gonfiarsi), ma anche il corpo.  
Non sono ovviamente neologismi, potenzapotente. Ma Apollonio ha la netta percezione che sia in effetti relativamente nuova l'estensione della loro portata, accesamente figurata, alla sfera delle arti menzionate. E che soprattutto sia nuova la loro ascesa, in quelle chiacchiere, al rango di tormentone. Per una prima esperienza e un primo esercizio in corpore vili, ecco un'accidentale e non esauriente raccolta delle ricorrenze di potente e di potenza nelle pagine con cui La bella confusione, libro recente e molto fortunato di Francesco Piccolo, si proietta verso la sua (potente?) conclusione:   

Ho cominciato a leggere Yoga [...] piano piano nella mia testa si è formata chiara l'idea che [...] stava riuscendo a spiegarmi qual è la caratteristica più potente di Otto e mezzo: la vitalità (200).

Questa volontà di stare bene è molto potente quando si vede Otto e mezzo, è molto potente quando si legge Yoga. E per quanto mi riguarda è molto potente anche dentro di me (202-3).

Bisogna dire, a questo punto, che Il Gattopardo e Otto e mezzo, insieme, rappresentano ancora altro, al di là di sé stessi. La potenza di questo momento, il fatto che due autori così importanti abbiano fatto due film così grandiosi contemporaneamente [...] e che quando sono usciti abbiano avuto un effetto devastante, potente [...] ecco, bisogna dire che questi due film rappresentano non so se il punto di alto, ma di sicuro il punto di arrivo di venti anni di grande potenza del cinema italiano nel mondo (211).

Questa potenza e questa specie di ultima esplosione, si manifesta soprattuto nei riconoscimenti ottenuti nei vari festival internazionali (211).

In Otto e mezzo c'è la fine della giovinezza (o la paura della fine della potenza) per un individuo e soprattutto per un artista (213).

Ma quella potenza produttiva non si vedrà più (213).

e in contrasto vede non solo la bellezza, ma la potenza ormai irresistibile di Angelica, e tutta questa potenza sta per culminare proprio di fronte a lui (244).

Ed ecco che l'autobiografismo di Visconti diventa potente oltre ogni sua volontà (245).

Quindi il contrasto tra la giovinezza potente, voluttuosa, e il vecchio che muore (245).

Angelica è assolutamente potente e desiderabile. Come dice Tomasi del quadro, al centro c'è la fine di don Fabrizio, ma in realtà il quadro è stato fatto per la potenza di Angelica (246).

sente il desiderio potentissimo che arriva dal profumo di questa ragazza e anche dalla potenza di questa ragazza (247).

Mentre il finale che vediamo noi [...] è una potente accettazione della vita (251).

si sentono parte di uno stesso mondo che è quel mondo che ha avuto quella potenza assoluta e che adesso, casomai, è meno potente e più in difficoltà (255).

Deriva paradossale, ma forse non sorprendente, del Wille zur Macht nella temperie della modernità putrefatta? O, da parte delle più vive coscienze di tale temperie, non troppo implicita ammissione, rivelata dall'uso evocativo, maniacale e ossessivo del positivo, di trovarsi invece nello stato definito dalle negazioni di potente e di potenza? Apollonio non sa. Giudichi chi legge.

30 ottobre 2024

Lingua nostra (14): "Ultimo" (e, sullo sfondo, come "Lingua loro", "estremo")

Ultimo
 alberga, lo si sa, un'anima da superlativo. Come l'albergherebbe estremo. L'anima superlativa di estremo si è però fatta fantasmatica, nella coscienza di un gran numero di parlanti e di scriventi. 
Sulle labbra o sotto le penne di costoro capita di cogliere, si ponga, un "più estremo". Per esempio, in una sorta di "coccodrillo", presente nell'archivio di una gazzetta qualsiasi e caduto per tale ragione nella rete di un'estemporanea interrogazione di Apollonio, si legge: "Famosi i suoi j'accuse. E l'ultimo, e forse il più estremo, è della fine di settembre". 
A chi correlativamente storce il muso, il giornalista potrebbe sempre opporre una ricorrenza comparabile nei Promessi sposi: "Finalmente, altri casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi tra loro, secondo la scala del mondo". 
All'ombra del fallo (eventuale) di una tale autorità, falli al séguito, com'è appena il caso di dire, smettono di apparire tali. E nessuno, ancor meno Apollonio, si scandalizzerà di conseguenza della loro circolazione "a bischero sciolto".
L'anima superlativa di ultimo è al contrario ancora ben viva e, dal culmine che occupa (superlativa, appunto), oppone fiera resistenza a chi volesse gettare ultimo giù dalle scale, come si è fatto con estremo, oggi ridotto a qualificare un più o un meno e non più un'acme. 
In effetti, anche a chi propala più estremo, suppone Apollonio (speranzoso), più ultimo suonerà ancora stridente, al limite della sopportazione. Mai dire mai, tuttavia, nelle vicende linguistiche, né qualificarle come estreme. Alle orecchie di un Cicerone, fantasiosamente di nuovo mondane, espressioni che passano (e non da tempo) come banali parrebbero testimonianze inoppugnabili di un'estrema perdita della ragione. 
Ma tout passe, tout casse, tout lasse e, miracolosamente, la lingua resta sempre la lingua. Malgrado a parlarla siano gli esseri umani, ci sarebbe da dire, e non per celia. Ci provano di continuo, gli esseri umani, a ridurre alla loro misura, infima, tutto ciò che hanno ricevuto in prestito momentaneo (la vita, la lingua...). Ma, costretti come sono nei loro limiti, non ne hanno evidentemente la facoltà. 
Giunti come si è a riflettere sopra ciò che è momentaneo (quindi, umano), una nota ulteriore sopra ultimo capita allora a fagiolo. "La luna e i falò è l'ultimo romanzo di Cesare Pavese": ineccepibile. E ineccepibilmente, nella nota bio-bibliografica che avrebbe dovuto corredare uno scrittarello del suo alter ego, Apollonio vede comparire un "Fare nomi è il suo ultimo libro". 
Con i suoi usi ineccepibili, ultimo fa appunto simili scherzi e tutte le volte che lo si intende o lo si legge applicato a quanto ha fatto un essere umano, se non lo si sa per altre vie, bisogna che ci si chieda se è ultimo per sempre o ultimo, al Cielo piacendo, solo momentaneamente. Se è un ultimo perfetto o un ultimo che si immagina ancora imperfetto, quindi in attesa di (eventuale) falsificazione e di farsi penultimo, terzultimo... 
Insomma e per concludere con l'aneddoto, dopo essersi concesso pratiche apotropaiche delle quali non sarebbe elegante procurare né qui né altrove una descrizione, con calda approvazione di Apollonio, l'alter ego ha proposto per quella bisogna (e, spera, non come ultima o estrema volontà) una formula meno impegnativa, ma non per tale ragione meno veritiera: "Fare nomi è il suo libro più recente". Cambia poco ma, quando niente, un'espressione neutra. Forse un po' più bene augurante. In attesa che, riferito se possibile ad altro, il più recente diventi un giorno ineluttabilmente l'ultimo o l'estremo senza più.

26 ottobre 2024

Spettatore pagante (5): "Iddu - L'ultimo padrino" di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Il cast di un film è un segnale (commerciale) - è appena il caso di ricordarlo. Come funzionerebbe altrimenti, anche nel piccolo, lo show biz
Fra le altre cose e al pari di altri aspetti (o forse meglio), esso dice come l'opera si indirizzerà e apparirà al pubblico e alla critica, perlomeno nelle intenzioni di chi l'ha ideata e si propone di dirigerla, ma soprattutto in quelle di chi la produce e cerca interpreti che riscaldino il botteghino.
Al riguardo, Iddu - L'ultimo padrino è esemplare (iddu vale 'lui', in siciliano, con pronuncia retroflessa della doppia dentale sonora). Ne sono registi e sceneggiatori i due volenterosi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, certo non notissimi né presenti al pubblico come autori di pellicole memorabili. Ma, nel loro film, ruoli del massimo rilievo sono coperti da Toni Servillo, Daniela Marra, Barbora Bobuľová, Fausto Russo Alesi e, come idduElio Germano. Di quest'ultimo, romano, va subito lodata la cura nella dizione: non il solito siciliano cinematografico e televisivo, ma, con tocco realistico, una parlata accettabilmente prossima ai modi che siciliano e italiano regionale prendono nell'estremo lembo sud-occidentale dell'isola
Nell'insieme, si tratta di attrici e di attori cui, da qualche anno, il cinema italiano che si vuole d'autore fa appello di norma, se non proprio a rigore. Variamente suddivisi e suddivise, hanno in effetti recitato in film di Bellocchio, Moretti, Sorrentino, Garrone, Martone, Salvatores, Guadagnino, per fare qualche nome di spicco. Non solo nei film di costoro, ovviamente, ma si può dire che, per qualche regista (laureato), c'è in quell'elenco chi rappresenta l'interprete per eccellenza.
Con un cast del genere, Iddu è uscito indubbiamente nelle sale come un film d'autore. Anzi d'autori, visto che, come si è detto, di sceneggiatori e registi, ne ha due. Alla qualificazione contribuisce poi il soggetto, liberamente ispirato a o, per dire meglio, allusivo di una figura e di una vicenda di appena perenta attualità. Ne sono state piene in effetti le cronache giornalistiche. 
Il personaggio che tanto nel titolo, quanto qui e là nella sceneggiatura, viene designato per estrema antonomasia con iddu (oltre che, meno enfaticamente, con Matteo) si ispirerebbe infatti a quel Matteo Messina Denaro, cioè a un siciliano della provincia più occidentale dell'isola, che da una pluridecennale latitanza, vissuta quasi a casa propria, ha regolato e mandato gli affari criminali di un'impresa collettiva che, nel film, se non ci si sbaglia, non viene mai designata con un nome, per motivo di ovvia ridondanza. È in effetti di gran lunga la maggiore, tra le radicate in Sicilia, e la più nota. 
Un protagonista e un tema siffatto, per conseguenza, farebbero di Iddu anche, se non soprattutto un film di impegno civile e come tale è stato di norma presentato da chi ne ha scritto. Ma non ci si figuri perciò che si abbia in proposito a che fare con qualcosa che lontanamente somigli, per fare un esempio, a un classico del genere, come Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Nemmeno mutatis mutandis, come imporrebbero in ogni caso i più di sessanta anni trascorsi tra una pellicola e l'altra.
Tanto realista, socialmente impegnata nella denuncia, dirompente e, a suo modo, narrativamente romanzesca fu la pellicola di Rosi, quanto lirica, intimista e intrisa di sensiblerie è Iddu. Personaggio e vicenda di cronaca fanno infatti al film da mero e lontano pretesto. Anche perché lo sviluppo narrativo, lo si volesse proiettare in qualche realtà (la siciliana inclusa), sarebbe inverosimile e fiabesco. Tetramente fiabesco, ci si intenda. 
Ma i personaggi hanno caratterizzazioni stereotipe, come appunto si conviene a una fiaba cupa. E il film ha il suo nocciolo, crudo e malvagio, nel Padre, un archetipo negativo, ad affrancarsi dal quale, ancora oggi, non si riesce. 
La narrazione prende appunto le mosse dalla presenza di una sorta di orco sanguinario (con rituale sacrificio di un agnello) e ne decreta immediatamente un'assenza che ha i tratti di un'incombenza morale, lacerante e non sanata. 
L'archetipo ha anche il suo oggetto di valore o, forse meglio, il suo totem: un pupu (così nel film ci si riferisce a un bronzo antico allusivo del celebre Efebo di Selinunte). Continuare a possederlo o perderne il possesso non sono circostanze neutre, ovviamente. 
Tra i personaggi, sempre, anche se variamente collegati al nocciolo archetipico, non mancano lo sciocco, la strega e un intrepido cavaliere che, per assecondare l'odierna tendenza culturale, è nel caso specifico di genere femminile: anch'esso o, in modo più pregnante, anch'essa ha una sorta di ambiguo padre dal quale, fino in fondo, non riesce a liberarsi. 
Un tragicomico pulecenella funge da attante mobile. È l'elemento cui plot e intreccio affidano per intero la messa in moto e l'avanzare del racconto. Il personaggio, un campano in Sicilia, è disegnato sull'interprete e l'interprete, consapevole del compito da mattatore e con generosa prova di attore, finisce per gigioneggiare (come gli capita ormai spesso e stucchevolmente). Il personaggio si fa di conseguenza caricaturale. 
Anche per questa ragione il film non decolla, come si dice ormai con metafora aeronauticaAppesantita dalla pretesa di essere in ogni caso una buona mimesi della realtà, l'inverosimiglianza non vi diventa fantasia. Nei dialoghi, le non rare citazioni cólte moraleggiano, più che dare un tono morale. Soprattutto, la pellicola resta asfittica, quanto alla narrazione. 
Qualcuno ha scritto (e forse i registi medesimi hanno dichiarato) che, a proposito di mafia e mafiosi, un mondo asfittico e spento è proprio quanto il film si è proposto, per la prima volta, di mettere meritevolmente sul grande schermo. 
Se è così, ci si può solo rammaricare di un avvenuto contagio. Come non dovrebbe appunto accadere nel prodotto di un'arte, da ciò che si è inteso rappresentare, il tratto asfittico si è trasferito ai modi e alle forme dell'opera. E il risultato è che, attirato in sala dal tema e dal cast, lo spettatore pagante ben presto comincia a sbadigliare, perché si annoia.   

18 ottobre 2024

Lingua loro (48): "Incassare"

Il buono e vecchio ottenere non gode di buona stampa, ormai da tempo. Chi traccia la direzione della lingua e determina il suo futuro lo trova moscio, evidentemente. 
Solo per fare un esempio fantasioso: se il Ministro dell'Economia sottoponesse al Parlamento la proposta di nuova introduzione dell'imposta comunale sui cani (abolita, pare, nel 1974, con esiti testimoniati dal decoro urbano di tutte le città italiane) e, appunto sempre più fantasiosamente, il Parlamento approvasse, il giorno dopo dalle gazzette scritte e orali non si avrebbe come resoconto "Il Ministro Pinco Pallino ottiene l'approvazione della norma bla bla...". Si leggerebbe e si udrebbe invece "...incassa l'approvazione...".
I due lettori di Apollonio sono increduli? I risultati della semplice ricerca in rete delle sequenze "incassa... ha incassato... incassare l'approvazione" faranno sì che Apollonio "incassi" il loro consenso.
Non va diversamente infatti con "il consenso", "l'appoggio", "il sostegno", "il plauso" e, esemplare, "l'endorsement". E fin qui, si può pensare, niente di strano. E niente di strano, una volta assuefatti, se "incassa un pareggio" o "una vittoria" una squadra di calcio, se "incassa un 28" il candidato a un esame universitario, se "incassa il Leone d'oro" una pellicola cinematografica e così via. 
Come prova che la catacresi (un momento di pazienza: a breve ci si torna) è tuttavia in avanzato stato di consolidamento e che, non solo ottenere, ma anche ricevere e addirittura subire rischiano di venirne travolti, adesso "si incassa la contestazione", "la bocciatura", "la disapprovazione", "il rifiuto" di qualcuno. Di conseguenza, uno sportivo "incassa una (sonora) sconfitta", un progetto "incassa un rinvio" o "uno stop" e, sul mercato, l'auto elettrica "incassa un (catastrofico) flop" . 
E siccome la lingua è il quid d'ogni perversione, anche se la locuzione è formalmente identica, ciò che si vuole dire con (esempio autentico) "Meloni incassa la bocciatura politica del salario minimo..." è ben diverso da ciò che si vuole dire con (esempio autentico) "Shell incassa la bocciatura di Credit Suisse". Nel primo caso,  "Meloni [felice] ottiene...", nel secondo "Shell [tutt'altro che felice] riceve...". Oggi incassare è vox media, verrebbe fatto di dire. Si "incassa" di tutto.
Illustrare il tropo ideale che soggiace a questi "abusi" (valeva questo catacresi quando - e fu catacresi - sorse come termine retorico e grammaticale) rischia di essere ridondante: la cassa che procura la base lessicale del derivato incassare non è ovviamente quella da morto. Ed è questa ancora una prova che, come nel caso accademico (modesto e locale) di crediti formativi e di molto, molto altro, ad animare e ispirare una lingua siffatta come lingua di questo tempo è uno spirito di micragna bottegaia.

11 ottobre 2024

Per il centoventottesimo anniversario di Roman Jakobson

Ciò che Roman Jakobson professò nella sua maturità di studioso incoraggia a formulare un'ipotesi: per un essere umano, venire al mondo è la messa in opera di un'intenzione vitale (cioè espressiva) e comunicativa. La sua prima intenzione con una manifestazione. Nel caso di Jakobson medesimo, la manifestazione di tale intenzione avvenne a Mosca nel 1896. 
Né il luogo né il tempo furono ovviamente esiti di una scelta personale. Nessuno può fare come gli aggrada al riguardo e si è obbligati a prendere ciò che capita. Affacciandosi alla vita, che è come gettarsi nel flusso di una catena sintagmatica, si accetta (senza possibilità di rifiuto) una sorta di collasso della paradigmatica. Come se il tutto si verificasse sotto il segno della funzione poetica, senza che dell'ipotetico poeta resti altra traccia. In qual genere poi si inscriverà il componimento, come vi si mescoleranno il comico, l'elegiaco, il tragico e (favorevole un'epoca) perfino l'epico, si saprà irrimediabilmente strada facendo, caso mai, e, a dire il vero, solo a cose fatte per intero. 
Ma da Jakobson ebbero precocissima e piena adesione spirituale il luogo di quella sua prima intenzione realizzata e, in coordinazione con il tempo, ciò che al luogo si correlava culturalmente. E se le vicende della sua vita lo fecero esule più di una volta e titolare, negli anni, di cittadinanze diverse, egli curò infine che rimanesse testimonianza di quella adesione originaria, con un messaggio dal valore emotivo e referenziale al tempo stesso.
Nel 1896, il codice vigente a Mosca denominava 29 settembre il giorno in cui Jakobson nacque. Il codice vigente a Berlino, a Parigi, a Londra, a Roma lo denominava invece 11 ottobre. Effetto del noto divario tra calendario giuliano (allora in uso in Russia) e calendario gregoriano. E buona illustrazione della convenzionalità del tempo cronico. Così l'avrebbe qualificato anni dopo, con apparente pleonasmo, Émile Benveniste, per differenziarlo dal tempo che qualificò come fisico e da quello che qualificò come linguistico. 
Fare emergere e cogliere ordinate differenze nell'espressione umana fu, come si sa, fisima di molti linguisti del Novecento, convinti che proprio nella differenza si dovesse cercare la specificità di quella dote che, inquadrata con i mezzi di qualsiasi scientismo naturalista, non può che parere più che  bizzarra, quando è invece tanto ordinaria da farsi quasi sempre fucina di piatte stupidità fàtiche. 
Jakobson contribuì decisivamente all'impresa della determinazione delle differenze. Si può dire che ne fu il campione. Un indirizzo in tal senso gli era d'altra parte venuto dal magistero del connazionale Nikolaj Trubeckoj, che, ammesso l'avesse potuto e voluto, non ebbe il tempo di riparare nel Nuovo Mondo, come Jakobson fece avventurosamente, quando nel cuore del Vecchio erano evidenti i segni che si era già andati verso il peggio.
Un indice dei nomi presenti in questo diario, se mai lo si compilasse, direbbe che Jakobson, Roman è forse il nome con il maggior numero di ricorrenze (e non sempre per manifestare un consenso da parte di chi lo menziona). Gli fa certamente concorrenza Saussure, Ferdinand de, il cui titolare nacque addirittura nel 1857. Insomma, gente del tempo che fu. 
C'è criterio più chiaro e inequivocabile per sancire l'inattualità di Apollonio e di quanto propone qui, quando si è da un pezzo nel Ventunesimo secolo?
In una conversazione privata di qualche tempo fa e con riferimento ai nominati, da un buon sodale venne ad Apollonio e al suo alter ego il commento: "Torneranno...". L'intenzione era amichevolmente consolatoria. E a suo modo liquidatrice, come sono quasi sempre le consolazioni. 
Con il suo alter ego, Apollonio apprezzò l'intento ma sorrise intimamente del suo metodo e del suo merito. Per lui Jakobson non se n'è mai andato. E con lui, mantengono la loro viva presenza altri i cui nomi non sempre compaiono in questo diario o che non vi compaiono con la stessa frequenza, ma che vi operano attivamente. Non è del resto svanito il gran tema umano che aveva appassionato tutti costoro, in modi e da punti di vista diversi.
Caso mai, ad andare e venire (quindi a tornare, con diversa valorizzazione della marcatezza non tanto dello spazio, quanto della persona: di nuovo, fisime da linguisti) è stata, è e sarà la corte degli orecchianti. Essa regola infatti i propri usi e soprattutto i propri abusi in conformità con gli andazzi.
Ma ci sia o non ci sia folla intorno, in permanente compagnia di Jakobson sta un piccolo novero di persone felici. Apollonio ne fa parte. Come può, naturalmente, e con i suoi limiti, come testimonia la sommessa celebrazione qui officiata.

Nel séguito, un po' a casaccio e senza pretesa di completezza, pagine di questo diario in cui Roman Jakobson fa da (co)protagonista:







[Dall'alter ego giunge ad Apollonio il rimprovero di non avere menzionato qui anche il frutto di un suo modesto impegno. Se ne trova in effetti testimonianza nella colonna che affianca i frustoli, ma forse ha ragione e gli si accorda una ridondanza.]





7 ottobre 2024

Luchino Visconti, araldo di "quella che è..."

In italiano, da qualche tempo, il sistema della determinazione nominale si sta evolvendo. Ancora poche settimane or sono, questo diario lo ha nuovamente documentato: "la Stampa ricorda anche quelle che sono le tre vittime nel Canton Ticino", per esempio. Ma hanno già più di tre lustri acute osservazioni in proposito di Stefano Bartezzaghi. 
Da esse, qualche anno dopo, l'alter ego di Apollonio prese in effetti spunto per un contributo specialistico che provò a collocare il fenomeno recente, in apparenza solo peregrino e frutto di un momentaneo andazzo, in una deriva diacronica plurisecolare: l'affiorare dell'articolo romanzo, come forma della determinazione nominale, a partire da un sistema, il latino, che, senza alcun danno, ne faceva bellamente a meno. Non per celia vi si affermava che nella deriva si vedesse già allora e di nuovo all'opera una "prevalenza del cretino".
Si individuava così, ancora grossolanamente, un vettore del mutamento linguistico dal rilievo pancronico di norma trascurato o, meglio, non (ancora) riconosciuto nella sua forza. Proprio come lo è "le rôle de la betîse dans l'Histoire", secondo Raymond Aron. A tempestiva conferma dell'ipotesi, venne il successivo reperimento di un dato e l'alter ego di Apollonio lo offrì a una considerazione più vasta della specialistica in un intervento divulgativo sul tema. 
Eccolo qui ripreso (il corsivo è aggiunto per segnalare ciò che è pertinente): "Un gruppo di studiosi fascisti docenti nelle Università italiane sotto l'egida del Ministero della Cultura Popolare ha fissato nei seguenti termini quella che è la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza" si legge in effetti, come esordio, nel primo fascicolo (agostano) della prima annata (1938) della rivista La difesa della razza. Non serve altro, qui si opina.
Il dato mostra altresì freddamente come lo sviluppo in questione non sia cominciato proprio ieri. Se è stato segnalato nella letteratura linguistica negli ultimi decenni, è solo perché esso è frattanto divenuto un fenomeno macroscopico. Oggi è visibile a chiunque presta un'anche modesta attenzione alle condizioni del mare dell'espressione e della comunicazione in cui si trova immerso. In una pausa delle stesura di questo frustolo, per esempio, Apollonio si è fatto spettatore di un notiziario teletrasmesso e, senza intenzione particolare di ricerca, ha udito dalla viva voce di intervistati e intervistate parecchie ricorrenze della perifrasi. 
Per dirla in altro modo figurato: la frana è ormai inarrestabile, a parere di Apollonio, ma i sassolini che la segnalavano come prossima avevano cominciato a rotolare per la china già molto tempo fa. Ed è oggi appunto chiaro (facile senno del poi) che si trattava di sassolini molto significativi, in funzione del criterio pancronico cui si è fatto riferimento. Una lettura stravagante procura adesso un'ulteriore stagionata e pregnante testimonianza ad Apollonio, che è felice di condividerla con i suoi due lettori. 
Erano stavolta i primi anni Sessanta del secolo scorso: un'epoca di "intellettuali". Diversamente da oggi, letteratura e cinema, anche per le loro implicazioni politiche e di vita civile, agitavano gli interessi del pubblico di quotidiani e rotocalchi. 
Nel loro Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra" (edizione più recente, Feltrinelli, Milano 2023), Alberto Anile e M. Gabriella Giannice riferiscono appunto di numerose interviste concesse alla stampa da Luchino Visconti nel corso della lunga gestazione del suo film ispirato al romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 
In una di esse, secondo la citazione di Anile e Giannice, il regista si sarebbe espresso così (anche qui il corsivo è aggiunto): "Non conosco ancora l'esatto binario su cui correrà il mio Gattopardo [...]. Il nome mi affascina di per se stesso, come un aroma forte di odori e di sensazioni. Comunque, mi lascerò guidar da quella che è l'improvvisazione del momento, ma quello che ho in mente di trattare a fondo è la non accettazione dell'immobilismo storico del Lampedusa".
La filologia impone cautela. Il testo che ora si legge è frutto di due mediazioni: anzitutto, quella di chi trascrisse a suo tempo l'intervista; oggi, quella di chi ne riporta la trascrizione. Potrebbe quindi albergare interpolazioni. 
Non stupirebbe tuttavia che Visconti fosse allora all'avanguardia e dettasse la tendenza anche quanto agli usi linguistici: il "conte rosso", così era detto il nobiluomo a quei tempi e con ragione. Di quel colore politico e all'avanguardia, tra cultura, spettacolo e vita pubblica, lo era in tutto, da qualche decennio e in particolare in quei frangenti. 
E a proposito della direzione della sua deriva e di ciò che ne sarebbe seguito, fulminante sarebbe stata di lì a poco l'amara opinione di Ennio Flaiano (riferita da Francesco Piccolo, nel suo La bella confusione, Einaudi, Torino 2023): "Fellini non mi interessa più perché va verso la sartoria. Visconti perché va verso l'arredamento". 
Si dirà di nuovo figurata tale definizione, ma essa è precisa e appropriata anche quanto alla perifrasi "quella che è...". Dietro l'apparenza di raffinatezza, già allora manifestazione (preparatoria ed efficace) di manieristico cattivo gusto nell'arredamento del discorso. 


4 ottobre 2024

"Linguaggio", "significato", "noi" nella letteratura (divulgativa) delle Scienze: un esempio

Apollonio legge di tanto in tanto libri (divulgativi) come quello di cui qui si dà la copertina. Lo induce o, meglio, lo costringe a farlo il suo alter ego, con il pretesto che sarebbero letture necessarie al suo lavoro. Forse fu modicamente vero un dì. Adesso anche l'alter ego bighellona curioso tra le carte altrui, come farebbe intorno ai recinti dei cantieri stradali. Di che lavoro si tratterebbe mai? Ma si lasci all'anziano l'illusione d'essere ancora attivo. 
In effetti, dalla varia prospettiva delle Scienze (il maiuscolo vale a dire "le vere"), si tratta di libri pieni di riferimenti alla facoltà espressiva e comunicativa degli esseri umani. Questa vi è designata con regolarità come "linguaggio". 
Va detto che si tratta di una scelta (insegnava Roman Jakobson: c'è qualcosa nella lingua che non lo sia?). Forse chi la compie non ne è consapevole e ritiene che, fuor di linguaggio, non potrebbe dire altro: faccenda non da poco. Ma non è questo tuttavia il tema del frustolo, che vale invece da confessione di una défaillance.
"Linguaggio" o come diavolo lo si voglia chiamare, Apollonio si vanta di un interesse e di una curiosità in proposito ormai più che cinquantennali. Ma è probabile sia solo vacua vanteria, da parte sua. Riconosce infatti molto poco dell'oggetto del suo interesse e della sua curiosità nelle menzioni del "linguaggio" e nei riferimenti al "linguaggio" che fanno libri come l'esposto. Né l'aiuta in proposito una sortita come "Se guardiamo al linguaggio come uno strumento, un utensile cognitivo..." che trova nel libro preso da campione accidentale.  
Sarà perché, come ostacolo, in Apollonio risuona ancora l'opinione di un vecchio arnese. Émile Benveniste, inveterato uomo di lettere, richiesto di un parere da una prestigiosa rivista di psicologia, sentenziò, or sono quasi settanta anni: "...il paragone del linguaggio con un strumento [...] deve riempirci di diffidenza, come ogni affermazione semplicistica nei confronti del linguaggio". Ciarpame da Secolo breve
Non va meglio poi con significato. Sempre nello stesso libro si legge "Noi esseri umani siamo quello che siamo in quanto tendiamo costantemente alla ricerca di significato". Apollonio non solo non capisce cosa qui significhi significato, ma non ha nemmeno chiaro se, nel caso specifico e anche altrove, visto che il libro, di significato, fa scialo, significato valga come termine o come parola. 
La distinzione è sempre utile nel discorso ed è capitale (o dovrebbe esserlo) in quello scientifico. Se ne è paradossalmente debitori, si pensi, a un sopraffino cultore della vaghezza: Giacomo Leopardi. Ma essere vaghi come si deve, nella lingua o, se si preferisce, nel "linguaggio", non è in effetti faccenda da poco e necessita di una gran precisione.
Di conseguenza, Apollonio precipita in un'ebete stupefazione quando, proseguendo, legge sotto le medesime penne: "Considerando allora la scena del film di Kubrik [2001: A Space Odyssey, naturalmente] è probabile che vi sia un momento zero che precede l'uso, da parte dello scimmione, dell'osso del femore come una clava. Quel momento zero ha una connotazione originaria: mentre denota l'emergere del comportamento simbolico, segna anche l'avvento della differenziazione umana. Il fatto che un osso, che potrebbe essere solo un osso, a un certo punto diventi un'altra cosa dipende dalla pausa di riflessione che lo scimmione mostra di fare. Il tempo che intercorre da quando l'animale preleva l'osso, osservandolo attentamente mentre lo stringe nella mano, a quando passa all'azione, un tempo abbastanza lungo che lo scimmione impiega a guardare l'osso, girandolo e rigirandolo, è il tempo del sensemaking. È il tempo in cui avviene una traduzione da un oggetto, dalla cosa in sé, al significato della cosa". 
Ma questa, si sa, è Scienza (divulgata) ed è ovvio che essa superi le capacità di comprensione di una persona semplice come Apollonio che, senza pretendersi "scimmione", ha una cosa sotto i suoi occhi e tra le mani: il libro; lo gira e rigira e non riesce a farlo passare da oggetto a "significato"; non sa quindi cosa farne. E questo frustolo testimonia appunto impietosamente del suo fallimento.
C'è da dire, a sua giustificazione, che egli non padroneggia le diavolerie tecnologiche che, davanti agli Scienziati e alle Scienziate, squadernano oggi i cervelli di coloro che parlano (e addirittura pensano) come fossero libri aperti. Forse perciò è incapace di immaginare correlativamente le scene aurorali dell'umanità. Non solo prese in prestito dal cinema o dalla letteratura (che fanno in ciò il loro onesto mestiere), le trova infatti spesso evocate e ricostruite, come fossero in visione diretta, in libri come il qui esposto, spesso ma non sempre con mediazione introduttiva di un "probabilmente". 
Si pensi: nella sua cruda naïveté, Apollonio trova da sempre esilarante anche la fola freudiana dell'orda primitiva. È uso in effetti praticare solo analisi minute e alla buona solo di cose che osserva e che il suo modesto mestiere gli consente di mettere in relazione. Per esempio: le innumerevoli ricorrenze della persona grammaticale in Se questo è un uomo di Primo Levi. 
E non ne ricava naturalmente un'idea generale di come sia venuta fuori e di cosa sia la facoltà di esprimersi e di comunicare degli esseri umani. Tanto meno il gran pensiero che, culla moral-materiale dell'umanità, sia stato "uno spazio noicentrico", come "spazio condiviso che implica necessariamente la primogenitura del noi": è quanto in effetti sostiene d'emblée la pubblicazione qui presa a campione, sul fondamento di squadernamenti cerebrali dall'indiscussa affidabilità sperimentale. Ma "noi"?
A fatica e distinguendo tra tanti tipi, funzionalmente opponibili non nel "linguaggio" ma in modeste ricognizioni testuali, Apollonio trae solo qualche ipotesi sul modo, intricato e sistematico, con cui la lingua costruisce la panoplia (tale gli appare in effetti) della quarta persona grammaticale nel discorso: qualche esempio qui, qui, qui, qui, qui, qui... E osserva che essa talvolta include, talaltra non lo fa; talvolta cela la persona (fino a qualificarsi come impersonale), talaltra la gonfia; soprattutto, spesso imbroglia ed è inoltre pronta a usi intollerabilmente paternalistici. 
E, ci si faccia caso, proprio uno dei tanti e differenti "noi" marca stilisticamente e ideologicamente i libri (divulgativi) che, potenza delle Scienze, abbandonata la fredda non-persona che dovrebbe caratterizzarne e garantirne il discorso, sono sempre in grado di dire a "noi" cos'è il "linguaggio", chiarendoci così il "significato" dell'essere umani. Come fa il libro in questione: simpaticamente, moraleggiando e in quattro e quattr'otto. Si vuole mettere?

29 settembre 2024

Linguistica candida (70): Storia e diacronia

Benevolmente, lascino i due lettori di Apollonio che di tanto in tanto egli se ne esca, tra altre futilità forse poco meno impopolari, anche con quelle, impopolarissime, prese di mira da questo frustolo e da altri simili.
Con candore, porge così un contentino al suo alter ego, come una sorta di risarcimento a una severa osservanza disciplinare, quasi sempre qui tenuta tra le quinte, come se se ne avesse onta.
Né credano perciò che tra specialisti e specialiste i temi presi così in considerazione abbiano appunto grande corso. Lo si ribadisce, caso mai non lo si fosse inteso: in questo diario, tutto è gratuito e personale o, per dirla con espressione che sarà universalmente trasparente, ci se la canta e ci se la suona per passatempo.
Ebbene, c'è chi dice di occuparsi di linguistica storica solo perché prende di mira lingue del tempo che fu. Lingue antiche. Talvolta tanto antiche da finire fuori della storia, visto che ci si figura che abbiano appunto preceduto la storia. Lingue "ricostruite", dove il prefisso perturba in molti la giusta percezione di quanto lo segue, con cui si dichiara appunto che si tratta di costruzioni, non di osservazioni. 
Lingue ipotetiche, insomma, non documentate né documentabili: con buona pace della storia, che senza documenti (o monumenti) va notoriamente a ramengo. Eppure, la disciplina che se ne occupa, come si diceva, passa (quasi) universalmente per storica.
Sono i paradossi prodotti dalla leggerezza, se non dall'inconsapevolezza con cui capita usino le parole coloro che pretendono appunto di occuparsi scientificamente di parole (e di altro dell'espressione). Lo sospettò, ai suoi tempi, Ferdinand de Saussure.
Forse per un momento e per istinto di solidarietà, come un Amleto, egli pensò d'essere stato chiamato dal destino a porre rimedio a tale inconsapevolezza e a mettere così la disciplina sul suo indispensabile cardine. "...montrer au linguiste ce qu'il fait" avrebbe significato svegliare un drappello di sonnambolici e attivissimi dormienti (oggi diventato un reggimento).
Ma il suo successivo silenzio lo testimonia: concluse che era impossibile o che non ne valeva la pena. Chi sonnamboleggia si infastidisce di essere svegliato. Meglio, per lui, per tutti, che resti a operare dormendo. E a dire che Saussure ebbe torto a tacere non sarà certo chi verga queste righe. Consapevole com'è d'essere un "povero untorello" quando il fantasioso uzzolo di "spiantare Milano" (a dirla per figura con Alessandro Manzoni) gli si presenta allo spirito e ne viene immediatamente rimosso
Fu prudente Saussure a non cadere insomma nella trappola che, a contatto con il mondo com'è in permanenza, un'indole ingenua, se non sciocca tende a ogni Amleto (lo decretò definitivamente l'arte del Bardo). E bisognerà che con ironia (quindi, finalmente con verità) un giorno o l'altro lo si riconosca. Bally e Sechehaye fecero un gran torto al loro maestro, evocandolo in quella estenuante seduta spiritica che fu il suo o il loro Cours de linguistique générale.
Eppure, solo per tornare oziosamente sopra una vecchia questione che lì sorge, senza esservi a dire il vero risolta, la differenza tra prospettiva storica e prospettiva diacronica, quando si tratta di lingua, ad Apollonio e al suo alter ego pare semplicissima e cristallina. E nelle loro mute conversazioni si stupiscono che ci sia confusione in proposito, nello stagno della disciplina.
Orbene: quando è questione di lingua, la prospettiva storica prende in considerazione e descrive, su base documentaria, quanto è accaduto: idealmente, a tappeto. Idealmente, perché pensare che tutto l'accaduto sia documentato sarebbe gigantesca illusione.
La linguistica diacronica considera anch'essa con attenzione l'accaduto mediato dal documentato, ma prova a distinguervi il pertinente dal non pertinente. E, trattandosi di pertinenza, lo fa alla luce di un'ipotesi di sistema.
Accade di tutto, è la divisa della linguistica diacronica, ma di tutto ciò che accade, anche quando capita sia documentato, non tutto ha un valore: c'è da chiedersi se è pertinente. Per la prospettiva diacronica, il valore di ciò che accade non dipende dal semplice fatto che sia accaduto (e sia documentato), insomma.
La prospettiva storica è invece giustamente refrattaria all'idea di sistema. Tutto vi è accidente, nel senso proprio: se accade ed è documentato è quanto basta perché se ne debba dare conto. Anche la determinazione di cause o effetti dell'accaduto, nella prospettiva storica, ha un senso sotto il segno di tale fondamentale accidentalità: una volta accertato, l'accidente è, come dato, la costante ed è insopprimibile; la sua (eventuale) spiegazione, causale o finale, la variabile.
Al contrario, per la prospettiva diacronica,
il dato è un costrutto e si correla sempre a un sistema: senza tale correlazione, esso letteralmente svanisce. Il dato è in altre parole un rapporto, una dipendenza, una funzione e anche le sue cause e i suoi fini (se determinabili) sono parziali epifanie di un valore funzionale. 
Una linguistica priva di un'idea di sistema tuttavia non si dà. Attenzione! Una linguistica. Non una considerazione della lingua anche disciplinarmente orientata. L'espressione, in uno dei suoi innumerevoli aspetti, costituisce infatti l'oggetto di una panoplia di discipline: non c'è fare umano che essa non incroci (talvolta determinandolo).
Ma se si tratta di una considerazione propriamente linguistica, un'idea di sistema le è connaturata. Se si volesse asistematica, la linguistica urterebbe infatti natura e funzionamento, non tanto del suo oggetto, quanto del suo medesimo fondamento. Come disciplina (e sta qui la sua vera specificità), la linguistica non è una dottrina esterna alla lingua e che le si impone, a mo' di spiegazione e di chiarimento.
La linguistica è solo lingua fattasi cosciente di sé, quindi capace di esprimere se stessa come metalingua: lingua che parla di lingua. Ed è un brutto segno, anzi il segno che non si è sopra una buona strada, quando si fanno in proposito troppo ingombranti terminologia o formalismo, che sotto spoglie diverse sono in realtà la medesima cosa. Scorciatoie che, se non ben controllate, portano appunto fuori da un corretto cammino verso la comprensione.
Ne segue, per riprendere il filo del tema di questo frustolo, che parlare sul serio di linguistica storica è, a essere rigorosi, come parlare di una sfera cubica: una contradictio in adiectoLinguistica implica sistema, storica lo esclude. A meno che storica non sia solo un attributo retoricamente esornativo, che ricorre perché suona bene, o si presti, in prospettiva micro-sociologica, a definire l'hortus conclusus di una confraternita accademica che, nell'esercitarvi il suo (modesto) potere, trova la sua (modestissima) identità (sa insomma ciò che fa in tale campo e poco le importa di sapere cosa fa, disciplinarmente).
Ciò che passa sotto il nome di linguistica storica è in effetti e a ben vedere filologia. Per dire meglio, una specializzazione della filologia, cioè un ramo di una disciplina nobile e antica che, modernamente, si può dire poggi sopra il postulato che Vico pose con l'esatta convergenza di verum e factum. Anche questo è un paradosso, a dire il vero, ma è molto bello e non si ha il cuore di obiettargli alcunché: solo di aggiungere, con un filo di irriverenza, l'osservazione che ci sono fatti che sono fatte di specie poco degne di una caccia. 
In altri termini, la cosiddetta linguistica storica è una filologia settorialmente orientata verso i fenomeni linguistici (e, ben fatta, ha un suo corso vigoroso e rispettabile). I filologi a tutto campo, come dovrebbero essere (ma talvolta non sono) gli storici, hanno però tenuto sempre in sospetto di incompletezza questa filologia specialistica,
con qualche iattanza: un'ancella, infine, troppo formale ed esteriore per essere capace di cogliere la carnosa sostanza delle vicende umane. Insomma, una disciplina minore.
E anche se gonfia pomposamente il petto, quando va a spasso, la linguistica che si qualifica come storica o, in altri e più corretti termini, la filologia specializzata nella lingua abita in realtà i locali di servizio del labirintico edificio delle discipline storiche. E sta lì in attesa che dai piani nobili chi fa storia con tutti i crismi, se pensa di averne bisogno, la chiami a procurare quanto può, per poi congedarla, eventualmente con lode contegnosa: "Brava, ma basta così. Torna pure in cucina". 
La linguistica, la vera, il cui oggetto è un sistema processuale, cioè in continuo divenire, e un processo sistematico, cioè che non eccede mai il sistema, non è invece una disciplina ancillare o minore. Come si disse un tempo presuntuosamente e con scarso frutto di consapevolezza, evidentemente, è una scienza dell'uomo (oggi: dell'essere umano) e solo perciò anche di quanto accade all'uomo (oggi: all'essere umano). E nella correlazione funzionale tra tempo e lingua, come sistema, consiste appunto lo specifico della prospettiva diacronica, in linguistica. 
Un'oltre-filologia, insomma, capace di ponderare fatti e dati iuxta propria principia. Negli ultimi due secoli, di tanto in tanto, la si è vista baluginare, qui e là
. E già questo consola.
Come sconforta, d'altra parte, o fa perlomeno pensare che persino Roman Jakobson, colui che, in vita, tenne a presentarsi come il linguista per eccellenza e come tale fu ed è ancora considerato, volle che il suo avello in terra americana di lui dicesse a conti fatti e conclusivamente "Filologo russo":




24 settembre 2024

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (38): "Erlebnis" ed espressione (con il pretesto di Primo Levi)



Sciogliere, senza residui, la propria Erlebnis in una espressione non è sciorinarne piattamente i contenuti né dirne con enfasi il senso. È darle invece la forma di una relazione sistematica e precisa, fin nel dettaglio, tra signifiant e signifié. In altre parole, è impegnarsi a demistificare la perniciosa fola dell'ineffabile. 

15 settembre 2024

Nipotini e nipotine di Oscar Wilde

"I never read a book I must review; it prejudices you so", scrisse ai suoi tempi un Oscar Wilde in apparenza provocatorio, ma ben saldo invece in una marmorea tradizione di pensatori paradossali. 
A leggere quanto passa oggi per recensione sulle gazzette culturali, c'è da dire che un'attitudine siffatta è diventata la regola. 
Chi recensisce un libro tiene soprattutto a mostrare di averne penetrato l'essenza, di averlo "capito", d'essere etimologicamente intelligente. E poco importa che dimostri di averlo letto, quel libro. Meglio non l'abbia fatto, pare la regola.
Nipotini e nipotine di Wilde pullulano così in un mondo che, è appena il caso di dirlo, nuota appunto da tempo in un oceano di intelligenza. Oggi c'è persino il caso che vi anneghi. Non essendo bastevole la naturale all'universale lavacro, se ne può infatti produrre a volontà di artificiale: la si tocca, se ne spalancano le cateratte e se ne viene sommersi.  
Wilde è però morto prima che la dichiarazione di metodo producesse un séguito tanto numeroso. La vedesse oggi all'opera così efficacemente, capirebbe come, per non trovarsi un giorno a fare da mosca cocchiera a ripugnanti sciami di mosche, lo spirito non basta ed è persino probabile sia controproducente? 
Apollonio non lo sa. Può solo osservare ancora una volta come il tempo sia crudele. E fu questo, a ben vedere, il più profondo e consapevole pensiero di un Oscar Wilde che, dal tempo, riceve dunque in proposito (e non solo in proposito, va detto) ciò che si merita.

8 settembre 2024

Spettatore pagante (4): Una camiciola, come significante


Non mancherà la circostanza (quanto esteriore?) d'essere venuto al mondo nello stesso anno (con qualche mese di anticipo) a determinare l'attenzione che ad Apollonio risulta naturale rivolgere alle epifanie di Nanni Moretti. Anche questa sua, recentissima, a Venezia, gli appare semiologicamente rimarchevole e, come sempre, tipica di un antipatico intollerabilmente simpatico.
Come oggi si dice, sul red carpet (espressione che l'iterazione ossessiva rende odiosa), cioè nel luogo e nel contesto in cui si esibiscono, con rare eccezioni, innumerevoli varianti del cattivo gusto cinematografaro più raffinato e pretenzioso, ecco Moretti arrivare con questa camiciola del tempo che fu, bianca, ma segnata da righine multicolori, aperta ovviamente sul collo e, soprattutto, con manica corta. E presentarsi così, pare, anche alla premiazione. 
Si tratta di un capo che, un tempo, nel secolo scorso, capitava spesso indosso a un "operaio della cultura" come si voleva fosse un regista. Se ne trovano testimonianze in rete: una in particolare, con Federico Fellini e Roberto Rossellini a colloquio, ambedue così abbigliati davanti a una libreria, appunto, colma di volumoni. Esibire la foto qui avrebbe un costo e la (facile) verifica è pertanto rimessa ai lettori di questo diario, se lo desiderano.
Insomma, a significare che il mondo (del cinema) come va non piace, con quel po' di furbizia di chi sta al tempo stesso con un piede dentro e uno fuori, e che se ne preferirebbe un altro, basta, come significante e chissà se al di là di un'intenzione, una camiciola.

4 settembre 2024

Bolle d'alea (36): Contini




Danteggiare fu dunque illegittimo, anzi impossibile, quanto lecito petrarcheggiare: l'assoluto è per definizione ripetibile e produttivo di serie, l'eccesso si compiace di frutti unici e incomparabili.

"Un'interpretazione di Dante", Paragone, ottobre 1965 (adesso in G. Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Einaudi, Torino 1970, p. 379)


 

31 agosto 2024

Come fu che la Crusca perse l'articolo...

 



Il post in una rete sociale dell'Accademia della Crusca parzialmente ripreso nell'immagine e raggiungibile qui ha almeno due aspetti per risultare interessante a chi è curioso dei fatti della lingua. 
Uno è banale e solo apparentemente piccante. Al fondo e a caratteri cubitali, il post porta una scritta, "ORA IN PREORDER", che ha scatenato ironie, ire, sdegni, anatemi da parte dell'orda, sempre vigile e inquieta, dei difensori della lingua nazionale: in proposito, una montagna di commenti che cruscheggiano contro la Crusca e, conseguentemente, l'osservazione che, per quanto uno si atteggi a cruscante, incontrerà sempre qualcuno più cruscante di lui (osservazione che vale, come si sa, per quasi tutti gli aspetti morali della vita umana e che, specificamente, è stata ampiamente verificata, nel Moderno, da molte, se non da tutte le azioni o reazioni politiche).
Nemmeno un commento, se Apollonio non sbaglia, ha invece suscitato l'altro interessante dettaglio espressivo del post, certo più sottile e non corrivamente lessicale (ma si sa, consapevoli che la lingua non sia fatta solo di parole e ancora meno di regole e parole si è fortunatamente in pochissimi). Ad Apollonio, vizioso di lingua per un otium ormai totale, quel dettaglio pare invece un dato sensazionale. Può darsi che si tratti solo di una svista, ma qui si corre deliberatamente il rischio di prenderla sul serio. Del resto, dai tempi del dottor Freud, se non si prendono sul serio le sviste, da prendere sul serio non resta veramente quasi nulla.
Recita allora il post in apertura: "Il nuovo libro di Crusca edito da Mondadori!", Sì, proprio così: "di Crusca" scrive l'Accademia della Crusca nella réclame che fa a se stessa. C'è chi penserà a questo punto immediatamente: "Sarà effetto della concisione imposta dal medium e dal tipo di comunicazione". 
Nell'interrogarsi sui fatti di lingua, un funzionalismo molto alla buona, epifania concettuale di uno spirito fondamentalmente bottegaio, fa in effetti sempre da panacea. Quando osserva qualcosa, "A che serve?" è la domanda-emblema di tale attitudine etica, prima ancora che teoretica. È domanda alla quale non è mai difficile trovare una risposta. Trovatala, ogni spirito si acquieta (o si agita di conseguenza, ma non quanto all'interrogazione di base, divenuta un pretesto). Se dunque "la Crusca" si trasforma in "Crusca" è per far presto e non prendere troppo spazio... Del resto, l'articolo, in quel post, a che servirebbe? Ecco appunto.
Mani avanti. Chi la pensa così ed è contento o contenta della risposta può tranquillamente smettere di leggere questo futilissimo e faticoso frustolo o, caso mai, di commentarlo. Qui, di un fatto, ci si chiede anzitutto il come e solo secondariamente, molto secondariamente si prova a immaginare il perché, in un ordine inoltre che privilegia la causa sul fine, facendone netta distinzione. E che rifugge di conseguenza dalla prestidigitazione di fare collassare la prima nel secondo. "Causa finale" l'hanno chiamata i filosofi e Voltaire, in una sua pagina divertente, l'ha messa alla berlina: "...lo stomaco per digerire... gli occhi per vedere... i bachi da seta in Cina, per avere la seta in Europa...".
Bando però a simili astruserie epistemologiche (che parolona!). Peraltro, la concisione le banalizza e se stanno funestando questa sortita, la colpa è dell'alter ego di Apollonio, con i suoi suggerimenti, e del suo terrore che Apollonio, nel suo sparuto diario, non sia chiaro e provochi equivoci: l'effetto, come si vede, è paradosso. Ma convincerlo!
Si venga dunque al sodo, sempre che a fatti di lingua tanto impalpabili si possa attribuire una qualificazione siffatta.
Il sodo è che l'Accademia della Crusca vale, da secoli, come nome proprio e, come fanno spesso i nomi propri, nei secoli ha prodotto anche un suo singolare ipocoristico, se così si vuole dire: la Crusca. Ci si intenda, qui si mira al valore correlativo, nei discorsi, più che alla forma, e inoltre ipocoristico corrisponde etimologicamente a 'vezzeggiativo'. 
Ma come capita talvolta a simili scorciamenti, l'intento, ammesso ci sia, sfuma e la Crusca e i suoi derivati (un paio hanno già fatto capolino in questo frustolo: altri se ne trovano qui) hanno preso i sensi e i valori procurati dai discorsi e dai tempi in cui sono incorsi e ricorsi. Testimone all'uopo, il Grande Dizionario della Lingua Italiana promosso da Salvatore Battaglia.
I tempi, appunto, e i discorsi: in relazione con l'articolo mancante, sono il tema specifico di questo frustolo. In effetti, da qualche decennio, la Crusca è inopinatamente venuta in una sua auge singolare. 
Non si scrive tornata, perché il suo attuale successo non è né qualitativamente né quantitativamente comparabile con quello, sempre contrastatissimo e fomentatore di polemiche, che ebbe in altri momenti della sua storia secolare: trattava roba (la lingua, e specialmente il lessico) che interessava solo una ristrettissima e permalosissima cerchia di dotti e letterati; oggi, fatta salva la caratteristica di permalosità, non è più così. Lo dice la robusta presenza dell'Accademia nelle reti sociali: su Facebook, si è quasi in cinquecentomila a prestarle attenzione. Oltre che di santi e di navigatori, l'Italia è sì paese di poeti (e di poete, oggi conviene dire), ma forse non si è ancora giunti a tale numero. Ci si sta insomma lavorando...
Si scrive invece "inopinatamente" perché nessuno, accademico o no che fosse, avrebbe potuto sognare un séguito tanto vasto, non solo ai tempi in cui era presidente dell'Accademia Bruno Migliorini (sono trascorsi solo settant'anni), ma nemmeno fino al crollo del Muro di Berlino. 
Poi, il mondo è molto cambiato, eticamente, oltre che materialmente, com'è ridondante ricordare. E, parrà strano, ma non lo è, il successivo crescente successo di un istituto culturale come l'Accademia della Crusca può essere considerato, in Italia, un effetto (nemmeno troppo mediato) di tale mutamento morale. Bisogna però che qui si metta da parte questo aspetto della faccenda, rimandandolo eventualmente a un'altra volta, per tornare, appunto futilmente, alla scomparsa dell'articolo.
Ebbene, il nome proprio di qualcuno o di qualcosa il cui bacino di interesse raggiunge la cifra cui sopra si è alluso, nella società dei consumi di massa, soprattutto in quella più modesta del cosiddetto consumo culturale, è ipso facto un marchio o, come si dice con terminologia internazionale, un brand. Qualunque cosa sia l'oggetto designato e qualsivoglia intento abbia chi ne parla (come del resto qui si sta facendo), l'Accademia della Crusca e la Crusca, come scorciamento, sono le forme con cui il marchio appunto si presenta nei discorsi del tempo presente. 
Come forme di un brand, esse entrano pertanto nelle tipiche derive. E qui, per capire una di queste derive, un esempio verrà utile, soprattutto perché tratto dal medesimo àmbito di produzione, lo si dica pure, culturale. 
Nel corrente discorso, la Mondadori del vecchio Arnoldo (M.), la Rizzoli del grande Angelo (R.), la Bompiani del raffinato Valentino (B.) non esistono più. Chiunque detenga le relative proprietà, esistono i marchi Mondadori, Rizzoli, Bompiani, tutti senza articolo, si osservi. Tornati, insomma, anche nelle forme, meri nomi propri, ovviamente senza essere più antroponimi. Exempla ficta: "In futuro, Apollonio pubblicherà con Rizzoli...", "Mondadori, quest'anno, ipoteca lo Strega...", "A Bompiani non fa difetto il coraggio...". 
La ragione è trasparente. Prima, il nome (e il relativo marchio) era riduzione (per ridondanza) di quello che si dà a un opificio: "la [casa editrice] Mondadori", "la [casa editrice] Bompiani" e così via. Luoghi, attrezzature, persone che producevano libri. Oggi l'opificio è, ben che vada, provvisoria proiezione di un'impresa finanziaria e, nei discorsi, Mondadori, Rizzoli, Bompiani e così via sono meri brands, da vendere, da comprare, da esibire, caso mai da esecrare, come tali.
Dal discorso in generale, al discorso in particolare: "Il nuovo libro di Crusca edito da Mondadori!", recita il post della gloriosa Accademia. Poverina, dalla Villa Medicea di Castello, cos'altro avrebbe potuto scrivere? Si fosse presentata ancora con l'articolo ("della Crusca"), a diretto contatto nel medesimo enunciato con il brand Mondadori, implicitamente presentato quest'ultimo come valorizzante, avrebbe fatto figura di vecchia e pezzente. 
Via l'articolo, allora: Crusca. Simile in ciò ai brands di prestigio del Made in Italy, che del resto sono spesso, in origine, autentici nomi propri: FerrariMaserati e Armani, Prada, Dolce & Gabbana, Versace... 
Ecco allora come fu che la Crusca perse il suo articolo... Fu atto di nobilitazione onomastica e di adeguamento al mondo. 
Ma puff! Che fatica, per un la. Si fa prima a sbraitare contro le parole che non piacciono: "Che orrore!", "Sanguinano le orecchie!"... Ancora solo un paio di parole, allora, sempre che i due lettori di Apollonio siano rimasti fin qui a fargli compagnia. 
Da anziano filologo, scapestrato, ma non fino al punto da negare il suo alternante attaccamento al nobile istituto e la sua permanente amicizia verso le colonne che, in tempi non facili come i presenti, lo reggono, Apollonio augura finalmente a Crusca di aprire presto e correlativamente uno show room in via della Spiga. E spera, con Crusca, che la folla dei suoi seguaci super-cruscanti, visto che di show room si tratta, non venga a rompere, oltre al resto, anche le vetrine.