17 novembre 2024

Onomastica cinematografica (2): Anora

Anora è il titolo del film più recente di Sean Baker, sceneggiatore e regista americano, ed è il nome della protagonista del film, "una giovane sex worker di Brooklyn", dice la pagina della società che distribuisce la pellicola in Italia, dove, a illustrare il tema di questo frustolo, si troverà anche un loquace trailer
L'opera (che ha dialoghi in inglese, in russo e in armeno) è stata premiata a Cannes, la scorsa primavera. È in effetti abbastanza ben fatta (forse con qualche lungaggine, nella sua prima parte, sostanzialmente preparatoria del dramma). Ma a orientare in tal senso la giuria suppone Apollonio sia stato il fatto che, in essenza e per figura, il film procura un buon ritratto del tempo presente. Dice in effetti quanto esso sia banalmente traviato e mercenario e, d'altra parte, come, per non piangerne, se ne possa e forse se ne debba ridere (con molto amara e disperata coscienza del degrado, si svela tuttavia nella scena, breve ma cruciale, della chiusura). 
Bando però alle vane geremiadi. Qui non si rende conto del film e si pone invece l'attenzione sopra un suo dettaglio onomastico. Se, come si anticipava, si può dire dettaglio il nome che porta la protagonista di un'opera d'invenzione. Sul principio della narrazione, rivolgendosi a un cliente, costei si presenta con un "Hi, I'm Ani". E, più avanti e in passaggi comico-drammatici della pellicola, con rabbia rivendica il diritto e ribadisce il suo desiderio di essere Ani, in faccia a chi, anagraficamente, la chiama Anora
Anora è in effetti una ventitreenne newyorchese. Appartiene quindi tanto alla cultura (o si dirà alla civiltà?), quanto alla generazione per le quali vige internazionalmente una norma per l'identificazione onomastica personale nel discorso quotidiano. Una moderna baritonesi. Se composti da più di due sillabe, i nomi si riducono al bisillabo iniziale e si restringe l'apertura della vocale che il troncamento rende finale. Da Anora, quindi, viene fuori Ani
Anche quando non è richiesta (e non è certo questo il caso della rappresentazione cinematografica della vita sociale di Anora), un'informale familiarità si è fatta insomma rigorosa regola di interazione. Essa rigetta l'onomastica paradigmatica e si bea della sintagmatica, morbidamente, se non morbosamente vezzeggiativa e confidenziale. Proprio mentre scrive queste righe, Apollonio registra nell'italiano di una rete sociale un Giudi per Giuditta, da lui fin qui inaudito. 
Nei termini di un'onomastica cinematografia allusiva, c'è allora da chiedersi se Ani, omofono di any, non sia un nome a suo modo parlante per "a young sex worker", come la lingua principale del film consente di scrivere, senza pronunciarsi esplicitamente quanto al genere della designazione. E si stenta a credere che l'effetto allusivo non sia stato ricercato e ponderato dallo sceneggiatore-regista, quando, battezzando come Anora la sua fantasiosa creatura, le prefigurava Ani come significativa marca onomastica nella narrazione. 
Fuori delle ipotesi sulla intentio auctoris restando ai fatti e all'intentio operis, il film presenta solo un personaggio in cui, via via che la storia procede, occhieggiano e infine si rivelano lampi di sommessa e sotterranea partecipazione per la bizzarra e finalmente deludente vicenda di Anora/Ani. È uno dei suoi vessatori, è russo e di nome fa Igor. Si tratta di un arguto paradosso onomastico, se si pensa a tutti gli Igor di cui il cinema ha dotato il genere horror, anche nelle sue varianti comiche. 
Tocca allora a tale Igor confermare come quel nome proprio proiettato come titolo dell'opera abbia una funzione sistematica nel processo narrativo del film e come il film dica allora e infine che, dalla protagonista, il suo nome intero (integro, si direbbe) vada, caso mai e se possibile, riconquistato, anche contro se stessa. 
Si è quasi alla conclusione. Seduto accanto alla sedicente Ani, Igor, meditando ad alta voce, le dice: "...mi piace Anora. È un bel nome". E la ragazza, questa volta, non protesta né rivendica. 
A differenza di Ani, Anora è in effetti proprio il suo nome proprio, il suo singolare nome di battesimo, non quel nome proprio qualsiasi che la vita le ha fatto indossare nella falsa e dolorosa letizia delle sue relazioni prezzolate.


12 novembre 2024

Spettatore pagante (7): "Parthenope" di Paolo Sorrentino

Parthenope
 è una pellicola allegorica e, nelle intenzioni, dissacrante. Il tessuto del suo enunciato narrativo è fatto dall'intreccio di questi due fili. Ne è fatta, soprattutto, la sua enunciazione, che si atteggia appunto ad allegorica e dissacrante, proprio come si atteggia a sentenziosa (sopra questo terzo carattere, tuttavia, si verrà in fondo). Da parte del regista, un modo un po' artificioso per segnalare l'opera come "film d'autore", dotandola d'altra parte di una singolare sorta di sigillo. 
A quasi tutti i personaggi di rilievo capita in effetti di accendere e di fumare una sigaretta. Enfaticamente. Il film ricorre spesso a primi e primissimi piani. La trovata procura a essi movimento e prospettiva narrativa, oltre a dare, secondo i casi, un tono meditativo, problematico o fascinoso alla figura. Sphragìs del fumatore Sorrentino o timore che gli interpreti, privi del supporto, non sarebbero stati in grado di reggere significativamente simili iterate inquadrature?
Comunque sia, sotto il segno dell'allegoria, il film invita a chiedersi a più riprese cosa ci sia "sotto 'l velame" di figure, parole e immagini, non solo quando paiono strane o quando si può supporre il gioco valga la candela, perché le risposte sono difficili o arcane. In effetti, di norma non sono tali: si tratta di figure di facile lettura. 
Sotto il segno della dissacrazione, il film vuole congiuntamente épater il prototipico bourgeois in cui, proprio in quanto tale, vive e prospera un luogo comune gigantesco e proteiforme: Napoli. Napoli preme molto a Sorrentino. Meglio: proprio in quanto cliché, Napoli preme molto sopra Sorrentino artista (forse anche sopra Sorrentino persona, ma qui non si pratica il metodo di Sainte-Beuve). 
Il cliché nel suo complesso e alcuni degli innumerevoli stereotipi correlati sono pertanto quanto Parthenope prova idealmente a demistificare con le sue trasparenti allegorie. Prova a farlo per via di paradosso.  Si serve infatti delle veneri della cinematografia: luci, colori, inquadrature... Del loro insieme, funge da sineddoche la grazia di Celeste Dalla Porta, nel ruolo della protagonista; una grazia messa in scena come mirabilmente quotidiana, un fascino al tempo stesso quieto e inquietante.
Parthenope non è così il consueto film su Napoli e un'osservazione linguistica lo dice immediatamente. Vi compaiono personaggi che, esprimendosi, si qualificano ovviamente come partenopei. Non così però Parthenope. Sulle labbra di una figura con quel nome, nata nelle acque del Golfo e cresciuta in una casa sulle sue rive non si ode una parlata napoletana. 
Che Parthenope non si esprima in dialetto è ovvio: il plot la colloca in un ambiente borghese. La sua la parola non prende però nemmeno l'inflessione che rende sempre ben riconoscibilmente partenopeo l'italiano del luogo, a prescindere dall'estrazione sociale di chi s'esprime. È questo, per esempio, il caso di Sorrentino medesimo. Appena apre bocca, nessuno lo direbbe veneziano o livornese. E c'è film cui Napoli faccia da tema (o anche solo da sfondo) in cui l'espressione locale - vero e proprio luogo comune -  non abbia una funzione caratterizzante? La presa di distanza, se si vuole, comincia da lì: un'allegoria partenopea priva, nel suo asse principale, di accento partenopeo.
A volere essere spassosamente pignoli, c'è in limine un dettaglio grafico minuscolo a fare da spia di un'intenzione artistica siffatta: l'acca al centro del nome dell'eroina eponima. Un ricercato ammicco cólto e etimologico? Forse, ma una contrapposizione alla secolare tradizione grafica nazionale che ne fa appunto a meno. 
Partenope, senza acca, è il luogo comune e, nella cinematografia nazionale, conta centinaia di evocazioni e di tematizzazioni. Esemplare quella di Carosello napoletano, film di Ettore Giannini consacrato appunto alla Napoli partenopea convenzionale. E consacrato tanto mirabilmente da essere premiato a Cannes, si pensi, giusto settanta anni fa. Era il secondo Dopoguerra. Nella stessa sede, nella scorsa primavera, l'onore non è stato invece tributato alla pellicola di Sorrentino, che tuttavia vi ambiva. 
Mutatis mutandis (come è appena il caso di dire, visto quanto sono mutati i tempi da allora), Parthenope è in effetti un nuovo carosello napoletano straniato e post-moderno. L'acca che fa in due pezzi il nome ne è un segnale. Ma, in funzione della solidità del luogo comune, finalmente senza conseguenze di rilievo: come appunto l'acca, quanto alla pronuncia del nome, resta un ammicco.
Si rischia d'essere corrivi elencando o, ancor peggio, illustrando nei particolari i cliché partenopei presi di mira dalla pellicola. Alcuni sono anche troppo espliciti. La capigliatura rosso fuoco della grande e stagionata attrice di nome Greta Cool non necessita di chiose, per esempio. E, a dirla tutta, a orecchie e occhi bigotti proclamare posticcia tale capigliatura, come finalmente la persona che la indossa e che scarica il suo ben giustificato livore sopra Napoli e i Napoletani, può suonare e apparire blasfemo ben più della plateale profanazione del sacro cui Parthenope volentieri si presta con il cardinal Tesorone. 
Chi assiste al film riconosce insomma i bersagli dell'ottica caustica di Sorrentino e, caso mai ne avesse mancato qualcuno, come ne ha certamente mancati lo spettatore pagante, non avrà perso il palese valore intenzionalmente dissacratorio dell'insieme. 
In funzione delle belle immagini (cui si è già alluso), sfugge tuttavia all'ottica caustica un grande luogo comune partenopeo, certo perché correlato con la figura di Parthenope come mitologica sirena: il mare del Golfo di Napoli. 
Cardine visivo intorno al quale ruota in effetti la narrazione, a esso il regista riserva, per immagini, un'attitudine comparabile con quella espressa dalla prima strofa di Torna a Surriento (e come si fa a non commentare in proposito con un nomen omen?): "Vide o mare quant'è bello, | spira tanto sentimento, | comme tu a chi tiene a mente, | ca scetato o faie sunnà."
Ecco appunto. Al pari del fluido gelatinoso di una celeberrima pellicola americana degli anni Cinquanta, un luogo comune, se è veramente tale, finisce tuttavia per inglobare e digerire chiunque gli si accosti e, anche se armato delle più acuminate e sottili intenzioni critiche, manifesta in realtà con l'atto (sconsiderato) il desiderio di perdervisi. 
Questo è ragionevolmente anche il caso del finalmente desiderante Sorrentino, che con Parthenope ha inteso sfidare il cliché tentacolare di Napoli. E, d'altra parte, dopo avere visto il film, si sfida chiunque a dire che, per lui, come, si può affermare, per l'universo mondo, Napoli non sia e resti appunto un luogo comune appiccicaticcio e gelatinoso. E flaccido e debordante, come si presenta infine il gigantesco e celato pargolo, "fatto di acqua e di sale", del professor Devoto Marotta, interprete Silvio Orlando. 
Davanti al domestico monstrum il padre, fuori di casa pungente e disincantato, cede anche lui a un'elegia dolciastra e instupidente e si assopisce innocuo e rassegnato. Il cliché partenopeo e i suoi corollari sono così quanto una pellicola dall'intento dissacratorio finisce paradossalmente per confermare, con le sue allegorie.
S'era alluso in apertura al tratto sentenzioso di un film che, si ricordi, non è stato solo diretto, ma anche ideato e scritto da Sorrentino. Sulle labbra dei personaggi spesseggiano in effetti le sortite apodittiche. Lo sceneggiatore si può dire sermoneggi dietro le maschere della protagonista, di Achille Lauro, di John Cheever, di Flora Malva, di Greta Cool, del cardinal Tesorone e di altri e altre. 
Conta due ricorrenze topiche però "All'università si viene [cioè: ci si reca] cacati e pisciati". Il motto perentorio del professor Marotta ricorre nella prima parte, proferito a Napoli in un aula universitaria in cui si stanno svolgendo gli esami di Antropologia. Come citazione indiretta, quando il film si avvia al termine, ricorre una seconda volta sulle labbra di un'allieva trentina di Parthenope che l'ha appreso da lei, frattanto diventata un'anziana professoressa sulla soglia della pensione. 
Anche per tale ragione il motto finirà probabilmente per fare da sigillo mnemonico della pellicola. Non potrà certamente insidiargli il ruolo quel "Dio non ama il mare" proferito ex abrupto da una voce anonima sullo scorrere dei titoli di coda: estremo commento ultra-diegetico da parte di un autore in sospetto, a quel punto, di incontinenza, perché incapace di lasciare andare chi esce dalla sala senza lanciargli un ultimo segnale, superfluamente enigmatico. 
Così Parthenope sarà forse il film di "All'università, si viene cacati e pisciati". Più di un frutto dell'invenzione di Sorrentino, l'icastica sentenza pare tratta dal deposito immateriale dei memorabilia della vita universitaria anteriore al Sessantotto, ormai da gran tempo leggendaria. 
Così fosse, si osservi, non sarebbe la prima volta per un film di un regista napoletano. Or sono più di trenta anni, pescata probabilmente dalla medesima fonte, "Non si avvicini, non mi contamini con la sua ignoranza" ebbe lo stesso ruolo in Morte di un matematico napoletano di Mario Martone.

 
Né Martone, del 1959, né Sorrentino, del 1970, hanno ovviamente avuto esperienza diretta di quel mondo perduto. L'ambiente accademico partenopeo pare dunque custodisca e tramandi ancora memorie di detti celebri e ormai, ovviamente, socialmente e antropologicamente improponibili. La condizione raccomandata da Sorrentino, per interposto Marotta, non vige più da gran tempo tra i discenti né, a dire il vero, tra i docenti. E, per la persistente pandemia, il cave riesumato da Martone non avrebbe più ragione d'essere proferito. Ma nella scelta differente, pare a chi scrive si colga il quid delle attitudini umane, finalmente opposte, dei due registi. E soltanto quella di Sorrentino, con la sua ironia, ispira simpatia.  
     



8 novembre 2024

A frusto a frusto (139)

In ultima e stringente analisi, l'ignobile domanda "A che serve?" è ciò che soggiace all'incessante ricerca umana di un'arma letale: dalla clava all'ordigno dell'Apocalisse. Cioè allo strumento infine atto a compiere un destino e a procurare a quella domanda la risposta esauriente e definitiva: l'autodistruzione della specie dal comportamento guidato dall'ignobile domanda "A che serve?".

4 novembre 2024

Spettatore pagante (6): "Megalopolis" di Francis Ford Coppola

Mettere un'opera del proprio ingegno e del proprio impegno sotto un titolo è darle un nome. Ed è già, di norma, atto espressivo e comunicativo di importanza capitale. 
Il battesimo ha un valore ancor più straordinario se, giungendo in veneranda età dell'artista, l'opera è quella intorno alla quale si afferma di avere meditato per decenni; di cui si sostiene di avere sognato lungo tutta la propria luminosa carriera professionale; per la realizzazione della quale si è persino provveduto a liquidare parte del proprio patrimonio personale. È appunto il caso di Megalopolis di Francis Ford Coppola. Troppo, c'è immediatamente da sospettare.
Troppo, senza dubbio. E quel nome, parlante, già dice di un eccesso. Lo dice con il suo primo elemento, per semplice analogia lessicale: è il medesimo di megalomania. Ma dice di un eccesso ancora più grande, megalomane appunto, con il riferimento analogico cui, quanto alla storia del cinema, il suo secondo elemento indirizza senza equivoco: Metropolis di Fritz Lang, film del quale fra tre anni ricorrerà il centenario. 
D'altra parte, che Francis Ford Coppola, con Megalopolis, abbia dato sfogo a una sua vena espressionista è chiaro sin dalle prime inquadrature della pellicola. E il suo principale riferimento diventa lampante quando, andando avanti, si vede lo sviluppo narrativo scandito da didascalie sentenziose ed esplicative, come furono quelle che fungevano da intertitoli nel cinema muto.
Quando Lang prima concepiva, quindi dirigeva il suo film leggendario era tuttavia quasi quarantenne ed era partecipe del fervore (letteralmente) esplosivo e corrusco dei primi decenni dell'Europa del Secolo breve. Il Coppola di Megalopolis è invece un ultra-ottantenne immerso nel gelido e cupo stagno globale in cui si versano i liquami della putrefazione della modernità, quando è trascorso il primo quarto del ventunesimo secolo. 
E non si dica che, nei diversi contesti culturali, ma anche brutalmente sociali e concretamente antropologici, il dato biografico sia privo di correlati, da un lato, compositivi, dall'altro e quanto alla valutazione, critici. 
Tanto fu viva e tesa l'espressione espressionista e conclusivamente inquietante di un giovanilmente maturo europeo degli anni Venti del secolo scorso, quanto vizza, aggranchita e, in chiusura, stucchevolmente consolatoria è quella di un vecchio americano degli anni Venti di questo secolo. 
Al posto di inventare, in effetti, Coppola cita e ricicla all'ingrosso: Shakespeare e Federico Fellini, William Wyler e Marco Aurelio, Gaio Sallustio Crispo e Ridley Scott, H.G. Wells e se stesso. 
Il risultato è un guazzabuglio. Lo spettatore pagante, con la sua modesta cultura generale e in particolare cinematografica, non ha certo potuto riconoscerne tutti gli ingredienti. Ha tuttavia colto il disordine di un composto non amalgamato, l'accozzamento privo di ratio e di grazia, la sciatteria paradossale per lo spreco dei mezzi tecnici (tuttavia, a guardare con attenzione, meno grandioso di quanto si sia favoleggiato).
Megalopolis è insomma un film grottesco, un'americanata, un fantapeplum che muove sovente al riso, già a partire dal frullato onomastico di cui si fregiano i suoi improbabili personaggi: Cesar ['sisa'] Catilina (inventore di una nuova materia, chiamata anch'essa non a caso megalon), Franklyn e Julia Cicero, Hamilton Crasso III, Clodio Pulcher, Wow Platinum. E, ciliegina sulla torta, per la bimbetta che in epilogo continua a muoversi anche quando i suoi summenzionati genitori hanno romanticamente fermato il tempo, Sunny Hope Catilina. 
C'è d'altra parte ancora una differenza fondamentale tra Metropolis e Megalopolis. Il primo, del 1927, è un film muto. Il secondo, purtroppo, no. Non c'è in esso una sola parola che non spinga in effetti a rimpiangere, nel confronto, una sortita cinematograficamente memorabile: "I love the smell of napalm in the morning". 
Allo spettatore pagante essa ricorda che Francis Ford Coppola, quarantenne quando il Secolo breve si avviava alla fine, fu capace di aggiungere alla storia del cinema un capolavoro tardo-espressionista. E l'ammonisce: la vecchiaia è un grande guaio. Gigantesco, quando perde il controllo di sé.

1 novembre 2024

Lingua loro (49): "Potente" e "potenza"

"...è un romanzo grande e potente": con questo lapidario viatico attribuito ad Antonio D'Orrico si apriva ora è un lustro una pagina di réclame di Il Colibrì di Sandro Veronesi. Qui non è questione di quell'opera, ma di potente e di potenza. Sono parole che oggi spesseggiano nel discorso critico o, forse meglio, nella chiacchiera sopra temi letterari o cinematografici.
Apollonio vanta (o sconta) un'esposizione a quella chiacchiera (e, se si vuole, a quel discorso) che supera ormai il mezzo secolo. Saltuario ascoltatore e distratto lettore, ci si intenda. Non pretende quindi che le sue siano asserzioni dottrinali. Osservazioni non solo impressionistiche però, sì, fosse anche soltanto per la sottesa durata. E l'ipotesi che si affaccia, senza ovviamente che se ne proponga un'interpretazione da correlazione causale, è che potente e potenza abbiano cominciato a dilagare nei contesti menzionati più o meno dagli anni in cui è stato commercializzato in Italia il prodotto farmaceutico rappresentato dall'immagine che correda questo frustolo. Insomma, Zeitgeist, si dice dottamente. Più alla buona, aria che tira e che ringalluzzisce non solo lo spirito (pneumatico di suo, pronto quindi a gonfiarsi), ma anche il corpo.  
Non sono ovviamente neologismi, potenzapotente. Ma Apollonio ha la netta percezione che sia in effetti relativamente nuova l'estensione della loro portata, accesamente figurata, alla sfera delle arti menzionate. E che soprattutto sia nuova la loro ascesa, in quelle chiacchiere, al rango di tormentone. Per una prima esperienza e un primo esercizio in corpore vili, ecco un'accidentale e non esauriente raccolta delle ricorrenze di potente e di potenza nelle pagine con cui La bella confusione, libro recente e molto fortunato di Francesco Piccolo, si proietta verso la sua (potente?) conclusione:   

Ho cominciato a leggere Yoga [...] piano piano nella mia testa si è formata chiara l'idea che [...] stava riuscendo a spiegarmi qual è la caratteristica più potente di Otto e mezzo: la vitalità (200).

Questa volontà di stare bene è molto potente quando si vede Otto e mezzo, è molto potente quando si legge Yoga. E per quanto mi riguarda è molto potente anche dentro di me (202-3).

Bisogna dire, a questo punto, che Il Gattopardo e Otto e mezzo, insieme, rappresentano ancora altro, al di là di sé stessi. La potenza di questo momento, il fatto che due autori così importanti abbiano fatto due film così grandiosi contemporaneamente [...] e che quando sono usciti abbiano avuto un effetto devastante, potente [...] ecco, bisogna dire che questi due film rappresentano non so se il punto di alto, ma di sicuro il punto di arrivo di venti anni di grande potenza del cinema italiano nel mondo (211).

Questa potenza e questa specie di ultima esplosione, si manifesta soprattuto nei riconoscimenti ottenuti nei vari festival internazionali (211).

In Otto e mezzo c'è la fine della giovinezza (o la paura della fine della potenza) per un individuo e soprattutto per un artista (213).

Ma quella potenza produttiva non si vedrà più (213).

e in contrasto vede non solo la bellezza, ma la potenza ormai irresistibile di Angelica, e tutta questa potenza sta per culminare proprio di fronte a lui (244).

Ed ecco che l'autobiografismo di Visconti diventa potente oltre ogni sua volontà (245).

Quindi il contrasto tra la giovinezza potente, voluttuosa, e il vecchio che muore (245).

Angelica è assolutamente potente e desiderabile. Come dice Tomasi del quadro, al centro c'è la fine di don Fabrizio, ma in realtà il quadro è stato fatto per la potenza di Angelica (246).

sente il desiderio potentissimo che arriva dal profumo di questa ragazza e anche dalla potenza di questa ragazza (247).

Mentre il finale che vediamo noi [...] è una potente accettazione della vita (251).

si sentono parte di uno stesso mondo che è quel mondo che ha avuto quella potenza assoluta e che adesso, casomai, è meno potente e più in difficoltà (255).

Deriva paradossale, ma forse non sorprendente, del Wille zur Macht nella temperie della modernità putrefatta? O, da parte delle più vive coscienze di tale temperie, non troppo implicita ammissione, rivelata dall'uso evocativo, maniacale e ossessivo del positivo, di trovarsi invece nello stato definito dalle negazioni di potente e di potenza? Apollonio non sa. Giudichi chi legge.

30 ottobre 2024

Lingua nostra (14): "Ultimo" (e, sullo sfondo, come "Lingua loro", "estremo")

Ultimo
 alberga, lo si sa, un'anima da superlativo. Come l'albergherebbe estremo. L'anima superlativa di estremo si è però fatta fantasmatica, nella coscienza di un gran numero di parlanti e di scriventi. 
Sulle labbra o sotto le penne di costoro capita di cogliere, si ponga, un "più estremo". Per esempio, in una sorta di "coccodrillo", presente nell'archivio di una gazzetta qualsiasi e caduto per tale ragione nella rete di un'estemporanea interrogazione di Apollonio, si legge: "Famosi i suoi j'accuse. E l'ultimo, e forse il più estremo, è della fine di settembre". 
A chi correlativamente storce il muso, il giornalista potrebbe sempre opporre una ricorrenza comparabile nei Promessi sposi: "Finalmente, altri casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi tra loro, secondo la scala del mondo". 
All'ombra del fallo (eventuale) di una tale autorità, falli al séguito, com'è appena il caso di dire, smettono di apparire tali. E nessuno, ancor meno Apollonio, si scandalizzerà di conseguenza della loro circolazione "a bischero sciolto".
L'anima superlativa di ultimo è al contrario ancora ben viva e, dal culmine che occupa (superlativa, appunto), oppone fiera resistenza a chi volesse gettare ultimo giù dalle scale, come si è fatto con estremo, oggi ridotto a qualificare un più o un meno e non più un'acme. 
In effetti, anche a chi propala più estremo, suppone Apollonio (speranzoso), più ultimo suonerà ancora stridente, al limite della sopportazione. Mai dire mai, tuttavia, nelle vicende linguistiche, né qualificarle come estreme. Alle orecchie di un Cicerone, fantasiosamente di nuovo mondane, espressioni che passano (e non da tempo) come banali parrebbero testimonianze inoppugnabili di un'estrema perdita della ragione. 
Ma tout passe, tout casse, tout lasse e, miracolosamente, la lingua resta sempre la lingua. Malgrado a parlarla siano gli esseri umani, ci sarebbe da dire, e non per celia. Ci provano di continuo, gli esseri umani, a ridurre alla loro misura, infima, tutto ciò che hanno ricevuto in prestito momentaneo (la vita, la lingua...). Ma, costretti come sono nei loro limiti, non ne hanno evidentemente la facoltà. 
Giunti come si è a riflettere sopra ciò che è momentaneo (quindi, umano), una nota ulteriore sopra ultimo capita allora a fagiolo. "La luna e i falò è l'ultimo romanzo di Cesare Pavese": ineccepibile. E ineccepibilmente, nella nota bio-bibliografica che avrebbe dovuto corredare uno scrittarello del suo alter ego, Apollonio vede comparire un "Fare nomi è il suo ultimo libro". 
Con i suoi usi ineccepibili, ultimo fa appunto simili scherzi e tutte le volte che lo si intende o lo si legge applicato a quanto ha fatto un essere umano, se non lo si sa per altre vie, bisogna che ci si chieda se è ultimo per sempre o ultimo, al Cielo piacendo, solo momentaneamente. Se è un ultimo perfetto o un ultimo che si immagina ancora imperfetto, quindi in attesa di (eventuale) falsificazione e di farsi penultimo, terzultimo... 
Insomma e per concludere con l'aneddoto, dopo essersi concesso pratiche apotropaiche delle quali non sarebbe elegante procurare né qui né altrove una descrizione, con calda approvazione di Apollonio, l'alter ego ha proposto per quella bisogna (e, spera, non come ultima o estrema volontà) una formula meno impegnativa, ma non per tale ragione meno veritiera: "Fare nomi è il suo libro più recente". Cambia poco ma, quando niente, un'espressione neutra. Forse un po' più bene augurante. In attesa che, riferito se possibile ad altro, il più recente diventi un giorno ineluttabilmente l'ultimo o l'estremo senza più.

26 ottobre 2024

Spettatore pagante (5): "Iddu - L'ultimo padrino" di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Il cast di un film è un segnale (commerciale) - è appena il caso di ricordarlo. Come funzionerebbe altrimenti, anche nel piccolo, lo show biz
Fra le altre cose e al pari di altri aspetti (o forse meglio), esso dice come l'opera si indirizzerà e apparirà al pubblico e alla critica, perlomeno nelle intenzioni di chi l'ha ideata e si propone di dirigerla, ma soprattutto in quelle di chi la produce e cerca interpreti che riscaldino il botteghino.
Al riguardo, Iddu - L'ultimo padrino è esemplare (iddu vale 'lui', in siciliano, con pronuncia retroflessa della doppia dentale sonora). Ne sono registi e sceneggiatori i due volenterosi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, certo non notissimi né presenti al pubblico come autori di pellicole memorabili. Ma, nel loro film, ruoli del massimo rilievo sono coperti da Toni Servillo, Daniela Marra, Barbora Bobuľová, Fausto Russo Alesi e, come idduElio Germano. Di quest'ultimo, romano, va subito lodata la cura nella dizione: non il solito siciliano cinematografico e televisivo, ma, con tocco realistico, una parlata accettabilmente prossima ai modi che siciliano e italiano regionale prendono nell'estremo lembo sud-occidentale dell'isola
Nell'insieme, si tratta di attrici e di attori cui, da qualche anno, il cinema italiano che si vuole d'autore fa appello di norma, se non proprio a rigore. Variamente suddivisi e suddivise, hanno in effetti recitato in film di Bellocchio, Moretti, Sorrentino, Garrone, Martone, Salvatores, Guadagnino, per fare qualche nome di spicco. Non solo nei film di costoro, ovviamente, ma si può dire che, per qualche regista (laureato), c'è in quell'elenco chi rappresenta l'interprete per eccellenza.
Con un cast del genere, Iddu è uscito indubbiamente nelle sale come un film d'autore. Anzi d'autori, visto che, come si è detto, di sceneggiatori e registi, ne ha due. Alla qualificazione contribuisce poi il soggetto, liberamente ispirato a o, per dire meglio, allusivo di una figura e di una vicenda di appena perenta attualità. Ne sono state piene in effetti le cronache giornalistiche. 
Il personaggio che tanto nel titolo, quanto qui e là nella sceneggiatura, viene designato per estrema antonomasia con iddu (oltre che, meno enfaticamente, con Matteo) si ispirerebbe infatti a quel Matteo Messina Denaro, cioè a un siciliano della provincia più occidentale dell'isola, che da una pluridecennale latitanza, vissuta quasi a casa propria, ha regolato e mandato gli affari criminali di un'impresa collettiva che, nel film, se non ci si sbaglia, non viene mai designata con un nome, per motivo di ovvia ridondanza. È in effetti di gran lunga la maggiore, tra le radicate in Sicilia, e la più nota. 
Un protagonista e un tema siffatto, per conseguenza, farebbero di Iddu anche, se non soprattutto un film di impegno civile e come tale è stato di norma presentato da chi ne ha scritto. Ma non ci si figuri perciò che si abbia in proposito a che fare con qualcosa che lontanamente somigli, per fare un esempio, a un classico del genere, come Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Nemmeno mutatis mutandis, come imporrebbero in ogni caso i più di sessanta anni trascorsi tra una pellicola e l'altra.
Tanto realista, socialmente impegnata nella denuncia, dirompente e, a suo modo, narrativamente romanzesca fu la pellicola di Rosi, quanto lirica, intimista e intrisa di sensiblerie è Iddu. Personaggio e vicenda di cronaca fanno infatti al film da mero e lontano pretesto. Anche perché lo sviluppo narrativo, lo si volesse proiettare in qualche realtà (la siciliana inclusa), sarebbe inverosimile e fiabesco. Tetramente fiabesco, ci si intenda. 
Ma i personaggi hanno caratterizzazioni stereotipe, come appunto si conviene a una fiaba cupa. E il film ha il suo nocciolo, crudo e malvagio, nel Padre, un archetipo negativo, ad affrancarsi dal quale, ancora oggi, non si riesce. 
La narrazione prende appunto le mosse dalla presenza di una sorta di orco sanguinario (con rituale sacrificio di un agnello) e ne decreta immediatamente un'assenza che ha i tratti di un'incombenza morale, lacerante e non sanata. 
L'archetipo ha anche il suo oggetto di valore o, forse meglio, il suo totem: un pupu (così nel film ci si riferisce a un bronzo antico allusivo del celebre Efebo di Selinunte). Continuare a possederlo o perderne il possesso non sono circostanze neutre, ovviamente. 
Tra i personaggi, sempre, anche se variamente collegati al nocciolo archetipico, non mancano lo sciocco, la strega e un intrepido cavaliere che, per assecondare l'odierna tendenza culturale, è nel caso specifico di genere femminile: anch'esso o, in modo più pregnante, anch'essa ha una sorta di ambiguo padre dal quale, fino in fondo, non riesce a liberarsi. 
Un tragicomico pulecenella funge da attante mobile. È l'elemento cui plot e intreccio affidano per intero la messa in moto e l'avanzare del racconto. Il personaggio, un campano in Sicilia, è disegnato sull'interprete e l'interprete, consapevole del compito da mattatore e con generosa prova di attore, finisce per gigioneggiare (come gli capita ormai spesso e stucchevolmente). Il personaggio si fa di conseguenza caricaturale. 
Anche per questa ragione il film non decolla, come si dice ormai con metafora aeronauticaAppesantita dalla pretesa di essere in ogni caso una buona mimesi della realtà, l'inverosimiglianza non vi diventa fantasia. Nei dialoghi, le non rare citazioni cólte moraleggiano, più che dare un tono morale. Soprattutto, la pellicola resta asfittica, quanto alla narrazione. 
Qualcuno ha scritto (e forse i registi medesimi hanno dichiarato) che, a proposito di mafia e mafiosi, un mondo asfittico e spento è proprio quanto il film si è proposto, per la prima volta, di mettere meritevolmente sul grande schermo. 
Se è così, ci si può solo rammaricare di un avvenuto contagio. Come non dovrebbe appunto accadere nel prodotto di un'arte, da ciò che si è inteso rappresentare, il tratto asfittico si è trasferito ai modi e alle forme dell'opera. E il risultato è che, attirato in sala dal tema e dal cast, lo spettatore pagante ben presto comincia a sbadigliare, perché si annoia.   

18 ottobre 2024

Lingua loro (48): "Incassare"

Il buono e vecchio ottenere non gode di buona stampa, ormai da tempo. Chi traccia la direzione della lingua e determina il suo futuro lo trova moscio, evidentemente. 
Solo per fare un esempio fantasioso: se il Ministro dell'Economia sottoponesse al Parlamento la proposta di nuova introduzione dell'imposta comunale sui cani (abolita, pare, nel 1974, con esiti testimoniati dal decoro urbano di tutte le città italiane) e, appunto sempre più fantasiosamente, il Parlamento approvasse, il giorno dopo dalle gazzette scritte e orali non si avrebbe come resoconto "Il Ministro Pinco Pallino ottiene l'approvazione della norma bla bla...". Si leggerebbe e si udrebbe invece "...incassa l'approvazione...".
I due lettori di Apollonio sono increduli? I risultati della semplice ricerca in rete delle sequenze "incassa... ha incassato... incassare l'approvazione" faranno sì che Apollonio "incassi" il loro consenso.
Non va diversamente infatti con "il consenso", "l'appoggio", "il sostegno", "il plauso" e, esemplare, "l'endorsement". E fin qui, si può pensare, niente di strano. E niente di strano, una volta assuefatti, se "incassa un pareggio" o "una vittoria" una squadra di calcio, se "incassa un 28" il candidato a un esame universitario, se "incassa il Leone d'oro" una pellicola cinematografica e così via. 
Come prova che la catacresi (un momento di pazienza: a breve ci si torna) è tuttavia in avanzato stato di consolidamento e che, non solo ottenere, ma anche ricevere e addirittura subire rischiano di venirne travolti, adesso "si incassa la contestazione", "la bocciatura", "la disapprovazione", "il rifiuto" di qualcuno. Di conseguenza, uno sportivo "incassa una (sonora) sconfitta", un progetto "incassa un rinvio" o "uno stop" e, sul mercato, l'auto elettrica "incassa un (catastrofico) flop" . 
E siccome la lingua è il quid d'ogni perversione, anche se la locuzione è formalmente identica, ciò che si vuole dire con (esempio autentico) "Meloni incassa la bocciatura politica del salario minimo..." è ben diverso da ciò che si vuole dire con (esempio autentico) "Shell incassa la bocciatura di Credit Suisse". Nel primo caso,  "Meloni [felice] ottiene...", nel secondo "Shell [tutt'altro che felice] riceve...". Oggi incassare è vox media, verrebbe fatto di dire. Si "incassa" di tutto.
Illustrare il tropo ideale che soggiace a questi "abusi" (valeva questo catacresi quando - e fu catacresi - sorse come termine retorico e grammaticale) rischia di essere ridondante: la cassa che procura la base lessicale del derivato incassare non è ovviamente quella da morto. Ed è questa ancora una prova che, come nel caso accademico (modesto e locale) di crediti formativi e di molto, molto altro, ad animare e ispirare una lingua siffatta come lingua di questo tempo è uno spirito di micragna bottegaia.

11 ottobre 2024

Per il centoventottesimo anniversario di Roman Jakobson

Ciò che Roman Jakobson professò nella sua maturità di studioso incoraggia a formulare un'ipotesi: per un essere umano, venire al mondo è la messa in opera di un'intenzione vitale (cioè espressiva) e comunicativa. La sua prima intenzione con una manifestazione. Nel caso di Jakobson medesimo, la manifestazione di tale intenzione avvenne a Mosca nel 1896. 
Né il luogo né il tempo furono ovviamente esiti di una scelta personale. Nessuno può fare come gli aggrada al riguardo e si è obbligati a prendere ciò che capita. Affacciandosi alla vita, che è come gettarsi nel flusso di una catena sintagmatica, si accetta (senza possibilità di rifiuto) una sorta di collasso della paradigmatica. Come se il tutto si verificasse sotto il segno della funzione poetica, senza che dell'ipotetico poeta resti altra traccia. In qual genere poi si inscriverà il componimento, come vi si mescoleranno il comico, l'elegiaco, il tragico e (favorevole un'epoca) perfino l'epico, si saprà irrimediabilmente strada facendo, caso mai, e, a dire il vero, solo a cose fatte per intero. 
Ma da Jakobson ebbero precocissima e piena adesione spirituale il luogo di quella sua prima intenzione realizzata e, in coordinazione con il tempo, ciò che al luogo si correlava culturalmente. E se le vicende della sua vita lo fecero esule più di una volta e titolare, negli anni, di cittadinanze diverse, egli curò infine che rimanesse testimonianza di quella adesione originaria, con un messaggio dal valore emotivo e referenziale al tempo stesso.
Nel 1896, il codice vigente a Mosca denominava 29 settembre il giorno in cui Jakobson nacque. Il codice vigente a Berlino, a Parigi, a Londra, a Roma lo denominava invece 11 ottobre. Effetto del noto divario tra calendario giuliano (allora in uso in Russia) e calendario gregoriano. E buona illustrazione della convenzionalità del tempo cronico. Così l'avrebbe qualificato anni dopo, con apparente pleonasmo, Émile Benveniste, per differenziarlo dal tempo che qualificò come fisico e da quello che qualificò come linguistico. 
Fare emergere e cogliere ordinate differenze nell'espressione umana fu, come si sa, fisima di molti linguisti del Novecento, convinti che proprio nella differenza si dovesse cercare la specificità di quella dote che, inquadrata con i mezzi di qualsiasi scientismo naturalista, non può che parere più che  bizzarra, quando è invece tanto ordinaria da farsi quasi sempre fucina di piatte stupidità fàtiche. 
Jakobson contribuì decisivamente all'impresa della determinazione delle differenze. Si può dire che ne fu il campione. Un indirizzo in tal senso gli era d'altra parte venuto dal magistero del connazionale Nikolaj Trubeckoj, che, ammesso l'avesse potuto e voluto, non ebbe il tempo di riparare nel Nuovo Mondo, come Jakobson fece avventurosamente, quando nel cuore del Vecchio erano evidenti i segni che si era già andati verso il peggio.
Un indice dei nomi presenti in questo diario, se mai lo si compilasse, direbbe che Jakobson, Roman è forse il nome con il maggior numero di ricorrenze (e non sempre per manifestare un consenso da parte di chi lo menziona). Gli fa certamente concorrenza Saussure, Ferdinand de, il cui titolare nacque addirittura nel 1857. Insomma, gente del tempo che fu. 
C'è criterio più chiaro e inequivocabile per sancire l'inattualità di Apollonio e di quanto propone qui, quando si è da un pezzo nel Ventunesimo secolo?
In una conversazione privata di qualche tempo fa e con riferimento ai nominati, da un buon sodale venne ad Apollonio e al suo alter ego il commento: "Torneranno...". L'intenzione era amichevolmente consolatoria. E a suo modo liquidatrice, come sono quasi sempre le consolazioni. 
Con il suo alter ego, Apollonio apprezzò l'intento ma sorrise intimamente del suo metodo e del suo merito. Per lui Jakobson non se n'è mai andato. E con lui, mantengono la loro viva presenza altri i cui nomi non sempre compaiono in questo diario o che non vi compaiono con la stessa frequenza, ma che vi operano attivamente. Non è del resto svanito il gran tema umano che aveva appassionato tutti costoro, in modi e da punti di vista diversi.
Caso mai, ad andare e venire (quindi a tornare, con diversa valorizzazione della marcatezza non tanto dello spazio, quanto della persona: di nuovo, fisime da linguisti) è stata, è e sarà la corte degli orecchianti. Essa regola infatti i propri usi e soprattutto i propri abusi in conformità con gli andazzi.
Ma ci sia o non ci sia folla intorno, in permanente compagnia di Jakobson sta un piccolo novero di persone felici. Apollonio ne fa parte. Come può, naturalmente, e con i suoi limiti, come testimonia la sommessa celebrazione qui officiata.

Nel séguito, un po' a casaccio e senza pretesa di completezza, pagine di questo diario in cui Roman Jakobson fa da (co)protagonista:







[Dall'alter ego giunge ad Apollonio il rimprovero di non avere menzionato qui anche il frutto di un suo modesto impegno. Se ne trova in effetti testimonianza nella colonna che affianca i frustoli, ma forse ha ragione e gli si accorda una ridondanza.]





7 ottobre 2024

Luchino Visconti, araldo di "quella che è..."

In italiano, da qualche tempo, il sistema della determinazione nominale si sta evolvendo. Ancora poche settimane or sono, questo diario lo ha nuovamente documentato: "la Stampa ricorda anche quelle che sono le tre vittime nel Canton Ticino", per esempio. Ma hanno già più di tre lustri acute osservazioni in proposito di Stefano Bartezzaghi. 
Da esse, qualche anno dopo, l'alter ego di Apollonio prese in effetti spunto per un contributo specialistico che provò a collocare il fenomeno recente, in apparenza solo peregrino e frutto di un momentaneo andazzo, in una deriva diacronica plurisecolare: l'affiorare dell'articolo romanzo, come forma della determinazione nominale, a partire da un sistema, il latino, che, senza alcun danno, ne faceva bellamente a meno. Non per celia vi si affermava che nella deriva si vedesse già allora e di nuovo all'opera una "prevalenza del cretino".
Si individuava così, ancora grossolanamente, un vettore del mutamento linguistico dal rilievo pancronico di norma trascurato o, meglio, non (ancora) riconosciuto nella sua forza. Proprio come lo è "le rôle de la betîse dans l'Histoire", secondo Raymond Aron. A tempestiva conferma dell'ipotesi, venne il successivo reperimento di un dato e l'alter ego di Apollonio lo offrì a una considerazione più vasta della specialistica in un intervento divulgativo sul tema. 
Eccolo qui ripreso (il corsivo è aggiunto per segnalare ciò che è pertinente): "Un gruppo di studiosi fascisti docenti nelle Università italiane sotto l'egida del Ministero della Cultura Popolare ha fissato nei seguenti termini quella che è la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza" si legge in effetti, come esordio, nel primo fascicolo (agostano) della prima annata (1938) della rivista La difesa della razza. Non serve altro, qui si opina.
Il dato mostra altresì freddamente come lo sviluppo in questione non sia cominciato proprio ieri. Se è stato segnalato nella letteratura linguistica negli ultimi decenni, è solo perché esso è frattanto divenuto un fenomeno macroscopico. Oggi è visibile a chiunque presta un'anche modesta attenzione alle condizioni del mare dell'espressione e della comunicazione in cui si trova immerso. In una pausa delle stesura di questo frustolo, per esempio, Apollonio si è fatto spettatore di un notiziario teletrasmesso e, senza intenzione particolare di ricerca, ha udito dalla viva voce di intervistati e intervistate parecchie ricorrenze della perifrasi. 
Per dirla in altro modo figurato: la frana è ormai inarrestabile, a parere di Apollonio, ma i sassolini che la segnalavano come prossima avevano cominciato a rotolare per la china già molto tempo fa. Ed è oggi appunto chiaro (facile senno del poi) che si trattava di sassolini molto significativi, in funzione del criterio pancronico cui si è fatto riferimento. Una lettura stravagante procura adesso un'ulteriore stagionata e pregnante testimonianza ad Apollonio, che è felice di condividerla con i suoi due lettori. 
Erano stavolta i primi anni Sessanta del secolo scorso: un'epoca di "intellettuali". Diversamente da oggi, letteratura e cinema, anche per le loro implicazioni politiche e di vita civile, agitavano gli interessi del pubblico di quotidiani e rotocalchi. 
Nel loro Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra" (edizione più recente, Feltrinelli, Milano 2023), Alberto Anile e M. Gabriella Giannice riferiscono appunto di numerose interviste concesse alla stampa da Luchino Visconti nel corso della lunga gestazione del suo film ispirato al romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 
In una di esse, secondo la citazione di Anile e Giannice, il regista si sarebbe espresso così (anche qui il corsivo è aggiunto): "Non conosco ancora l'esatto binario su cui correrà il mio Gattopardo [...]. Il nome mi affascina di per se stesso, come un aroma forte di odori e di sensazioni. Comunque, mi lascerò guidar da quella che è l'improvvisazione del momento, ma quello che ho in mente di trattare a fondo è la non accettazione dell'immobilismo storico del Lampedusa".
La filologia impone cautela. Il testo che ora si legge è frutto di due mediazioni: anzitutto, quella di chi trascrisse a suo tempo l'intervista; oggi, quella di chi ne riporta la trascrizione. Potrebbe quindi albergare interpolazioni. 
Non stupirebbe tuttavia che Visconti fosse allora all'avanguardia e dettasse la tendenza anche quanto agli usi linguistici: il "conte rosso", così era detto il nobiluomo a quei tempi e con ragione. Di quel colore politico e all'avanguardia, tra cultura, spettacolo e vita pubblica, lo era in tutto, da qualche decennio e in particolare in quei frangenti. 
E a proposito della direzione della sua deriva e di ciò che ne sarebbe seguito, fulminante sarebbe stata di lì a poco l'amara opinione di Ennio Flaiano (riferita da Francesco Piccolo, nel suo La bella confusione, Einaudi, Torino 2023): "Fellini non mi interessa più perché va verso la sartoria. Visconti perché va verso l'arredamento". 
Si dirà di nuovo figurata tale definizione, ma essa è precisa e appropriata anche quanto alla perifrasi "quella che è...". Dietro l'apparenza di raffinatezza, già allora manifestazione (preparatoria ed efficace) di manieristico cattivo gusto nell'arredamento del discorso. 


4 ottobre 2024

"Linguaggio", "significato", "noi" nella letteratura (divulgativa) delle Scienze: un esempio

Apollonio legge di tanto in tanto libri (divulgativi) come quello di cui qui si dà la copertina. Lo induce o, meglio, lo costringe a farlo il suo alter ego, con il pretesto che sarebbero letture necessarie al suo lavoro. Forse fu modicamente vero un dì. Adesso anche l'alter ego bighellona curioso tra le carte altrui, come farebbe intorno ai recinti dei cantieri stradali. Di che lavoro si tratterebbe mai? Ma si lasci all'anziano l'illusione d'essere ancora attivo. 
In effetti, dalla varia prospettiva delle Scienze (il maiuscolo vale a dire "le vere"), si tratta di libri pieni di riferimenti alla facoltà espressiva e comunicativa degli esseri umani. Questa vi è designata con regolarità come "linguaggio". 
Va detto che si tratta di una scelta (insegnava Roman Jakobson: c'è qualcosa nella lingua che non lo sia?). Forse chi la compie non ne è consapevole e ritiene che, fuor di linguaggio, non potrebbe dire altro: faccenda non da poco. Ma non è questo tuttavia il tema del frustolo, che vale invece da confessione di una défaillance.
"Linguaggio" o come diavolo lo si voglia chiamare, Apollonio si vanta di un interesse e di una curiosità in proposito ormai più che cinquantennali. Ma è probabile sia solo vacua vanteria, da parte sua. Riconosce infatti molto poco dell'oggetto del suo interesse e della sua curiosità nelle menzioni del "linguaggio" e nei riferimenti al "linguaggio" che fanno libri come l'esposto. Né l'aiuta in proposito una sortita come "Se guardiamo al linguaggio come uno strumento, un utensile cognitivo..." che trova nel libro preso da campione accidentale.  
Sarà perché, come ostacolo, in Apollonio risuona ancora l'opinione di un vecchio arnese. Émile Benveniste, inveterato uomo di lettere, richiesto di un parere da una prestigiosa rivista di psicologia, sentenziò, or sono quasi settanta anni: "...il paragone del linguaggio con un strumento [...] deve riempirci di diffidenza, come ogni affermazione semplicistica nei confronti del linguaggio". Ciarpame da Secolo breve
Non va meglio poi con significato. Sempre nello stesso libro si legge "Noi esseri umani siamo quello che siamo in quanto tendiamo costantemente alla ricerca di significato". Apollonio non solo non capisce cosa qui significhi significato, ma non ha nemmeno chiaro se, nel caso specifico e anche altrove, visto che il libro, di significato, fa scialo, significato valga come termine o come parola. 
La distinzione è sempre utile nel discorso ed è capitale (o dovrebbe esserlo) in quello scientifico. Se ne è paradossalmente debitori, si pensi, a un sopraffino cultore della vaghezza: Giacomo Leopardi. Ma essere vaghi come si deve, nella lingua o, se si preferisce, nel "linguaggio", non è in effetti faccenda da poco e necessita di una gran precisione.
Di conseguenza, Apollonio precipita in un'ebete stupefazione quando, proseguendo, legge sotto le medesime penne: "Considerando allora la scena del film di Kubrik [2001: A Space Odyssey, naturalmente] è probabile che vi sia un momento zero che precede l'uso, da parte dello scimmione, dell'osso del femore come una clava. Quel momento zero ha una connotazione originaria: mentre denota l'emergere del comportamento simbolico, segna anche l'avvento della differenziazione umana. Il fatto che un osso, che potrebbe essere solo un osso, a un certo punto diventi un'altra cosa dipende dalla pausa di riflessione che lo scimmione mostra di fare. Il tempo che intercorre da quando l'animale preleva l'osso, osservandolo attentamente mentre lo stringe nella mano, a quando passa all'azione, un tempo abbastanza lungo che lo scimmione impiega a guardare l'osso, girandolo e rigirandolo, è il tempo del sensemaking. È il tempo in cui avviene una traduzione da un oggetto, dalla cosa in sé, al significato della cosa". 
Ma questa, si sa, è Scienza (divulgata) ed è ovvio che essa superi le capacità di comprensione di una persona semplice come Apollonio che, senza pretendersi "scimmione", ha una cosa sotto i suoi occhi e tra le mani: il libro; lo gira e rigira e non riesce a farlo passare da oggetto a "significato"; non sa quindi cosa farne. E questo frustolo testimonia appunto impietosamente del suo fallimento.
C'è da dire, a sua giustificazione, che egli non padroneggia le diavolerie tecnologiche che, davanti agli Scienziati e alle Scienziate, squadernano oggi i cervelli di coloro che parlano (e addirittura pensano) come fossero libri aperti. Forse perciò è incapace di immaginare correlativamente le scene aurorali dell'umanità. Non solo prese in prestito dal cinema o dalla letteratura (che fanno in ciò il loro onesto mestiere), le trova infatti spesso evocate e ricostruite, come fossero in visione diretta, in libri come il qui esposto, spesso ma non sempre con mediazione introduttiva di un "probabilmente". 
Si pensi: nella sua cruda naïveté, Apollonio trova da sempre esilarante anche la fola freudiana dell'orda primitiva. È uso in effetti praticare solo analisi minute e alla buona solo di cose che osserva e che il suo modesto mestiere gli consente di mettere in relazione. Per esempio: le innumerevoli ricorrenze della persona grammaticale in Se questo è un uomo di Primo Levi. 
E non ne ricava naturalmente un'idea generale di come sia venuta fuori e di cosa sia la facoltà di esprimersi e di comunicare degli esseri umani. Tanto meno il gran pensiero che, culla moral-materiale dell'umanità, sia stato "uno spazio noicentrico", come "spazio condiviso che implica necessariamente la primogenitura del noi": è quanto in effetti sostiene d'emblée la pubblicazione qui presa a campione, sul fondamento di squadernamenti cerebrali dall'indiscussa affidabilità sperimentale. Ma "noi"?
A fatica e distinguendo tra tanti tipi, funzionalmente opponibili non nel "linguaggio" ma in modeste ricognizioni testuali, Apollonio trae solo qualche ipotesi sul modo, intricato e sistematico, con cui la lingua costruisce la panoplia (tale gli appare in effetti) della quarta persona grammaticale nel discorso: qualche esempio qui, qui, qui, qui, qui, qui... E osserva che essa talvolta include, talaltra non lo fa; talvolta cela la persona (fino a qualificarsi come impersonale), talaltra la gonfia; soprattutto, spesso imbroglia ed è inoltre pronta a usi intollerabilmente paternalistici. 
E, ci si faccia caso, proprio uno dei tanti e differenti "noi" marca stilisticamente e ideologicamente i libri (divulgativi) che, potenza delle Scienze, abbandonata la fredda non-persona che dovrebbe caratterizzarne e garantirne il discorso, sono sempre in grado di dire a "noi" cos'è il "linguaggio", chiarendoci così il "significato" dell'essere umani. Come fa il libro in questione: simpaticamente, moraleggiando e in quattro e quattr'otto. Si vuole mettere?

29 settembre 2024

Linguistica candida (70): Storia e diacronia

Benevolmente, lascino i due lettori di Apollonio che di tanto in tanto egli se ne esca, tra altre futilità forse poco meno impopolari, anche con quelle, impopolarissime, prese di mira da questo frustolo e da altri simili.
Con candore, porge così un contentino al suo alter ego, come una sorta di risarcimento a una severa osservanza disciplinare, quasi sempre qui tenuta tra le quinte, come se se ne avesse onta.
Né credano perciò che tra specialisti e specialiste i temi presi così in considerazione abbiano appunto grande corso. Lo si ribadisce, caso mai non lo si fosse inteso: in questo diario, tutto è gratuito e personale o, per dirla con espressione che sarà universalmente trasparente, ci se la canta e ci se la suona per passatempo.
Ebbene, c'è chi dice di occuparsi di linguistica storica solo perché prende di mira lingue del tempo che fu. Lingue antiche. Talvolta tanto antiche da finire fuori della storia, visto che ci si figura che abbiano appunto preceduto la storia. Lingue "ricostruite", dove il prefisso perturba in molti la giusta percezione di quanto lo segue, con cui si dichiara appunto che si tratta di costruzioni, non di osservazioni. 
Lingue ipotetiche, insomma, non documentate né documentabili: con buona pace della storia, che senza documenti (o monumenti) va notoriamente a ramengo. Eppure, la disciplina che se ne occupa, come si diceva, passa (quasi) universalmente per storica.
Sono i paradossi prodotti dalla leggerezza, se non dall'inconsapevolezza con cui capita usino le parole coloro che pretendono appunto di occuparsi scientificamente di parole (e di altro dell'espressione). Lo sospettò, ai suoi tempi, Ferdinand de Saussure.
Forse per un momento e per istinto di solidarietà, come un Amleto, egli pensò d'essere stato chiamato dal destino a porre rimedio a tale inconsapevolezza e a mettere così la disciplina sul suo indispensabile cardine. "...montrer au linguiste ce qu'il fait" avrebbe significato svegliare un drappello di sonnambolici e attivissimi dormienti (oggi diventato un reggimento).
Ma il suo successivo silenzio lo testimonia: concluse che era impossibile o che non ne valeva la pena. Chi sonnamboleggia si infastidisce di essere svegliato. Meglio, per lui, per tutti, che resti a operare dormendo. E a dire che Saussure ebbe torto a tacere non sarà certo chi verga queste righe. Consapevole com'è d'essere un "povero untorello" quando il fantasioso uzzolo di "spiantare Milano" (a dirla per figura con Alessandro Manzoni) gli si presenta allo spirito e ne viene immediatamente rimosso
Fu prudente Saussure a non cadere insomma nella trappola che, a contatto con il mondo com'è in permanenza, un'indole ingenua, se non sciocca tende a ogni Amleto (lo decretò definitivamente l'arte del Bardo). E bisognerà che con ironia (quindi, finalmente con verità) un giorno o l'altro lo si riconosca. Bally e Sechehaye fecero un gran torto al loro maestro, evocandolo in quella estenuante seduta spiritica che fu il suo o il loro Cours de linguistique générale.
Eppure, solo per tornare oziosamente sopra una vecchia questione che lì sorge, senza esservi a dire il vero risolta, la differenza tra prospettiva storica e prospettiva diacronica, quando si tratta di lingua, ad Apollonio e al suo alter ego pare semplicissima e cristallina. E nelle loro mute conversazioni si stupiscono che ci sia confusione in proposito, nello stagno della disciplina.
Orbene: quando è questione di lingua, la prospettiva storica prende in considerazione e descrive, su base documentaria, quanto è accaduto: idealmente, a tappeto. Idealmente, perché pensare che tutto l'accaduto sia documentato sarebbe gigantesca illusione.
La linguistica diacronica considera anch'essa con attenzione l'accaduto mediato dal documentato, ma prova a distinguervi il pertinente dal non pertinente. E, trattandosi di pertinenza, lo fa alla luce di un'ipotesi di sistema.
Accade di tutto, è la divisa della linguistica diacronica, ma di tutto ciò che accade, anche quando capita sia documentato, non tutto ha un valore: c'è da chiedersi se è pertinente. Per la prospettiva diacronica, il valore di ciò che accade non dipende dal semplice fatto che sia accaduto (e sia documentato), insomma.
La prospettiva storica è invece giustamente refrattaria all'idea di sistema. Tutto vi è accidente, nel senso proprio: se accade ed è documentato è quanto basta perché se ne debba dare conto. Anche la determinazione di cause o effetti dell'accaduto, nella prospettiva storica, ha un senso sotto il segno di tale fondamentale accidentalità: una volta accertato, l'accidente è, come dato, la costante ed è insopprimibile; la sua (eventuale) spiegazione, causale o finale, la variabile.
Al contrario, per la prospettiva diacronica,
il dato è un costrutto e si correla sempre a un sistema: senza tale correlazione, esso letteralmente svanisce. Il dato è in altre parole un rapporto, una dipendenza, una funzione e anche le sue cause e i suoi fini (se determinabili) sono parziali epifanie di un valore funzionale. 
Una linguistica priva di un'idea di sistema tuttavia non si dà. Attenzione! Una linguistica. Non una considerazione della lingua anche disciplinarmente orientata. L'espressione, in uno dei suoi innumerevoli aspetti, costituisce infatti l'oggetto di una panoplia di discipline: non c'è fare umano che essa non incroci (talvolta determinandolo).
Ma se si tratta di una considerazione propriamente linguistica, un'idea di sistema le è connaturata. Se si volesse asistematica, la linguistica urterebbe infatti natura e funzionamento, non tanto del suo oggetto, quanto del suo medesimo fondamento. Come disciplina (e sta qui la sua vera specificità), la linguistica non è una dottrina esterna alla lingua e che le si impone, a mo' di spiegazione e di chiarimento.
La linguistica è solo lingua fattasi cosciente di sé, quindi capace di esprimere se stessa come metalingua: lingua che parla di lingua. Ed è un brutto segno, anzi il segno che non si è sopra una buona strada, quando si fanno in proposito troppo ingombranti terminologia o formalismo, che sotto spoglie diverse sono in realtà la medesima cosa. Scorciatoie che, se non ben controllate, portano appunto fuori da un corretto cammino verso la comprensione.
Ne segue, per riprendere il filo del tema di questo frustolo, che parlare sul serio di linguistica storica è, a essere rigorosi, come parlare di una sfera cubica: una contradictio in adiectoLinguistica implica sistema, storica lo esclude. A meno che storica non sia solo un attributo retoricamente esornativo, che ricorre perché suona bene, o si presti, in prospettiva micro-sociologica, a definire l'hortus conclusus di una confraternita accademica che, nell'esercitarvi il suo (modesto) potere, trova la sua (modestissima) identità (sa insomma ciò che fa in tale campo e poco le importa di sapere cosa fa, disciplinarmente).
Ciò che passa sotto il nome di linguistica storica è in effetti e a ben vedere filologia. Per dire meglio, una specializzazione della filologia, cioè un ramo di una disciplina nobile e antica che, modernamente, si può dire poggi sopra il postulato che Vico pose con l'esatta convergenza di verum e factum. Anche questo è un paradosso, a dire il vero, ma è molto bello e non si ha il cuore di obiettargli alcunché: solo di aggiungere, con un filo di irriverenza, l'osservazione che ci sono fatti che sono fatte di specie poco degne di una caccia. 
In altri termini, la cosiddetta linguistica storica è una filologia settorialmente orientata verso i fenomeni linguistici (e, ben fatta, ha un suo corso vigoroso e rispettabile). I filologi a tutto campo, come dovrebbero essere (ma talvolta non sono) gli storici, hanno però tenuto sempre in sospetto di incompletezza questa filologia specialistica,
con qualche iattanza: un'ancella, infine, troppo formale ed esteriore per essere capace di cogliere la carnosa sostanza delle vicende umane. Insomma, una disciplina minore.
E anche se gonfia pomposamente il petto, quando va a spasso, la linguistica che si qualifica come storica o, in altri e più corretti termini, la filologia specializzata nella lingua abita in realtà i locali di servizio del labirintico edificio delle discipline storiche. E sta lì in attesa che dai piani nobili chi fa storia con tutti i crismi, se pensa di averne bisogno, la chiami a procurare quanto può, per poi congedarla, eventualmente con lode contegnosa: "Brava, ma basta così. Torna pure in cucina". 
La linguistica, la vera, il cui oggetto è un sistema processuale, cioè in continuo divenire, e un processo sistematico, cioè che non eccede mai il sistema, non è invece una disciplina ancillare o minore. Come si disse un tempo presuntuosamente e con scarso frutto di consapevolezza, evidentemente, è una scienza dell'uomo (oggi: dell'essere umano) e solo perciò anche di quanto accade all'uomo (oggi: all'essere umano). E nella correlazione funzionale tra tempo e lingua, come sistema, consiste appunto lo specifico della prospettiva diacronica, in linguistica. 
Un'oltre-filologia, insomma, capace di ponderare fatti e dati iuxta propria principia. Negli ultimi due secoli, di tanto in tanto, la si è vista baluginare, qui e là
. E già questo consola.
Come sconforta, d'altra parte, o fa perlomeno pensare che persino Roman Jakobson, colui che, in vita, tenne a presentarsi come il linguista per eccellenza e come tale fu ed è ancora considerato, volle che il suo avello in terra americana di lui dicesse a conti fatti e conclusivamente "Filologo russo":