20 novembre 2025

Linguistica al volo (3): "Six seven", comunione fàtica

Tra gli e le adolescenti di mezzo mondo, quale che sia la loro lingua nativa, pare si sia diffusa, a partire dagli Stati Uniti, la consuetudine di proferire "six seven" in modo che si direbbe inopinato, fuori cioè della pertinenza o della rilevanza dei contesti comunicativi, e accompagnando l'enunciazione con gesti variabili. 
"Non vuole dire nulla, non ha un significato", si legge nei commenti che stanno dedicando al fenomeno media di ogni genere. E l'insensatezza pare meritevole del valore che si assegnerebbe alla notizia che un postino ha morso un cane. L'inverso, un cane che morde un postino, è infatti quanto si presume comparabile con ciò che caratterizza i fiati articolati che sortiscono dalle bocche degli esseri umani: avere un senso.
Ebbene, un antropologo polacco, naturalizzato britannico, Bronisław Malinowski, nel secondo decennio del secolo scorso, aveva proficuamente speso nel Pacifico occidentale gli anni che lo preparavano a conseguire il suo dottorato londinese. Muovendosi tra un'isola e un'altra e interagendo profondamente con le popolazioni locali, che allora non ci si peritava di qualificare come "selvagge", aveva acquisito le conoscenze che sul principio del decennio successivo gli avrebbero permesso di comporre Argonauts of the Western Pacific, un monumento dell'antropologia qualificata come funzionalista (vivamente messa in discussione, per i suoi fondamenti e le sue conclusioni concettuali, nella seconda metà del Novecento; riserve condivise da Apollonio, ma qui poco importa).
A Malinowski fu anche chiesto di collaborare a un libro che portava il titolo The Meaning of Meaning e il sottotitolo A Study of the Influence of Language upon Thought and of the Science of Symbolism. Ne erano autori C.K Ogden and I. A. Richards. L'antropologo procurò così un supplemento, "The Problem of Meaning in Primitive Languages". 
La menzionata attuale vicenda di "six seven" sarà certamente effimera e, probabilmente, non perfettamente pertinente, ma la si può cogliere al volo per leggere un paio di pagine di quel contributo e per farne oggetto di una piccola riflessione conclusiva (la traduzione del passo, condotta alla buona, è di chi scrive): 

"Penso che, parlando del ruolo della lingua nelle semplici relazioni sociali, ci troviamo di fronte a uno degli aspetti fondamentali della natura dell'essere umano nella società. In tutti gli esseri umani c'è la ben nota tendenza a riunirsi, a stare insieme, a godere della compagnia reciproca. Molti istinti e tendenze innate, come la paura o la combattività, tutti i tipi di sentimenti sociali come l'ambizione, la vanità, la passione per il potere e la ricchezza, dipendono e sono associati alla tendenza fondamentale che rende la semplice presenza degli altri una necessità per l'essere umano.
Ora, la lingua è strettamente legata a questa tendenza, perché, per un essere umano naturale, il silenzio di un altro essere umano non è rassicurante, ma, al contrario, qualcosa di allarmante e pericoloso. Lo straniero che non parla la lingua è per tutti i membri di una tribù selvaggia un nemico naturale. Per la mente primitiva, sia tra i selvaggi che tra le nostre classi non istruite, l'essere taciturni equivale non solo a ostilità, ma anche a cattivo carattere. Ciò varia senza dubbio in funzione dei diversi spiriti nazionali, ma resta vero come regola generale. Rompere il silenzio, la comunione delle parole, è il primo passo per stabilire legami di amicizia, che si consumano solo con la condivisione del pane e del cibo. L'espressione inglese moderna “Nice day today” o la frase melanesiana [che corrisponde a un] “Whence comest thou?” sono necessarie per superare la strana e spiacevole tensione che gli esseri umani provano quando si trovano faccia a faccia in silenzio.
Dopo la prima formula, le parole cominciano a fluire: gratuite espressioni di preferenza o avversione, resoconti di avvenimenti irrilevanti, commenti sul perfettamente ovvio. Queste ciacole, tipiche delle società primitive, differiscono solo leggermente dalle nostre [...].
Senza dubbio, si tratta qui di un nuovo tipo di uso linguistico - comunione fatica, sono tentato di chiamarla, spinto dal demone dell'invenzione terminologica - un tipo di discorso in cui i legami di unione sono creati da un semplice scambio di parole.
Guardiamolo dal punto di vista specifico che ci interessa; chiediamoci che luce getta sulla funzione o sulla natura della lingua. Le parole nella comunione fatica servono principalmente a trasmettere un significato, il significato che è il loro, in quanto simboli? Certamente no. Esse svolgono una funzione sociale e questo è il loro scopo principale, ma non sono né il risultato di una riflessione intellettuale, né suscitano necessariamente una riflessione nell'ascoltatore. Ancora una volta possiamo dire che la lingua non funziona qui come mezzo di trasmissione del pensiero.
Ma possiamo considerarla una modalità di azione? E in che rapporto si trova con la nostra concezione cruciale del contesto della situazione? È ovvio che la situazione esterna non entra direttamente nella tecnica del parlare. Ma cosa si può considerare situazione quando un gruppo di persone chiacchiera senza uno scopo preciso? Consiste proprio in questa atmosfera di socievolezza e nel fatto della comunione personale di queste persone. Ma questo si ottiene in realtà attraverso la lingua, e la situazione in tutti questi casi è creata dallo scambio di parole, dai sentimenti specifici che formano la convivialità, dal dare e avere di espressioni che costituiscono il chiacchiericcio ordinario. L'intera situazione consiste in ciò che accade linguisticamente. Ogni espressione verbale è un atto che serve allo scopo diretto di legare l'ascoltatore al parlante con un vincolo di qualche tipo di sentimento sociale. Ancora una volta la lingua ci appare in questa funzione non come uno strumento di riflessione, ma come una modalità di azione.
Vorrei aggiungere subito che, sebbene gli esempi discussi siano stati tratti dalla vita selvaggia, potremmo trovare tra noi paralleli esatti per ogni tipo di uso linguistico finora discusso. Il tessuto connettivo verbale che unisce l'equipaggio di una nave in caso di tempesta, le parole convergenti di una compagnia di soldati in azione, le espressioni tecniche che accompagnano un lavoro pratico o un'attività sportiva: tutti somigliano essenzialmente agli usi primitivi della lingua da parte dell'uomo in azione e la nostra discussione avrebbe potuto essere condotta altrettanto bene su un esempio moderno. Ho scelto quanto sopra riferito da una comunità selvaggia perché volevo sottolineare che tale è la natura del linguaggio primitivo e nessun'altra.
Anche nelle semplici conversazioni sociali e nei pettegolezzi usiamo la lingua esattamente come fanno i selvaggi e il nostro parlare diventa la “comunione fatica” analizzata sopra, che serve a stabilire legami di unione personale tra persone riunite dal semplice bisogno di compagnia e non serve ad alcun scopo di comunicazione di idee. “In tutto il mondo occidentale si concorda sul fatto che le persone devono incontrarsi spesso e che non solo è piacevole parlare, ma è anche una questione di comune cortesia dire qualcosa anche quando non c'è quasi nulla da dire” — come osservano gli autori. In effetti non c'è bisogno, o forse non ci deve essere, nulla da comunicare. Finché ci sono parole da scambiare, la comunione fatica conduce tanto i selvaggi, quanto i civilizzati in un'atmosfera piacevole di rapporti sociali educati.
È solo in certi usi molto speciali all'interno di una comunità civilizzata e solo nei suoi usi più elevati che la lingua viene adoperata per formulare ed esprimere pensieri. Nella produzione poetica e letteraria, la lingua è utilizzata per dare corpo a sentimenti e passioni umane, per rendere in modo sottile e convincente certi stati d'animo e processi mentali. Nelle opere scientifiche e filosofiche, si utilizzano tipi di lingua altamente sviluppati per controllare le idee e renderle proprietà comune dell'umanità civilizzata.
Anche in questa funzione, però, non è corretto considerare la lingua come un semplice residuo del pensiero riflessivo. E l'idea che la lingua serva a tradurre i processi interiori di chi parla a chi ascolta è unilaterale e ci dà, anche per quanto riguarda gli usi più sviluppati e specializzati della lingua, solo una visione parziale e certamente non la più rilevante.
Per ribadire la posizione principale raggiunta in questa sezione, possiamo dire che la lingua nella sua funzione primitiva e nella sua forma originale ha un carattere essenzialmente pragmatico; che è un modo di comportarsi, un elemento indispensabile dell'azione umana concertata. E, in senso negativo, che considerarlo come un mezzo per incarnare o esprimere il pensiero significa adottare una visione unilaterale di una delle sue funzioni più derivate e specializzate".

"Comunione fatica" (e non "comunicazione", si badi bene) divenne "funzione fatica", come si sa, nell'esplicita ma fulminea ripresa che, trascorsi ancora degli anni, Roman Jakobson fece di queste osservazioni. La ripresa avvenne nel clima di una nascente scienza della comunicazione, con correlata tecnologia. E va forse detto che, in proposito, Jakobson si rese in realtà responsabile di una irenica riduzione che, con la sua esibita facilità meccanicista, disperse gran parte della portata provocatoria del punto di vista (lo si condivida o no) di Malinowski. "Six seven".   

18 novembre 2025

Linguistica da strapazzo (60): Articolo determinativo ["Syntactic Structures" e "Le strutture della sintassi"]

La modestia non è mai stata tra le virtù principali di Noam Chomsky, ma va detto che egli ha sempre avuto ragioni non trascurabili, personali e sociali, per non farne la propria divisa. Non si è un Chomsky per nulla. 
Pur se molto giovane (e la gioventù capita sia condizione contraria al ritegno), Chomsky fu tuttavia lodevolmente temperante quando diede un titolo, va detto, memorabile al libro che gli avrebbe assicurato una fama immediata e straordinaria: Syntactic Structures
Passa una dozzina di anni e il libro viene tradotto in italiano. Al titolo crescono gli articoli determinativi: Le strutture della sintassi.
Ora, con la determinazione e con l'articolo determinativo, sua più aperta manifestazione, l'italiano è certamente più lasco e tollerante dell'inglese. Ma, anche facendo la tara, per dire così, delle differenti confezioni, è difficile sostenere che Le strutture della sintassi e Syntactic Stuctures abbiano pesi equivalenti. 
"Le strutture...": 'tutte, ma proprio tutte tutte? Non è che per caso ne fosse sfuggita qualcuna?'. E "Le strutture...", 'proprio loro, loro per eccellenza'. Fanno così gli osti, cercando un'enfasi sbardellata nelle loro carte: "le pappardelle...", "il filetto...", "la coda alla vaccinara...", "gli gnocchi...". 
Adoperato spesso da chi crede che faciliti il sollevarsi in volo di una espressione, l'articolo determinativo, soprattutto nei titoli e negli elenchi compendiosi, come gli indici, è in effetti e al contrario una gravosa zavorra e finisce per connotare pesantemente, come palese millanteria, i nomi che introduce. 
Il caso di Syntactic Structures divenute Le strutture della sintassi fu poco o per nulla osservato all'epoca, ma fu tanto più curioso e improvvido, perché capitava alla traduzione di un'opera che, dato il suo soggetto, si sarebbe dovuta presentare come estremamente sensibile e attenta in proposito. Se, cose del genere, non le si nota tra chi professa la disciplina dedicata, chi mai le noterà? 
Ma nella dozzina d'anni che era passata dall'epifania di Syntactic Structures a quella di Le strutture della sintassi la credenza di una palingenesi della disciplina s'era affermata, tanto al centro, quanto e soprattutto alla periferia della ricerca linguistica. E, di conseguenza, alla tumescenza del titolo contribuì forse l'idea, frattanto fattasi ovvia e, a dire il vero, rimasta tale, che in quel libro, per gli studi sintattici, avesse appunto cominciato a germogliare definitivamente "il Verbo".

12 novembre 2025

A frusto a frusto (147)

La consapevolezza che arriva presto e di necessità il momento di congedarsi dal mondo sul quale solo per caso è capitato di affacciarsi non basta a mitigare gli effetti del vizio assurdo di provare, d'altronde vanamente, a capirci qualcosa.

9 novembre 2025

Linguistica candida (79): "...pour unique et véritable objet la langue envisagée en elle-même et pour elle-même"

Da millenni, è in funzione della realtà che la lingua interessa ai filosofi. Ed è in funzione dei testi che interessa ai filologi. Si dirà: "Vecchi discorsi che oggi non toccano i temi caldi della ricerca". Ma gli avatar sotto cui si presentano i due punti di vista sono sempre nuovi, anche perché, a pensarci un momento, essi si fondano, come luoghi comuni, sopra trite ovvietà. Ci sono nomi (e il resto) perché ci sono cose. E, fuori dei testi, la lingua dove sarebbe mai? 
Ma basta grattare la crosta di sbardellate novità, come la cosiddetta filosofia della mente, per vedere guizzare e prosperare il primo nelle semantiche referenzialiste (e anche nelle non referenzialiste: realtà infatti ce ne sono quante se ne desiderano e il virtuale non è invenzione dei giorni nostri). Ed è una feroce ironia della storia osservare come il secondo, degradando sino a farsi caricatura, trovi modo di ringalluzzirsi per metamorfosi con la linguistica dei corpora
Non cessa mai dunque la necessità di liberare mente e braccio dall'ipoteca che comportano tali prospettive, perché baleni (e accade molto raramente) una disciplina che abbia "pour unique et véritable objet la langue envisagée en elle-même et pour elle-même". Una disciplina ancorata solidamente al suo punto di vista diverso e originale e al suo correlato oggetto. Sopra quest'ultimo c'è da ricercare e da riflettere molto più di quanto non ne abbiano mai sognato e oggi non ne sognino filosofia e filologia, comunque mascherate. E all'interazione critica della linguistica con l'una e con l'altra, sempre possibile e in fin dei conti auspicabile, fanno da condizioni una preliminare presa di distanza e una accurata distinzione.

6 novembre 2025

Linguistica da strapazzo (59): "Paghiamo?"


A differenza di Apollonio, che esiste senza vivere, il suo alter ego sconta la sua esistenza con una vita e con i relativi impicci. "Paghiamo?", si sente dire perciò dall'addetta alla riscossione del saldo delle parcelle all'uscita da uno studio medico in cui ci si è occupati di lui (niente di preoccupante; o il contrario: l'età). E - benedetta perversione! - malgrado l'onere, se ne sente divertito e ne sorride, in compagnia dell'inseparabile Apollonio che qui ne rende rapida testimonianza, per condividere lo spasso con i suoi due lettori. 
C'è un'interrogazione che pretende di attenuare la cogenza di un invito e paradossalmente l'enfatizza. E c'è una quarta persona, altrove paternalistica e comune nell'interazione, sottilmente autoritaria, di chi cura verso chi è curato ("Prendiamo la medicina?", "Controlliamo la temperatura?). Dalle corsie e dalle sale operative si deve essere estesa alla cassa e alle correlate pratiche commerciali. 
Non c'è 'noi', d'altra parte, che non deve inquietare chi, spesso innocente, vi si trova coinvolto, ha osservato da sempre l'alter ego di Apollonio. Se pare buono, quel 'noi', perché suona a torto o a ragione come inclusivo (e questo è un caso), deve inquietare ancora di più: "Armiamoci e partite". Chi bada ai suoi interessi e non ai tuoi (casca a fagiolo, questa bella seconda persona) è sempre meglio averlo di fronte che alle spalle: "Tu paghi e noi [non inclusivo] incassiamo".
Oltre che nel lessico che, come si sa, è un fantasmatico cafarnao, non c'è dunque aspetto di quella sortita estemporanea che non giochi nello spazio concesso dalla lingua, come sistema, tra funzioni e forme. Si è inventata un'etichetta specifica, pragmatica, per designare l'attenzione specialistica a circostanze linguistiche come la menzionata. Del resto, con semantica, se ne era già molto tempo prima inventata una per rendere lo stesso servizio all'attenzione per il significato (ohibò! E il significante?). Complicazioni inutili. O meglio, utili a moltiplicare le presunte specializzazioni, i correlati insegnamenti accademici, i congressi, le riviste e il resto dell'apparato che promuove (e spesso soffoca) la curiosità per la lingua, forma principe dell'espressione umana, nei luoghi deputati.
Forme e funzioni, s'è detto invece e semplicemente, e gioco sistematico dell'espressione che a tutto provvede, fuori del procurare un supporto all'ingenua credenza della cruciale corrispondenza del detto alla realtà.


26 ottobre 2025

Linguistica candida (78): Erasmo, aggiornato

La lingua ha sempre imposto a se stessa le sue norme. Immaginarsi in diritto e soprattutto in grado di imporgliene altre è μωρία tradizionale ma sempre rinnovata, secondo mode di epoche diverse.
Ne sono afflitti esseri umani che, per eccessiva opinione di sé, pensano di detenere un potere di giudizio sopra ciò che si realizza e procede incurante di qualsiasi giudizio.
A tale μωρία etica se ne è aggiunta una seconda, da qualche tempo. È teoretica e forse non è meno grave.  
La prima vaneggia infatti d'avere effetti di legge; la seconda farnetica di avere la stoffa di una scienza. Con i suoi arzigogoli pretende di essere in grado di spiegare lingua e suo funzionamento più chiaramente di come, momento per momento, lo fa la lingua medesima a chi l'ascolta con il rispetto, il rigore, l'apertura di spirito e la radicale semplicità di cui diede certa (e forse ultima) prova quando, da infante che era venendo al mondo, in breve tempo, si fece parlante. 

21 ottobre 2025

Linguistica da strapazzo (58): "Sai che un furto su tre avviene mentre sei in casa?"

L'ordinale associato dalle grammatiche ai termini con cui si articola la categoria della persona è mera convenzione. Seconda, come del resto prima o terza, è lungi dallo specificare qualcosa della funzione linguistica cui, come attributo di persona, viene associato. 
Una convenzione ci mette poco però a diventare un luogo comune: è precisamente ciò cui una convenzione mira, d'altra parte. E nel caso specifico la convenzione è plurisecolare e il luogo comune infrangibile. 
Vada dunque anche qui per seconda persona, come etichetta di quanto funzionalmente vale il destinatario di un'enunciazione e trova la sua manifestazione più facile e immediata nel pronome personale tu e nelle forme aggettivali e verbali conseguenti.
Anche in questo caso bisogna tuttavia che si eviti di credere che tra forma e funzione la corrispondenza sia biunivoca. Nei processi enunciativi, ci sono destinatari che non vengono a galla come tu e ci sono tu applicati a funzioni diverse. 
"Ma tu guarda che pasticcio!", dirai se credi ingenuamente alla permanente buona fede della lingua, come se essa fosse angelica e in essa non ci fosse invece il proprio dell'umanità, specie per nulla affidabile. "Senti un pronome, un aggettivo possessivo, una forma verbale e non puoi essere certo di ciò che queste forme ti dicono". Imbrogliano senza malizia, tante volte, va detto. Ma lo fanno maliziosamente più spesso di quanto tu non creda. Un caso siffatto passa in televisione decine di volte al giorno, in queste settimane. 
"Sai che un furto su tre avviene mentre sei in casa?", dice un testimonial, che sorride affabilmente proprio mentre - il committente paga per quello - deve e vuole inquietare. E lo fa ad arte passando dalla seconda persona di sai alla seconda persona di sei
Nel suo breve enunciato, sai è infatti una seconda persona perbene, ammesso che in pubblicità se ne incontrino, di seconde persone perbene. Ma tant'è. Non è invece per nulla proba la seconda persona del seguente sei. A dire come stanno le cose (e prescindendo dal fatto che tale dire corrisponda o no alla realtà), sotto quel sei, c'è infatti una terza persona generica: 'Un furto su tre avviene quando il derubato è in casa', insomma. 
Ma il discorso maschera subdolamente quella terza persona generica, quasi un impersonale, con il medesimo 'tu' formale con cui ti si rivolge. Senza dartelo a vedere, ti spinge così a identificarti. A vestire già i panni (linguistici) del derubato. Vuoi mettere l'angoscia? E corri a telefonare, pronto a pagare la protezione che ti si vuole vendere. 

17 ottobre 2025

Linguistica da strapazzo (57): "Sono [se're:na]"

"Sono [se're:na]": esordisce così, per telefono, un'ascoltatrice di una trasmissione radiofonica mattutina in cui, a una rassegna della stampa quotidiana, segue un dialogo a distanza con coloro che, tra il pubblico, hanno voglia di interloquire. 
E, non si sa se anche al conduttore del programma, ma certo ad Apollonio che tende l'orecchio, mentre beve il suo tè o sbuccia un'arancia, si affaccia allo spirito come replica: "Beata Lei!". 
Non sono tempi, infatti, che si associno spiritualmente alla serenità, i presenti, sempre ammettendo che di tali ce ne siano mai stati, se non, come compito di ciascuno, per via di una difficile ricerca interiore.
Poi, e non senza un piccolo moto di inframmessa verecondia per un facile gioco di parole di cui un tempo, se prodotto in pubblico, si sarebbe chiesta venia (ma in proposito i tempi sono appunto molto mutati), una riflessione, dettata anche dalla solidarietà per un alter ego che, in anni recenti, ha sprecato in proposito un po' del suo tempo.
Ecco una prova, semplice, quotidiana, lampante, che, per valere come nome proprio (così, secondo una secolare definizione grammaticale), un'espressione passa inesorabilmente da un livello linguistico a un livello metalinguistico dove, per usare una metafora, essa è sterilizzata dal punto di vista semantico e consegnata, nella sua purezza, a una funzione denominativa. Una funzione metalinguistica, appunto.
Chi si presenta in un modo siffatto (e ciò vale ovviamente non soltanto per [se're:na], ma anche per [kle'mɛnte], ['li:bero], ['dʒusto] e per innumerevoli altri) non dice, come pure superficialmente si ode, "Sono [se're:na]". Dice precisamente "Sono (la chiamata / quella che chiamano) [se're:na]". La prova? Inoppugnabile, consiste nel modo in cui riceve il messaggio il destinatario, che molto raramente replica appunto con un "Beata Lei!" o, se lo fa, chiede immediatamente scusa per l'irrispettosa banalità del suo gioco di parole.
Attenzione: con Clemente, Libero, Giusto, Serena, Felice, Romano e così via, si creano i contesti appropriati per l'osservazione. Semplicemente. Quando fanno da nomi propri (e lo scritto, a scanso di equivoci, ricorre all'iniziale maiuscola), grazie a essi chi è curioso dei fatti di lingua gode insomma di buone condizioni di osservabilità. Come quando il cielo è sgombro di nubi, per chi ama perdersi nella contemplazione della luna. Non va diversamente però in ogni altro caso. Non c'è espressione che, proferita come nome proprio, non sia tacitamente accompagnata dalla formula che poco sopra si è posta tra parentesi tonde (o da una comparabile).
Sotto un nome proprio, in altre parole, c'è sempre, sintatticamente, un predicato appellativo e c'è sempre, per ciò che in superficie si presenta come nome proprio, una funzione da complemento predicativo di tale predicato. 
Al pari di FeliceGiovanna è infatti sempre (la chiamata) Giovanna, come disse con un doppio e rivelatore "veramente" e un singolo "interpretata", uno che, di lingua, se ne intendeva parecchio. Una terzina gli bastò infatti per scrivere un profondo saggio di onomastica teorica: "Oh suo padre veramente Felice! | Oh sua madre veramente Giovanna, | se, interpretata, val come si dice!".
Dal fastidioso, ma ineluttabile, rumore dell'attualità alla futile serenità che ispira l'Alighieri. Che meravigliosa colazione, stamane.

10 ottobre 2025

Supplemento a Intolleranze (15): "Linguaggio"

Delle catacresi cui linguaggio si presta correntemente, "[l]a facile verifica è affidata a chi legge", scriveva Apollonio nel frustolo in questione, or sono tre giorni. E un amichevole lettore, a tamburo battente, gli ha dato notizia di queste pagine, comparse ieri in un quotidiano nazionale:


Non c'è fatto semiologico che non trovi una rappresentazione metaforica di natura linguistica. La lingua è infatti il sistema semiologico per eccellenza. Ma il paradosso si verifica quando ciò che solo metaforicamente può essere assimilato alla lingua finisce per procurare lo schema concettuale (in modo esplicito e più spesso implicito) cui si suppone che anche la lingua sia conforme.
Come luogo comune e preso alla lettera, il facile tropo ha insomma il nefasto effetto di appiattire la percezione della differenza. E ciò non soltanto presso un pubblico profano. A forza di dire e di pensare, per metafora, che non c'è aspetto della cultura umana che non sia un linguaggio, si finisce in altre parole per credere che il linguaggio o, appunto molto meglio, la lingua sia, fuor di metafora, come ogni altro aspetto della cultura umana. E non è così.
Ci furono pagine del Cours de linguistique générale che fomentarono la confusione e che si sono di conseguenza prestate a tutti gli usi, anche ai più contraddittori con il dettato saussuriano. Non sono la sola prova che tali pagine, anche nella versione procuratane da letture talvolta tenute per profonde, vanno sempre sottoposte a una serrata disamina critica e, ove possibile, restituite al nocciolo linguistico (e semiologico, in quanto linguistico) da cui emanano.    

7 ottobre 2025

Intolleranze (15): "Linguaggio"

-aggio
 è ciò che, di un latino -atĭcu(m) e dopo secolare elaborazione, francese e provenzale deposero nella morfologia italiana, or sono molti secoli. Veicolo del trasferimento furono numerosi prestiti. Allora il prestigio delle due lingue era infatti grande.
Con -atĭcu(m), da nomi si derivavano aggettivi, in origine, come ancora oggi è dottamente evidente (programma, programmatico, paradigma, paradigmatico). Con qualche eccezione, con -aggio invece si andò in una diversa direzione. E la si percorre ancora, sempre che una derivazione in proposito sia vigente. 
Non lo è, per esempio, negli antichi coraggio, omaggio, ostaggio, messaggio. E lo è illusoriamente nel caso di linguaggio. Il suo rapporto con lingua è diverso da quello che, mediato dal verbo gemellare, oggi corre, per dire, tra gemello e gemellaggio.
Nel volgare del sì c'era già lingua, ovviamente, e il francesismo linguaggio vi arrivò già pronto e confezionato, con la sua accattivante aria esotica. Trovò presto chi si fece bello del suo uso, allora segno di raffinatezza culturale. Ci sono tre ricorrenze di linguaggio nella Commedia e due sono in rima. Le si direbbe testualmente concentrate, ma non si è qui a fare esegesi dantesca: "così, per non aver via né forame | dal principio nel foco, in suo linguaggio | si convertïan le parole grame" (If 27 13-15); "Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa; | questi è Nembrotto per lo cui mal coto | pur un linguaggio nel mondo non s'usa. | Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio | come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto»" (If 31 76-81).
Questi versi lo dicono: come sinonimi, lingua e linguaggio si trovarono così in concorrenza. Lungo i secoli, l'italiano ha d'altra parte provato a sviluppare dalla sinonimia una ideale complementarità, specializzando linguaggio. Non c'è opera lessicografica (moderna) che non lo attesti, con buona volontà. 
La lingua di tutti i giorni si è tuttavia rivelata recalcitrante in proposito e la voce linguaggio del dizionario on line dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana esordisce opportunamente così: "Nell'uso ant[ico] o letter[ario], e talora anche nell'uso com[une] odierno, lo stesso che lingua, come strumento di comunicazione usato dai membri di una stessa comunità". 
La stessa voce precisa solo in seconda battuta che linguaggio vale anche "[i]n senso ampio, la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di un sistema di segni vocali o grafici; e lo strumento stesso di tale espressione e comunicazione (inteso in senso generico, senza riferimento a lingue storicamente determinate)". Ma fosse solo questo...
A complicare le cose (o a semplificarle superficialmente), da qualche anno è intervenuta un'ulteriore influenza: il prestigio, come si sa, muta nel tempo. Con la sua irreparabile ambiguità (o si dirà sovra-estensione?), l'inglese language (che, va detto, sgorga dalla medesima fonte) è così venuto a sostenere usi tanto generici, quanto specifici di linguaggio, apparentato e perciò somigliante. Linguaggio esteso, linguaggio inclusivo ne sono testimonianze, giunte ad arricchire un campionario già straordinariamente ricco per via di catacresi. 
Lo si è detto: linguaggio arrivò in tempi remoti come raffinatezza. Gli è pertanto toccato il destino che tocca a (quasi) tutte le raffinatezze: finire nel vortice comunicativo ed espressivo che le precipita verso la strada di una perversa ordinarietà. E lì, vere e proprie parole da marciapiede, non c'è copula cui esse si neghino. Difficile dire infatti a cosa oggi non si possa attribuire un linguaggio e di cosa non si possa predicare che è un linguaggio, per denotazione o per una connotazione non più percepita come tale. 
La facile verifica è affidata a chi legge, che, sulla base della sua competenza e delle sue esperienze, troverà ad libitum quanto può comunemente completare un nesso nominale come il linguaggio del / dello / della... o una proposizione come il / lo / la.... è un linguaggio. Pur nella sua polisemia, come parola, lingua si è mantenuta più seria e costumata, al confronto, e si ha di conseguenza qualche remora a dire che è lingua molto di ciò a cui invece con grossolana facilità si attribuisce la qualità di linguaggio.
Per linguaggio, una riuscita da gigolo era prevedibile, portatore com'è di segni di un'antica tabe. Né si riesce correlativamente ad avere in simpatia l'ignoto chierico cui, per non dire appunto lingua, come forse era il caso, venne in mente e poi sulle labbra l'ipotetico linguatĭcu(m), in séguito fortunatissimo, che fa da etimo ricostruito a lengatge, a langage, a language e conseguenti. 
Ce lo si immagina facilmente, uno così. Rappresenta un tipo umano eterno. Il retore o il predicatore che, per parere dotto e impressionare, tira fuori parole di norma meno brevi delle comuni e già in uso. Allunga così il brodo delle proprie chiacchiere, sicuro che molti, tra coloro che lo ascoltano ammirati, lo imiteranno e, da lì in avanti, sul suo esempio preferiranno linguatĭcu(m), la novità, a lingua
Linguaggio testimonia insomma l'opera di un antenato morale di chi, oggi, non parla di problemi ma di problematiche, non tratta di temi, ma di tematiche, non lo fa secondo modi, ma secondo modalità, non dice i... o le..., ma quelli o quelle che sono... e così via. Come non sentirne ancora l'olezzo e come non trovare tale olezzo poco tollerabile?

1 ottobre 2025

Lingua nostra (16): "Pietas"

Pochi giorni or sono, in questo diario si annunciava un modesto rito, in cui si trovava implicato l'alter ego di Apollonio. "Non vorrà Apollonio negarci di sapere come è andata", scriveva amabilmente in calce un Lettore o una Lettrice. E, in risposta, Apollonio negava d'essere adatto all'ufficio.
Non si fa perciò una cronaca dell'evento, anzi si prova a trascenderla (o a sublimarla, nel consueto spirito), se qui si riferisce soltanto che, nell'occasione, è stata la pietas a fare da tratto pertinente.
A credere ai lessicografi, pietas, come prestito dal latino, è parola comparsa solo nel corso del Novecento, nello scritto letterario italiano. Il Grande dizionario italiano dell'uso, ispirato, come si sa, da Tullio De Mauro, la dice "comune", quanto a "marca d'uso". Essa sarebbe quindi "generalmente not[a] a chiunque abbia un livello mediosuperiore di istruzione". A dire il vero, l'attribuzione suona dubbia, già riferita al tempo in cui fu esposta. Oggi, opina Apollonio in maniera impressionistica, essa è crudamente anacronistica. 
Un quarto di secolo, di questo secolo, in particolare, non è poco in funzione di certi usi linguistici. Non hanno tempo, al contrario, le maniere e le attitudini umane che l'astratto pietas include per marcatezza e, ovviamente, anche quelle non marcate che appunto esclude.


28 settembre 2025

Linguistica candida (77): "Pulito". Cosa?

Quando è questione di lingua, ciò che Apollonio ha forse maggiormente in uggia sono le ipostatizzazioni. E di ipostatizzazioni, le grammatiche, tradizionali e no, sono piene. Ne sono costituite per intero. È questa la loro ideologia. Implicita, che è anche peggio. La terminologia grammaticale è appunto messa lì a dare nome a tali presunte sostanze. Né ci si può stupire del fatto che Ferdinand de Saussure la dichiarasse appunto di una "ineptie absolue" nella celebre lettera inviata in risposta ad Antoine Meillet nel gennaio del 1894. Da allora nulla è cambiato. E, ci si intenda, Apollonio non si illude né pretende che qualcosa cambi, anche perché è opportuno che, come per molto altro, ciascuno coltivi ed abbia la grammatica esplicita che si merita. 
A differenza delle cose del mondo, delle "cose" della lingua nessuno si chiede se e come corrispondono al loro nome e questo nome, in fin dei conti, cos'è. In genere, lo si prende come motivato dalla "cosa". Ma, trattandosi di "cosa" linguistica, è il nome che motiva a sua volta la "cosa". La congiunzione congiunge. C'è la causa nel causativo. L'articolo articola. Se poi è definito, definisce. Il nome nomina e il verbo... qualcosa da verbo farà. Fuori delle classificazioni, c'è poi la pratica. E non va meglio. Anzi. 
Di tutta questa soffocante pienezza, di questa ontologia tanto ideologicamente assoluta, quanto materialmente volatile, garanti ai sensi e alla ragione sono le forme. Un esempio a casaccio. Cos'è un participio, si ponga, se non un participio? Un ente-participio. E quanto a forma, il participio pulito suona o si legge sempre come pulito, per dire, in hai pulito?, l'ha pulito, è stato pulito, venne pulito, resta pulito, va pulito, mi viene pulito e così via. 
Si osservi però che tutti i pulito che ricorrono dal secondo in avanti sono sì pulito, ma, dandosi il caso, potrebbero essere pulita. Ciò vuole dire che sono pulita in modo latente, per via di eventuale reazione paradigmatica a una diversa sintagmatica. Il primo no. Gli manca dunque una proprietà che gli altri possiedono: va considerato al pari di essi? E, domanda radicale, si tratta veramente della medesima forma, se in un caso può mutare e nell'altro no? Un meccanico direbbe forse di no: pezzi che si somigliano formalmente in certe condizioni fino a parere identici, ma in realtà differenti. Non stanno l'uno al posto dell'altro. Tra i due, uno non ha un gioco di cui l'altro dispone: uno è pulito e basta, l'altro, secondo i casi, pulito, pulita, puliti, pulite. E il pulito fisso, per quanto suoni identico, è ben diverso da pulito variabile.
Al posto di pulito, può poi ricorrere, caso mai, pulitissimo, quando pulito è combinato, per esempio, con resta... o con mi viene... Meno facilmente o per nulla quando pulito si trova in altre combinazioni. E dunque, se capita sia pronto in quei casi ad alterarsi, pulito è sempre un ente-participio o, misteriosa metamorfosi ontologica, lì dove si altera, è diventato un ente-aggettivo? Un participio alterato fa in effetti paura. Un aggettivo va già meglio, si sa come venirne a capo. 
In verità, per ciascuna di quelle ricorrenze di pulito, prese a casaccio, qualcosa che la caratterizzi individualmente, rispetto alle altre, la si trova. Del resto è già evidente così: è stato non è hai, che non è venne, che non è va... Ed entrando in combinazione con pulito, per interazione, ciascuno di questi reagenti, per dire così, rende pulito diverso e ne riceve a sua volta una diversità. Va di va pulito non è certo lo stesso va di E la nave va.
Sarà allora il caso di moltiplicare gli enti secondo queste necessità? E di quanti enti-participi avrà bisogno una descrizione adeguata di ciò che sta nella testa di un locuteur? Se non è una questione di lana caprina, è certo una di quelle che difficilmente agiteranno le notti e i pensieri di una persona normale. Ma chi ha mai detto che avere curiosità per la lingua e porsi domande siffatte sia da persona normale?
E poi, bando alla chiacchiere: pulito è pulito! Ha una forma. Quella forma ne fa ciò che è: bisogna che le si creda. È un participio. O un aggettivo. Insomma, ciò che si vuole. Basta sia una "cosa". Senza "cose" stabili e certe della lingua nella lingua, santo Cielo, cosa e come si farebbe?

21 settembre 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non necessitano (46): Buone cause

Anche quando non è effetto di malafede, attribuirsi una (sempre supposta) buona causa tira fuori di norma da un essere umano quanto in lui c'è di peggio. 
Capita ci siano eccezioni in proposito e valgono appunto come casi di santità. Ma nel dubbio riflessivo, sempre ragionevole, non indursi in tentazione ed evitare di farlo è proprio di chi ha di sé una composta misura morale.

18 settembre 2025

Lingua loro (53): "...ha voluto..."? Ma come è umano Lei!

Da anni e da voce o in prosa giornalistica, Apollonio rispettivamente ode o legge espressioni formulate compendiosamente secondo la formula seguente:

Questa mattina, in occasione dell'evento, il Presidente ha voluto indirizzare a tutta la comunità nazionale un importante messaggio...

Ne sono varianti, per esempio, ...in occasione della visita, il Papa ha voluto rivolgere alla comunità dei fedeli un pressante invito..., ...in occasione della partenza, il Direttore Generale ha voluto inviare ai dipendenti della società un caloroso saluto..., ...in occasione dell'insediamento, il Procuratore generale ha voluto destinare ai suoi collaboratori un forte incoraggiamento..., in occasione della ricorrenza, il Capo di Stato Maggiore ha voluto fare giungere alle Armi e ai Corpi un vivo ringraziamento...
Da sempre la formula risulta fastidiosa ad Apollonio, per il costitutivo ricorrervi di volere (si badi, verbo definito grammaticalmente servile). Il suo sentimento della lingua prova in proposito un'intuitiva ripulsa. Ma alla ripulsa (Roland Barthes: "...parce qu'il me blesse ou me séduit"), si accompagna la voglia di capire.
Per capire la lingua, non ci sono da considerare che le combinazioni e le sostituzioni (ridondante il riferimento). Si contrae un'attitudine del genere quando, da ragazzi, si prende sul serio la fonologia. C'è poco altro da prendere sul serio, del resto, negli studi umanistici. 
Nel caso specifico, la combinazione è già sulle prime evidente, grosso modo. Quindi, più proficuo cominciare con la sostituzione, per poi tornare sulla combinazione. E rispetto a qualsiasi cosa che paia un elemento della lingua, la prima e fondamentale sostituzione è con il nulla: "Toglilo! Azzeralo! Fallo sparire! Comincerai a capire cosa ci sta a fare".
Ecco allora quanto proprio stamane, in una rete sociale, con il suo ha voluto ha innescato questo frustolo, lo si ammette, per esaurimento ("Ma basta! Anche qui? Non si rendono conto della ridicolaggine?"): "Questa mattina... il Rettore ha voluto indirizzare a tutta la comunità universitaria un messaggio di saluto...". Senza, sarebbe stato: "Questa mattina... il Rettore ha indirizzato a tutta la comunità universitaria un messaggio di saluto...". Lingua dell'informazione, si è detto. Con o senza ha voluto, sopra quanto è successo, sul fatto, nessuna differenza: ha voluto è allora un vacuo orpello? 
Lo si conceda, a chi non crede che la lingua si porti sempre dietro un'ideologia. Ciò che pare un orpello in funzione dell'enunciato ('ciò che ha fatto quel rettore o quel presidente o quel papa...') non lo è tuttavia in funzione dell'enunciazione ('io dico a voi...'). 
Un orpello dice cose essenziali di chi enuncia e, soprattutto, di quale sia la sua attitudine rispetto a ciò che enuncia, anche per il fatto che l'enunciato viene evidentemente ritenuto meritevole di orpelli, in funzione di cosa o di chi vi si trova menzionato e coinvolto.
E qui, in correlazione con la sostituzione, ecco al lavoro il dato della combinazione. Nella funzione di soggetto di ha voluto, il Presidente / il Rettore / il Papa / il Direttore Generale / il Capo di Stato Maggiore e, si precisa a scanso di equivoci, i rispettivi femminili, ove la realtà li rende disponibili, non sono l'eccezione. Sono la norma. Sono insomma rappresentativi della non marcatezza. 
Non che in proposito ci sia un impedimento grammaticale, ci si intenda, ma tra "L'operatore ecologico" e "Il Sindaco" non è difficile immaginare chi fungerà da soggetto più probabilmente e chi meno probabilmente nel contesto "...ha voluto ringraziare la cittadinanza per la corretta e lodevole differenziazione dei rifiuti". Si dirà: anche perché chi fa informazione ritiene, magari a ragione, che valga la pena di scrivere di ciò che passa per la testa e dalla bocca di un sindaco più che di ciò che passa per la testa e dalla bocca di un dipendente della relativa azienda municipalizzata (potrebbero essere d'altra parte espressioni irripetibili).  
Ma, a ben vedere, dirlo è solo un modo diverso di dire che ha voluto, l'orpello servile, rivela che il contenuto informativo dell'enunciazione è la volontà del suo soggetto grammaticale, nel fare ciò che si dice abbia fatto. A tale informazione, quella procurata dall'enunciato fa soltanto da pretesto (o da contorno). Non il fatto, dunque, ma la volontà soggettiva di un'autorità è quanto si comunica con ha voluto. E, correlativamente, rispetto a tale autorità, con ha voluto chi enuncia rende esplicito il proprio atteggiamento. Servile. Insomma, mai la terminologia grammaticale fu più appropriata. Ha voluto esprime il tratto pertinente di chi lo enuncia: lingua da servo. Servile.
E qui giunti, grazie all'amara e corrosiva fantasia di Paolo Villaggio, combinazione e sostituzione o, per dirlo con una secca definizione disciplinare, la linguistica in purezza consente, capendo, di ridere parecchio:

Il Megadirettore Galattico / il Duca Conte Maria Rita Vittorio Balamam / l'Onorevole Cavaliere Conte Diego Catellani / il Duca Conte Pier Carlo Ingegnere Semenzara / la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare / il Direttore Totale Dottor Ingegner Gran Mascalzon di Gran Croce Visconte Cobram / il Direttore Naturale Duca Conte Pier Matteo Barambani / il Professor Guidobaldo Maria Riccardelli ha voluto...

E di ridere tanto degli innumerevoli fantocci che, nel contesto specificato, pensano di farsi belli consacrando il loro ha voluto alle esternazioni di qualche "Duca Conte", quanto dei "Duchi Conti", spesso immaginari, che da ha voluto si pretendono e si considerano onorati, fino al punto che se ne trova sempre qualcuno che, in mancanza di meglio, se lo attribuisce da sé: "...ieri ho voluto rendere omaggio...". "Ma mi 'facci' il piacere...".

13 settembre 2025

A Pisa, si celebrano i cento anni dalla nascita di Riccardo Ambrosini


Ecco un'occasione nella quale Apollonio trepiderà per il suo esile alter ego e curerà, al Cielo piacendo, di assicurargli un po' di conforto interiore.

8 settembre 2025

A frusto a frusto (146)


Se, con serena ostinazione, si spinge uno sguardo sperimentale al di là di ciò che è bruto, ci si rende presto conto che quanto, con paradossale necessità, tiene in vita un essere umano è un quale.

6 settembre 2025

Cronache dal demo di Colono (74): Un fenomeno arcitaliano

La previsione era facile: il sei settembre 2025, il ciclone Andrea Camilleri si sarebbe abbattuto sulla nazione (linguistica) con la sua massima asprezza. Sono mesi che imperversa, come si sa. Pian piano, da qui alla fine dell'anno, lo si vedrà ridursi e infine spegnersi.
Fuori di figura e con un vivo sentimento di umano rispetto, peccato che a Camilleri sia finita così. Peccato che di uno scrittore di genere, bravo il giusto e sconsideratamente prolifico, di una persona di spirito, ma incline ai luoghi comuni, di un uomo di buona cultura, ma niente più che di buona cultura, sia stato fatto un feticcio (quanto durevole lo dirà appunto il tempo). Peccato che a tale feticcio sia stata adesso consacrata un'ara (se di marmo o di cartone, giudichi chi legge). 
Come in una festa strapaesana e con il pretesto di magnificazioni sesquipedali, intorno a tale ara si sono celebrati e si celebrano riti sfacciatamente (e comprensibilmente) commerciali e comiche manifestazioni di presenzialismo. C'è chi vende ogni sorta di santini, chi zucchero filato e torroni, chi spara tricche tracche e mortaretti, chi guitteggia dai teleschermi e sulle assi di palcoscenici di provincia e chi, infilandosi nelle chiacchiere di tutti i crocicchi, le infiora con ricordi personali originalissimi, ma dai quali la comunicazione di massa trae da decenni polpettoni stucchevoli e ormai rancidi. 
Si dirà che Camilleri lavorò a tale esito, nel breve scorcio della sua vita in cui fama e successo lo toccarono, improvvisi e irragionevoli, come sono sempre, chiunque tocchino. Si dirà che anzi lo fomentò. 
Lo fece sulle prime con un'autoironia sorridente ("Ho famiglia", gli si sentì più o meno affermare, "e penso al futuro di prole e nipoti"). Poi, però, come trascinato da una corrente, divenne preda, in apparenza, di un'irragionevole temerarietà. È evidentemente il sentimento che un dio feroce dona a coloro che destina a perdere un temperato giudizio su se stessi, nel clamore e negli effetti di interessate lusinghe. Si direbbe quasi una perdita del pudore.
A Camilleri bisogna concedere però che resistere sarebbe stato difficile e avrebbe domandato ben altra tempra. O l'essere nato e cresciuto in una nazione diversa da quella in cui invece si è riconosciuto senza remore e che, riconoscendosi a sua volta in lui, l'ha eletto a campione di una sua temperie morale e culturale certo non brillantissima né memorabile. 
Come si può e come detta il tempo, Andrea Camilleri è entrato così nel novero degli arcitaliani ufficialmente riconosciuti come tali (quanto a lungo vi rimarrà, lo si ribadisce, non è dato di saperlo) e la compagnia, va detto, non è delle migliori. 
Da più di sette secoli, infatti, il meglio dell'Italia e della sua cultura si esprime nell'"anti-" più che nell'"arci-". E, senza per questo pensare a chissà quali valori (sette secoli fa, ce ne fu in effetti uno fondativo e fu un segno permanente, per la nazione), ma restando in una sorta di locale e recente medietà, basta uscire dalla sagra strapaesana e percorrere i trenta chilometri che separano la burlesca Vigata dalla grave Regalpetra, per rendersene conto. Spassionatamente.

30 agosto 2025

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (45): Contraddizioni

Non c'è faccetta dell'esperienza umana che non alberghi contraddizioni. C'è chi, col pretesto di consolare e di consolarsene, ne fa una mistica mistificatoria. C'è chi si propone con arroganza di scioglierle, con esiti regolarmente tragici e fallimentari. Provare a esplorarle, come oggetto di conoscenza, invece, senza disperarsene; e sorriderne, anche se lacerano e feriscono, fin quando si può e, se del caso, amaramente. Al di là, tacerne: non riscattate dal sorriso, ne sortiscono solo lamentele come stucchevoli ovvietà.

26 agosto 2025

23 agosto 2025

Linguistica da strapazzo (56): "L'amare": "work in progress" (e Brunori Sas, come pretesto)


Apollonio incrocia in rete questo piccolo testo e, di bocca buona com'è, ne resta divertito. Non tanto per ciò che dice, ma per come prova a dirlo (paronomasia inclusa) e per il corto circuito grammaticale che contiene. Spregiare il sostantivo, come parte del discorso, è operazione di poetica metalinguistica plausibile e persino graziosa. Ma, nel farlo, di sostantivi, l'aforisma ne mette in campo ancora un paio. Sono sostantivati, nel gergo grammaticale, l'amare e il fare, come infiniti. Ricorrono con un articolo determinativo. E la sintassi è perentoria: se c'è articolo, c'è sostantivo. L'infinito sostantivato è risorsa grammaticale e testuale di cui l'italiano si fa bello sin dai suoi esordi e che gli è particolare. Di infiniti sostantivati, ce ne sono di celeberrimi e di costitutivi, si direbbe, dell'identità nazionale: ...e il naufragar m'è dolce in questo mare. L'infinito, appunto, sostantivato. 
Di il fare chi non ricorda inoltre i fasti, sebbene ormai non più recentissimi, nel gergo della politica? "Io sono un uomo del fare..." fu il manifesto personale di una figura pubblica che segnò un ventennio della nazione e la cui memoria sta evidentemente sbiadendo.
Nel discorso, per più scoperta allusione al ruolo dell'agente e allo sviluppo dell'azione, l'infinito sostantivato porta quella nuance processuale che i sostantivi registrati come tali nei dizionari talvolta tendono a oscurare: con naufragio al posto di naufragar, il verso appena citato sarebbe colato a picco. E il fatto, al posto di il fare, porta con sé l'ineluttabile idea di ciò che è compiuto. "Perfetto", si dice sempre nel gergo grammaticale, ma ovviamente non per intendere che si tratti di esito ineccepibile. 
D'altra parte, si può banalmente fare l'amore. Ma fare l'amare, qui esposto come solo eventuale, comporterebbe una buona dose di straniamento (linguistico). Con la lingua, tuttavia, non si sa mai. Provveda il poeta vivente qui evocato, insomma, sempre che ne abbia la voglia, anzi, visto che meglio gli aggrada, il volere. 
Eppure, quanto ad amore, chi direbbe mai che, da sostantivo, non designa in effetti un processo? Vorgangswort, nei termini tassonomici di Hugo Schuchardt. E ciò cui (per polisemia) il sostantivo amore dà nome ha fuor di dubbio principio, sviluppo e, non di rado, se non quasi regolarmente, fine. 
Sostituito al sostantivo l'amore, l'infinito sostantivato suona allora come appropriato a un work in progress e forse aiuta a non pensare che il processo avrà una fine. L'amare è in altre parole un segnale di lavori in corso che ci si immagina e si vorrebbero durevoli per sempre, per uno dei soliti umani paradossi.

20 agosto 2025

Lingua loro (52): "Dato", "fondamentale", "linguaggio", "serve", "principio", "noi", "obiettivo", "al fine di" e tanto altro

"Ma se parliamo di prodotti linguistici, io credo che dovremmo sempre tener presente un dato fondamentale: il linguaggio umano è nato e si è sviluppato perché serviva. Perché era utile. Perché rispondeva a delle necessità. E questo principio continua a essere valido. Non esistono discorsi gratuiti: se prendiamo la parola - anche nella maniera più informale, svagata, istintiva possibile - è perché abbiamo un obiettivo, o più obiettivi. Questo vale per le arringhe in tribunali, per i comizi in piazza, per le telefonate di lavoro, per gli slogan pubblicitari, per le dichiarazioni di amore, per le chiacchiere al bar. Nella più banale delle ipotesi, parliamo del più e del meno, anche con sconosciuti, al fine di alimentare un rapporto interpersonale che serve a definire o preservare il clima umano di un ambiente".
La perentoria espressione di questi concetti è comparsa in rete ieri e, nell'epoca dei motori di ricerca, è ridondante dichiarare dove si trova e a chi la si deve. Chi avesse curiosità in proposito, in pochi secondi può soddisfarla. Vedrà che si tratta di una reputata tribuna e, se non di uno specialista, di un "loico" e letterato. 
Non c'è d'altra parte essere umano che, sulla lingua, non abbia le sue convinzioni (o ciò che crede essere tali) e cui non capiti di esprimerle. A scanso di equivoci, "Grazie al Cielo!" è quanto in proposito pensa un modesto avventuriero nel campo, come Apollonio. Anche per la meravigliosa disponibilità a farsi oggetto del discorso di chiunque, la lingua (al singolare assoluto) è infatti preziosissimo tratto umano di eguaglianza, di fraternità, di libertà. Di lingua (al singolare di una pluralità indefinita), non c'è chi non ne parli (almeno) una. E non c'è chi non si possa esprimere al duplice proposito della lingua al singolare assoluto e di una lingua al singolare di una pluralità indefinita. Lo si fa persino in un diario scombiccherato e cervellotico come questo. E ciò dice come la linguistica (con i suoi succedanei) sia disciplina ben più democratica e popolare della biologia molecolare o della fisica delle particelle.
Qui, dunque, niente di personale. La sola informazione che ad Apollonio pare utile dare in modo esplicito è che il brano in esordio viene da uno scritto che prende a pretesto la prosa di Italo Calvino e sue recenti parodie automatiche. È quanto basta a giustificare la presenza di un'immagine dello scrittore, colto in un'attitudine che a prima vista pare interessata, ma è forse anche perplessa. 
Di certo, a nessuno sarà d'altra parte passata per il capo l'idea che motti così assertivi fossero proprio di Calvino. Per mostruosa metamorfosi, nella mente del signor Palomar i dubbi, gli interrogativi, le esitazioni, il timore di precipitare il proprio pensiero nell'abisso delle conclusioni generiche e affrettate si sarebbero infatti volti integralmente nei modi tassativi di una corriva petizione di "principio", quanto all'espressione umana.
Perché di una petizione di "principio" in effetti si tratta. E di una buona sintesi di ciò che il senso comune non tanto opina, quanto ferreamente postula della lingua (o del "linguaggio", così ci si esprime in "lingua loro"). In quelle righe non c'è in effetti nulla di personale e nulla che possa essere pertanto addebitato personalmente alla voce ("io") che nell'occasione se ne fa semplice riecheggiatrice.
È il bello dei luoghi comuni. Li si può proclamare con leggerezza o (che è lo stesso) per responsabilità universalmente condivisa: il "noi" di "dovremmo" (soprattutto in combinazione con la modalità deontica del predicato) è infatti quel pronome che trovò una precisa definizione in parole di Giorgio Manganelli che qui non si ripetono. E l'argomentazione che poggia sopra un fondamento tanto comune presenta come "dato fondamentale" ciò che è in realtà una congettura molto modesta, anche quanto a contenuto intellettuale. 
E nemmeno una congettura suffragata da osservazioni sperimentali: "il linguaggio umano è nato" (passato prossimo del modo indicativo, il modo della realtà) è infatti una proposizione che a nessun essere umano è stato dato di proferire sulla base di una constatazione. Ancor meno un essere umano può proferire, sulla base di una constatazione, "il linguaggio... si è sviluppato", se intende parlare in tal modo di filogenesi. 
Ma si ipotizzi pure al proposito che l'ontogenesi riassuma la filogenesi. Le osservazioni e gli esiti degli esperimenti finora possibili, quanto alla lingua, non indirizzano a una spiegazione del suo sviluppo ontogenetico nei termini di una "causa finale". Procedere in tal senso è farlo nel modo sopra il quale ironizzò Voltaire, sono già quasi tre secoli: "gli occhi nati e sviluppati per vedere, lo stomaco per digerire" e così via sono ovvietà insuperabilmente insipide.
Ma l'idea, popolarissima, di una causa finale a indirizzare lo sviluppo è invece proprio ciò che prospera rigogliosamente nel séguito del discorso. Vi affiorano predicazioni come "il linguaggio... serviva" (ma a chi?), "era utile" (idem), "rispondeva a delle necessità" (di chi?). Saranno forse "i bisogni" teorizzati da Lamarck. Inutile chiedere tuttavia maggiore precisione o dettagli: sul tema specifico, la risposta invocherà ancora più genericamente adattamento, sopravvivenza e successo della "nostra riverita specie", secondo la qualificazione attribuitale da un pensoso lombardo.
Anche perché, una volta scivolati lungo una simile china, il "linguaggio" e la specie che se ne servirebbe come strumento finiscono per essere un indistinguibile tutt'uno. E non l'intenzione, la Meinung di un soggetto trascendentale, per dirla con Kant e con i suoi sviluppi fenomenologici, ma addirittura "l'obiettivo" di un individuo qualsivoglia di tale specie o di un qualsivoglia gruppo di individui associati diventa la ratio di ogni suo o loro atto espressivo (e comunicativo). Una spiegazione irenica e tranquillizzante.
Insomma, se si capisce cosa vuole (ma come lo si capisce?), si capisce cosa dice. Forse dovrebbe essere però il contrario: se si capisce cosa dice, si capisce cosa vuole. O, meglio e più ragionevolmente, non è né così né al contrario, per evitare il circolo vizioso di tutte le ermeneutiche, anche quando esse si travestono, come nel caso specifico, da pragmatica.
Al diavolo, però, nel caso individuale, le sofisticazioni introdotte dalle distinzioni di "ego", "superego" ed "es". Al diavolo i lapsus, le false partenze, le conclusioni inconcludenti, complessivamente, le erranze e gli errori.  
O, passando al sociale e ai suoi ancora più fumosi e contorti "obiettivi", al diavolo i conflitti, i pregiudizi, le menzogne spacciate per verità, le verità spacciate per menzogne, le lingue che mettono a tacere altre lingue o che ne decretano la morte.
Al diavolo, insomma, il "non sanno ciò che fanno", con cui finalmente espresse la sua opinione in proposito una voce tutt'altro che priva di spirito (giudizio pertinentissimo, se mai ce ne fu uno, proprio rispetto all'espressione umana). Vedi un po' e di conseguenza se (come credono) sono in grado di sapere ciò che vogliono e quali sono i loro "obiettivi"...
Al diavolo, soprattutto, come inesistenti, i "discorsi gratuiti", tanto "gratuiti", tanto privi di "al fine di", da esprimere, si direbbe riflessivamente, un'arte interna alla lingua (di nuovo, al singolare assoluto). 
Non c'è lingua nota (di nuovo, al singolare di una pluralità indefinita) di cui un'arte siffatta, in un modo o nell'altro, non sia stata e non sia secrezione. Spesso, quando il tempo passa, la sola secrezione conservata, mentre all'oblio e al nulla vengono destinati enormi quantità di discorsi la cui esistenza è garantita da presunti "obiettivi" esteriori.
Si tratta dell'arte che, come lingua interiore, germogliò in un Italo Calvino, per esempio. Vai a sapere come mai, come e, soprattutto, con quale "obiettivo". E da lì succhi distillati passarono materialmente per la sua penna e per la sua macchina da scrivere. E così si fecero testo: un sistema processuale. Una pluralità di testi, più precisamente, che, proprio in quanto tali, pongono problemi di accertamento filologico della loro testimonianza. Testimonianze, quelle di un Calvino, tutte ipotetiche, tutte interrogative. Manifestazioni loquaci del mistero della lingua e, al tempo stesso, reticenti, se non proprio mute in proposito. 
Ovvio: la lingua è un mistero per coloro che, evidentemente balenghi, si ostinano a non arrendersi all'evidenza morale e materiale del "principio" che discende da quel "dato fondamentale". Esso rende conto universalmente di cosa sono i "prodotti linguistici". E afferma che "il linguaggio è nato e si è sviluppato perché serve" e che "noi", con esso, nei nostri discorsi mai "gratuiti", perseguiamo "obiettivi". Santa pazienza, ma ci vuole tanto a capirlo?

19 agosto 2025

Trucioli di critica linguistica (26): "Buffet" e "bouffet", coppia minima nel "Gattopardo"

Per designare apparentemente la medesima cosa, nel Gattopardo ci sono due allotropi. Uno graficamente corretto: buffet. E uno no: bouffet. Ha due ricorrenze il primo; ne ha una il secondo. A breve distanza l'una dall'altra, si trovano tutte nella Parte VI del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell'ordine, eccole e, brevemente, ecco i loro contesti di apparizione: 

"«Maria! Maria!» esclamavano perpetuamente quelle povere figliole. «Maria! che bella casa» «Maria! che bell'uomo è il colonnello Pallavicino» «Maria! mi fanno male i piedi!» «Maria! che fame che ho! quando si apre il 'bouffet'?»". 

"[Fabrizio] aspettò un momento che i ragazzi [Tancredi e Angelica] si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala del buffet". 

"Nella sala del buffet, vuota, vi erano soltanto piatti smantellati, bicchieri con un dito di vino che i camerieri bevevano in fretta guardandosi attorno. La luce dell'alba si insinuava dai giunti delle imposte, plebea".

Svista di uno scrittore della domenica, come Lampedusa fu (ed è ancora) considerato? Così pensò forse Giorgio Bassani che corresse bouffet con buffet, nella versione del romanzo che curò e che vinse lo Strega nel 1959. 
Dal 1967 - dopo un polemico intervento in proposito di Carlo Muscetta - si legge però Il Gattopardo in una "edizione conforme al manoscritto del 1957", estremo testimone della volontà dell'autore. Le due grafie, nei luoghi differenti, sono state ripristinate di conseguenza. E, fuori dell'ipotesi che, per una, si tratti di un errore, c'è da chiedersi se la loro differenza abbia una ratio, nel sistema del libro.
La risposta è positiva, come per altri minuscoli dettagli della costruzione linguistica del romanzo. Il realismo del Gattopardo è maniacale. È soprattutto tale quando vi si esprime la sua fondamentale vena sardonica, che, va osservato, finisce per avere sempre tra i suoi bersagli anche il principe di Salina, come personaggio più esposto.
Buffet ricorre pianamente nella narrazione. In una mimesi del discorso diretto e, peraltro, tra virgolette, bouffet rappresenta invece l'esito che il prestito francese buffet ha sulle labbra delle "ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti" che, nel novembre del 1862, riempivano i salotti della nobiltà palermitana. Eccole sulla scena:
 
"Più [Fabrizio] le vedeva e più s'irritava; la sua mente condizionata dalle lunghe solitudini e dai pensieri astratti, finì a un dato momento, mentre passava per una lunga galleria sul [si osservi] pouf centrale della quale si era riunita una numerosa colonia di quelle creature, col procurargli una specie di allucinazione: gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederla a un tratto arrampicarsi sui lampadari e da lì, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola, stridori e digrignamenti sui pacifici visitatori. 
Strano a dirsi fu una sensazione religiosa ad estraniarlo da quella visione zoologica: infatti dal gruppo di bertucce crinolinate si alzava una monotona continua invocazione sacra: «Maria! Maria!» [e quel che segue e si è già citato]. Il nome della Vergine, invocato da quel coro virgineo riempiva la galleria e di nuovo cambiava le scimmiette in donne, perché non risultava ancora che i [si osservi] ouistiti delle foreste brasiliane si fossero convertiti al Cattolicesimo".

Buffet [by'fɛ] e bouffet [bu'fɛ] sono una coppia minima, nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Fuori di ogni semantica referenziale e per via del sistema che sostanzia e sostiene il testo, la differenza di signifiant vi si correla in effetti a una differenza di signifié. E, dalla prospettiva di una critica linguistica, nella langue narrativa del Gattopardo, che non è banalmente l'italiano, /y/ e /u/ sono fonemi. 

14 agosto 2025

Linguistica candida (76): "A Fra', che te serve?"

"L'aggettivo è una parola che serve a modificare semanticamente il nome o un'altra parte del discorso con cui ha un rapporto di dipendenza sintattica e, nella maggior parte dei casi, di concordanza grammaticale". "La preposizione è una parte del discorso che serve a esprimere e determinare i rapporti sintattici tra le varie componenti della frase". "La congiunzione è una parte del discorso invariabile che serve a collegare sintatticamente due o più parole (o gruppi di parole) di una frase, oppure due o più frasi di un periodo". "L'avverbio è una parte del discorso invariabile che serve a modificare, graduare, specificare, determinare il significato della frase". 
Sono lacerti di una buona, anzi di un'ottima grammatica dell'italiano. Lo si dica pure: della migliore. Non ha rilievo dire quale sia, nel caso specifico, né chi sia il grammatico che l'ha dettata. Di ciò che qui si vuole fare osservare si troveranno infatti esempi a bizzeffe in ogni altra simile e di qualità inferiore. Né a scorrere quella cui qui si è fatto rapido ricorso i passi menzionati sono i soli in cui compare "serve". 
Nel discorso dei grammatici e delle grammatiche, il modulo è infatti ben più che corrente. E non c'è niente nella lingua di cui una grammatica non riesca finalmente a dire che "serve", nel modo che s'è visto o con una parafrasi. Tratta dalla medesima fonte, eccone una: "Il nome o sostantivo è una parola che ha la funzione di indicare persone, animali, cose, concetti, fenomeni (ad es. bambino, gatta, martello, giustizia, tuono)"; "ha la funzione di indicare" equivale a "serve a indicare", che gli è pianamente commutabile.
Ma "serve" serve? La domanda non paia provocatoria. Per esperimento, lo si espunga dai passi citati, con gli opportuni aggiustamenti: "L'aggettivo è una parola che modifica semanticamente il nome...", "La preposizione è una parte del discorso che esprime e determina i rapporti...", "La congiunzione è una parte del discorso invariabile che collega sintatticamente...", "L'avverbio è una parte del discorso invariabile che modifica, gradua, specifica...", "Il nome o sostantivo indica persone...". 
Si tolgono "serve" o la sua parafrasi e quei propositi restano descrittivamente equivalenti, qualunque sia il loro valore. C'è più di un sospetto allora che, nel discorso grammaticale, "serve" sia un sussiegoso orpello e che se ne potrebbe fare a meno. Una bizzarria, a prima vista, per un genere testuale, la grammatica, teso in teoria a dire come stanno le cose della lingua e niente altro. Ma qui viene appunto il bello, perché un testo è un sistema e anche le (apparenti) ridondanze vi contribuiscono.
Se un'analisi semplice e spassionata verifica allora che in un testo ci sono parole di cui esso avrebbe potuto fare a meno e il resto, per dire così, è apparentemente giustificato dal tema (o dai fatti), è ipotesi ragionevole che lì, proprio nelle parole in più, si annidi la sua ideologia. Che esse siano quindi tutt'altro che ridondanti, dal momento che con esse viene a galla e si esprime il sistema di pensiero, indiscusso in quanto implicito, che garantisce quel testo e nel quale esso affonda le sue radici. 
Per capire il discorso grammaticale, diventa allora indispensabile capire cosa vi dice "serve". E per capirlo, come si fa nelle buone investigazioni, va anzitutto portato in luce ciò che "serve" tiene nell'ombra, ciò che paradossalmente nasconde. 
C'è da sfrondare anzitutto alcune predicazioni che si annidano sotto le forme del verbo servire. Quelle transitive testimoniate per esempio da Arlecchino serviva due padroni o da In cosa posso servirla? non sono in gioco. La pertinente è sintatticamente intransitiva e la si può glossare, con gradi di appropriatezza variabile, con 'essere necessario, indispensabile, utile, opportuno per ottenere un fine'. È il servire di Serve nulla? o di Serve un po' di silenzio, di Serve più severità, rigore, polizia per le strade, di Servono pene esemplari, dove, come dicono già i semplici esempi, la predicazione compare accompagnata dal suo soggetto ('ciò che serve') e il soggetto fa da rema dell'enunciato. Serve è il "dato", il suo soggetto è il "nuovo" e lo specifica comunicativamente.  
Nel discorso pubblico, spesso, meglio, quasi sempre (viene fatto di dire con un calcolo a occhio) questo servire ricorre in contesti che non saturano tuttavia la sua griglia tematica. Griglia tematica? Niente paura: ci si spiega subito. Infatti, nel discorso privato e nella lingua di tutti i giorni è più frequente che tale griglia sia saturata. In altre parole, accade sovente che intorno a servire ci sia spiattellato tutto il corredo di funzioni sintattiche e di ruoli semantici di cui esso dispone: C'è un chiodo da togliere e mi serve una pinza. Sai dove sta? 
Ecco appunto farsi luce un elemento molto importante di quella griglia e fondamentale per intendere esattamente cosa serve porta con sé, come predicazione. È il ruolo manifestato da mi 'a me', nell'ultimo esempio. In altre parole, il servire qui pertinente, oltre a un soggetto ('ciò che serve'), per dirla con i grammatici e le grammatiche, ha un complemento di termine, interpretabile come un complemento di vantaggio. Un beneficiario, insomma. D'accordo, "serve". Ma "a chi" (e "per fare cosa")?
Come si sa, la lingua è generosa. La lingua "serve" a dire qualcosa, per il senso comune (che, come osservò Alessandro Manzoni, capita sia nemico del buonsenso). Ma, dicendo quel qualcosa, con la sua generosità, la lingua "serve" anche a tacere qualcos'altro. E l'importante complemento di termine del servire in questione, il suo complemento di vantaggio, il beneficiario, conta spesso come quel "qualcos'altro", come ciò che viene (opportunamente) taciuto. In effetti, è tacibile Non c'è l'obbligo di renderlo esplicito. E a che si vuole che serva dire a chi "serve" ciò che "serve"? Talvolta, può persino essere nocivo al discorso (capita che la chiarezza lo sia). 
Infatti, come si osservava, soprattutto per il discorso pubblico, il beneficiario, lo si tace quasi sempre. "Serve". "A chi?" verrebbe fatto di chiedere, quando lo si sente proclamare. Ma si rischia di passare per discoli e per impertinenti. L'attesa di una risposta sarebbe del resto inutile. "Serve" tende insomma all'assoluto. In quel tipo discorsivo, allude quasi sempre al mistero che va sotto la designazione (fantasmatica) di bene comune. Bene comune è un concetto molto prossimo a senso comune e in associazione con il quale interi costrutti socio-culturali sono stati, sono, saranno edificati. S'è mai visto allora qualcosa di più ideologico di ciò che quasi sempre gli enunciati con "serve" non dicono?
Anche tra i capitoli delle grammatiche, con tutti quei perentori "serve", si aggira dunque un fantasma. Si dirà che è un'evanescenza meno inquietante. Vero. Si tratta infatti del fantasma del(la) parlante. Un fantasma che, in versione multipla, diventa, come si sa, la comunità parlante. C'è infatti una curiosa coincidenza tra l'epochè del beneficiario di "serve" e una sua qualsiasi ipostasi qualificata come comune. A cosa serve specificare? È un bene, un senso, un luogo comune. Lo si sa.
Ma, di nuovo, qui viene il bello. Perché a questo punto si capisce come, apparentemente ridondante, "serve" dica invece una cosa importantissima. Dice quale idea della relazione che passa tra (comunità) parlante e lingua hanno grammatici e grammatiche che in questo, va detto, sposano felicemente e confermano il senso comune di profani e profane. Per illustrare di cosa precisamente si tratta, meglio di un reboante discorso, vale forse la similitudine che procura un vecchio e popolare aneddoto. Anzitutto, i protagonisti e l'ambientazione.
Franco Evangelisti (1923-1993) era un uomo politico della Democrazia Cristiana, attivo a Roma e nel Lazio e non solo in quell'area esponente di spicco della corrente andreottiana. Gaetano Caltagirone (1929-2010) era un imprenditore romano del settore edile (vulgo, palazzinaro, ma non di piccolo calibro). I due furono sodali, nel condiviso scorcio della seconda metà del Ventesimo secolo. 
S'era appunto agli inizi degli anni Ottanta e una volta, con lo schietto e sfrontato cinismo allora di tanto in tanto affiorante nel ceto politico, Evangelisti fece una scandalosa confidenza a un giornalista (in séguito, ne pagò il fio). Gli rivelò che, ogni volta che gli capitava di telefonare a Caltagirone, ad apertura di conversazione, questi regolarmente gli chiedeva: "A Fra', che te serve?". 
Grosso modo, è il modello di relazione che profani e profane e un numero tutt'altro che trascurabile di specialisti e specialiste (grammatici e grammatiche in testa) immaginano viga appunto tra lingua e parlante. Parlante, nel ruolo di Evangelisti. Lingua, in quello di Caltagirone. 
Urge nel(la) parlante l'esigenza di esprimere o (come si pensa e si dice più di frequente) di comunicare qualcosa? Per ottenere quanto "serve", chiama illico et immediate la lingua. Usa a ricevere appelli, ancor prima di conoscere la richiesta specifica e per risparmiare tempo, la lingua risponde interrogativa: "A parla', che te serve?". Udita l'istanza e generalmente disponibile (come pare fosse Caltagirone con Evangelisti), la lingua procura al(la) parlante il necessario, quanto "serve": un aggettivo, un avverbio, un nome e ogni altro genere di risorsa. 
Tutto accade ovviamente in un foro istantaneo e interiore. Con buona pace di quel pover'uomo di Émile Benveniste che, come in questo diario si è ricordato ora è qualche anno, provò a dire in proposito una parola di buonsenso. Ma, di nuovo, a che "serve" il buonsenso e, soprattutto, cosa può mai contro il senso comune?