15 giugno 2025

Linguistica da strapazzo (54): Congiuntivo? Ma mi faccia il piacere...

Le si chiamano parole e ci si immagina siano come le cose ordinarie del mondo o che, alle cose ordinarie del mondo, corrispondano idealmente. Nel loro piccolo, sono invece meri aggregati di relazioni. Rigorosamente. 
Sono tali d'altra parte anche le cose del mondo, se si esce dalla loro considerazione ingenua. Una prova, quanto alle parole, la si spiattella nei corsi elementari di linguistica. Tratta dalla faccetta in funzione della quale è più facile e immediato produrla. Spesso i discenti non ne intendono però la portata. Forse perché, a dire il vero, non la intendono nemmeno i docenti. A loro volta, discenti che, un tempo, non la intesero: la si chiama tradizione culturale ed è fatta appunto anche di incomprensioni.
Per la prova di cui si diceva, basta infatti una coppia minima, come la si considera in fonologia. Si prenda sera, per esempio. Si cambia un frammento, c- al posto di s-, e il risultato non è, come ci si potrebbe pure aspettare, la 'cosa' di prima con la piccola differenza del frammento mutato: insomma, una sera che comincia per c
Perché no? La parola in questione è composta da quattro segmenti, come, si ponga, un tavolo ha quattro piedi. Se, dei piedi di legno del tavolo, se ne mette via uno e al posto se ne inserisce uno di metallo, il tavolo non resta un tavolo? Certo che lo resta! Un tavolo, bruttino, con un piede di metallo e tre di legno. Punto. E invece, nel caso della parola, il risultato è una 'cosa' globalmente diversa. Incomparabile con ciò che era in partenza.
Si osservi: a meno che non si vada a caccia di rime in -éra ("Per molto tempo | diedi la cera | quasi ogni sera..."), poco importa che una parte, la parte in apparenza preponderante, delle due 'cose' così ottenute sia perfettamente eguale. Basta quella minima commutazione e esse entrano a comporre quadri diversi: pezzi instabili di un puzzle che si stabilizza mentre si fa, ma, stabilizzandosi precariamente, non smette mai di determinare i suoi elementi quanto a ciò che conta. 
Lo si dica tecnicamente, com'è possibile da poco più di un secolo: ciò che conta è la relazione tra signifié e signifiant. Se al secondo si può fare corrispondere significante, non si deve fare il catastrofico errore di pensare che il primo valga l'italiano significato, come sostantivo: come participio medio di significare, eventualmente, a cui del resto va ricondotto anche significante, con diatesi diversa e complementare. Ma queste sono sofisticazioni da autentici amatori...
Non c'è chi invece non veda come Passo di solito la cera con la lucidatrice e Passo di solito la sera con la lucidatrice indirizzino lo spirito verso fantasie differenti. Tutto in apparenza identico. Solo una c-al posto di una s-, ma, a catena e in modo inarrestabile, una catastrofe. 
E, sembra incredibile, ma c'è ancora chi pensa si possa parlare sensatamente della lingua, in ogni suo aspetto, senza tenere presente una rigorosa e sempre operativa nozione di sistema, quando, come si vede, basta una banalità del genere a squadernare fatti incomprensibili se non come effetti di rapporti sistematici. Diversamente, misteriosi, arcani, irragionevoli. 
Perché cera non è, si ponga, una sera incipiente? "La luce non se n'era ancora andata: era ancora solo cera...". E perché sera non è una cera molto scivolosa? "Il corso era in discesa e, dopo il passaggio vespertino della processione, il giorno dopo, la sera caduta sul selciato rendeva pericoloso il transito delle automobili" (fuori di sera, è l'ineccepibile descrizione di una circostanza reale e di un incidente occorso a chi scrive, ora è più di mezzo secolo in quel di Castellammare del Golfo). 
Ebbene, un frustolo di qualche giorno fa, facendo mostra di filosofeggiare (dissimulazione che capita Apollonio assegni alla bell'e meglio alle sue pedanterie), ha tirato fuori la piccola differenza formale che c'è tra Faccio così perché mi amano e Faccio così perché mi amino. Era una faccia del nocciolo di quel discorso. Causa o fine? S'immagini la zuffa in termini filosofici, quando si tratta di nozioni siffatte e della trovata che le coniuga: "causa finale", si sono inventati i filosofi fin dall'antichità. Nei crudi termini di una linguistica da strapazzo, è invece faccenda che si risolve in una coppia minima: amano e amino. Si pensi quanto pensiero c'è in una -i- e in una -a- che giocano ad alternarsi. 
Qualcuno dirà: e il congiuntivo? Non è il congiuntivo a fare quel gioco? Ecco affacciarsi l'idea che il congiuntivo valga appunto per sé. Chissà cos'è il congiuntivo, fuori di quello che fa credere una millenaria tradizione grammaticale che, per mettersi al carro di una corriva concezione del mondo, l'ha duplicata nella lingua con un'ontologia parafilosofica...
Ma, a dire il vero, non è nemmeno qui il bello della faccenda che stava nel cuore di quel frustolo pretestuoso. Proseguendo, vi si mostrava infatti che, ammesso che qualcosa come il congiuntivo esista, c'è congiuntivo e congiuntivo. ...perché mi amino e ...sebbene mi amino presentano infatti forme verbali identiche. Al congiuntivo. Ma si sbaglierebbe grossolanamente se si pensasse che, nella lingua, l'una vale quanto l'altra. 
Il valore dell'amino che segue perché viene precisamente dal fatto che al suo posto potrebbe trovarsi amano (e viceversa). È questo contrasto implicito che indirizza, da un lato, verso il 'fine', dall'altro, verso la 'causa' (per dirla come vogliono le grammatiche). Insomma, sopra un livello compositivo diverso, ...perché mi amano e ...perché mi amino manifestano lo stesso rapporto reciproco che corre tra sera e cera...perché mi amano e ...perché mi amino sono, sintatticamente, una coppia minima. 
L'amino che segue sebbene non è invece commutabile con amano. Meglio (e in modo ancora più rivelatore), lo è nei fatti, ma il risultato non è globalmente diverso, per signifié e signifiant; non c'è un ...sebbene mi amino 'concessivo' e un ...sebbene mi amano 'non-concessivo'. A passare da congiuntivo a indicativo, resta solo una piccola differenza locale: un tavolo con tre piedi di legno e uno di metallo, brutto a vedersi, ma nulla di più. Il risultato della commutazione si configura infatti come violazione di una norma, cioè come un errore; privo di correlati, nel sistema della lingua, e soltanto soggetto ad attirare sopra o sotto di sé il frego blu di un correttore umano o automatico.
Che valore linguistico ha allora il congiuntivo che segue sebbene? Come congiunzione di subordinazione, anche se è sostanzialmente equivalente a sebbene. Ma se a sebbene si sostituisce anche se, il rapporto tra i modi del verbo si capovolge: a ...sebbene mi amino corrisponde infatti ...anche se mi amano. E l'eventuale ...anche se mi amino finisce per essere una violazione della norma. Un errore, ma particolare. Una sorta di eccesso di zelo: un ipercorrettismo. E dunque? 
Dunque, amino ed amano, in questo caso tra loro non commutabili, valgono come effetti della combinazione da un lato con sebbene, dall'altro con anche se. In altre parole, congiuntivo e indicativo si equivalgono, nei contesti differenti: sono varianti combinatorie, elementi la cui presenza è determinata da qualcosa che li precede o li segue nella catena. 
Il rapporto tra amino e amano, tra congiuntivo e indicativo è simile in un caso siffatto a quello che passa la s-, sonora, di sbagliare e la s-, non-sonora, di spagliare. A determinare che l'una sia sonora e che l'altra non lo sia, nella catena, è l'assimilazione alla consonante che le segue. Ci deve essere una sorta di impalpabile assimilazione a produrre l'amino che segue sebbene e l'amano che segue anche se, dice il modestissimo esperimento.
Conseguenza? Di nuovo un costrutto concessivo: sebbene di forma identica, sebbene inseriti dalle grammatiche in tabelle morfologiche fondate appunto sulla forma, l'amino di ...perché mi amino e quello di ...sebbene mi amino, da un parte, e l'amano di ...perché mi amano e quello di ...anche se mi amano sono radicalmente diversi; sono pezzi diversi di composizioni diverse. 
Conclusione: congiuntivo? Sì, ma opposto a che cosa? Combinato con che cosa? Insomma, valori che sortiscono da rapporti sintagmatici e da rapporti paradigmatici e da niente, ma proprio niente altro. Se, alla ricerca di come sia fatta la vita, c'è allora un briciolo di etica nella scelta di subordinare causa e fine a qualcosa di più sottile, la lingua dimostra, con il gioco tra funzioni e forme, che tale etica non manca della sua faccetta teoretica.
Per quale causa o con quale fine nel frustolo già più volte citato e qui ancora lo si scrive? Lo si scrive. Sebbene, quantunque, benché, malgrado, nonostante, per quanto non ne valga la pena. O anche se non ne vale la pena:



12 giugno 2025

Ragionare per tratti (1): "Honoris causa"

...o ad honorem. L'uso degli atenei di concedere titoli accademici "per chiara fama o in riconoscimento di alti meriti" era piuttosto sporadico ancora negli anni, non remotissimi, in cui l'alter ego di Apollonio, giovane, si accostava all'accademia. E, come si intende, rarità e valore stavano in rapporto direttamente proporzionale. 
Pur se rara, la pratica non sfuggiva tuttavia alla rivelatrice tagliola del caustico spirito dell'ethos accademico di un tempo. E Apollonio udì in proposito un utile criterio di giudizio da un prezioso testimone di quell'ethos, a dire il vero, già allora sostanzialmente perento. Ma per tale ragione, tanto l'ethos, quanto il suo ormai sparuto testimone, ancora più cari ad Apollonio e all'alter ego, cultori di anticaglie. 
Considerandone l'intenzione (concetto della fenomenologia congeniale alle cogitazioni sperimentali di quell'uomo di scienza), un conto, diceva, è una laurea honoris causa che onora il laureato, un conto diverso è quella che (si ribadisce, nell'intenzione) onora chi la dà. 
Il cinema non era una passione di quel maestro, che ne aveva di più nobili. Lo è invece, con dilettantesca modestia, di Apollonio, come sanno i due lettori di questo diario. E a illustrare il secondo caso, ove fosse necessario un chiarimento, nulla soccorre meglio, ritiene Apollonio, dell'episodio con cui Federico Fellini, in Amarcord, rese conto del nomignolo che a Rimini era stato assegnato a una rilevante figura professionale della società cittadina: "la Gradisca". 
A ragionare per tratti, l'opposizione tra 'onore per chi la riceve' vs. 'onore per chi la dà' può dunque essere rappresentata come specificazione del tratto [α Gradisca]'. Il metodo ha d'altra parte il merito di definire anche i casi di neutralizzazione del tratto, tanto nell'evenienza, rarissima anche nel passato, di un onore reciproco, tanto in quella di un disonore reciproco e di norma, tra le pompe, completamente inconsapevole: circostanza che, di certe cerimonie, con il contributo dei media, amplifica l'involontaria comicità.
Diversamente da un tempo, oggi una laurea honoris causa pare non si neghi più a nessuno intorno al quale, per qualsivoglia ragione, il mondo abbia fatto un po' di chiasso. E, correlativamente, pare che, proprio alla maniera di quel professionale personaggio felliniano, qualsiasi istituzione accademica sia pronta a darla, ricavandone, ritiene, il relativo lustro: "...signor Principe, gradisca...".

[ Ove fosse necessario un ripasso: https://youtu.be/KfmwmEYP77A?si=4Z4aDGGUFi_qnv24 ]




1 giugno 2025

A frusto a frusto (143)


Non ci sono vizio e stortura che l'arte non sia in grado di riscattare. La prima cantica del poema dantesco lo prova incontestabilmente. Chi amerebbe altrimenti, per migliaia e migliaia di versi, le sortite furenti e indignate di un intollerabile moralista?

25 maggio 2025

"Sebbene", ancora

"Di tutti i beni terreni il migliore è non nascere | né avere mai visto gli ardenti raggi del sole, | e, nato, di passare al più presto le porte dell'Ade, | riposando sotto una spessa coltre di terra": disse più o meno questo il megarese Teognide, veridico, antipatico e impietoso, or sono quasi ventisei secoli (si tratta dei celebri versi 425-428 della sua prima elegia, secondo le edizioni correnti). Chissà quanti, prima di lui, lo pensarono e lo proferirono nei modi delle loro lingue e negli angoli più diversi del mondo. Senza la capacità di lasciarne una traccia per iscritto, però, come egli ebbe invece la ventura. Provvida e incongrua ventura.
Sulla sua scorta e come nobile tradizione, è infatti un'idea che hanno ribadita in tanti, enunciandola con accenti diversi ("...è funesto a chi nasce il dì natale"). E, se ci si pensa bene, tutte le volte che ciò è avvenuto e avviene, come qui con l'originale in figura e un'approssimativa resa italiana in esordio, lo si è fatto e lo si continua a fare ponendo l'enunciato e la sua enunciazione in un rapporto paradossale. È una testimonianza di vita (un martirio, ci sarebbe da dire con i Greci), che si manifesta per via gnomica negando valore alla vita: "E malgrado tutto, si è qui ad affermarlo ancora una volta".
Fini e cause hanno la parte del leone nelle argomentazioni. Si tratta, ragionevolmente, di ingredienti fondamentali ed endossali del "brodo di coltura" culturale che, antropologicamente, ha finito per imporsi in ogni dove. Dipinge se stesso, di conseguenza, come universale e, totalitario com'è, capita anche si spacci da "natura umana". 
Chi se ne nutre d'elezione, vi cresce e vi prolifera, qualsiasi cosa faccia, dice di farla per un motivo. Bel modo, motivo, per esprimersi in proposito. Ciò che muove all'azione è fine o causa? Che importa? Ambiguamente, importa che muova... Anche quando ci si interroga sugli altri: "E il movente?", appunto.
È facile immaginare allora come la congiunzione di subordinazione perché ricorra più frequentemente di molte altre, se non di tutte, anche grazie alla sua sfacciata ambiguità (che molto somiglia a quella di motivo), risolta, caso mai e contestualmente, dal modo del verbo che la segue: Faccio così perché mi amano / perché mi amino.
L'opposizione modale si neutralizza invece sotto la portata di sebbene (come di molti suoi sinonimi): ...sebbene mi amino. Ma si tratta, va precisato, di fatto formale più che funzionale. Si consideri infatti l'equivalente ...anche se mi amano, in cui la neutralizzazione si fa sotto altra forma. Il congiuntivo, l'indicativo non sono sempre la stessa cosa, come insegna la linguistica, la vera: in un caso come questo, sono varianti combinatorie. 
Nelle grammatiche, si dicono concessive queste correlazioni. L'etichetta somiglia a una vereconda cortina: copre infatti un'operazione concettuale e compositiva di ardua semplicità. Il suo paradosso si oppone in effetti al quel "brodo di coltura" endossale delle cause e dei fini. 
Anche per tale ragione, ciò che dicono sebbene e i suoi sinonimi pare ad Apollonio più profondamente umano, quindi più linguisticamente rivelatore del quid dell'agire degli esseri umani, del correlato esprimersi e, in fin dei conti, del loro essere al mondo, radicalmente contraddittorio. Con la sua enunciazione, Teognide l'enunciò e, come per contraddirsi ancora più apertamente, nel momento stesso in cui lo enunciava, lo scrisse, dandogli addirittura durata. 

22 maggio 2025

Sommessi commenti sull'Ultra-Moderno (9): L'Intelligenza Artificiale, all'osso

Un dì lontanissimo, chi impugnò un osso e osservò che esso rompeva un cranio in un attimo e molto meglio di come si potesse farlo a mani nude provò certamente uno stupefatto entusiasmo. 
È ragionevole pensare che tale sentimento non fu diverso da quello di chi oggidì, felice o atterrito, poco importa, descrive le capacità della cosiddetta Intelligenza Artificiale nel compiere azioni che eccedono le consuete misure umane. 
Azioni siffatte vengono perciò spacciate come oltre-umane e persino come sovrumane. In realtà sono solo umane in eccesso. Sono troppo umane. Tendono moralmente di conseguenza verso quel ridicolo che si intreccia inscindibilmente con la tragedia.
E anche se l'Intelligenza Artificiale, come si dice, presto comincerà ad andare veramente da sé (c'è chi dice lo faccia già), tutto ciò che farà sarà, soltanto ingigantito, ciò che è tipico, nel bene, del poco acume e, nel male, dalla tanta stupidità della specie. Sempre ammettendo che i due àmbiti siano veramente distinguibili (à suivre).

20 maggio 2025

Sommessi commenti sull'Ultra-Moderno (8): "La serie"

Da qualche tempo e in un modo che pare al momento ineluttabile, i cosiddetti consumi culturali sono stati sommersi dalla marea della serialità. 
Ci si intenda, la serialità è un carattere specifico della temperie moderna. Ma "la serie", come ormai si usa dire, ha preso da qualche tempo i caratteri di un vero e proprio feticcio. È, conformisticamente, il modulo destinato a un'iterazione. 
Capita anche ad Apollonio di iterare, se si vuole dire così, i suoi consumi culturali. Ma preferisce allora gli incontri nuovi e singolari, quelli che (magari senza farcela, ci si intenda) si annunciano come compiuti e irripetibili. O come ripetibili ma non perché giocano sull'incompiutezza e profittano così della debolezza che sortisce dall'insoddisfazione di chi è preso all'amo del momentaneo soddisfacimento procurato da una dose. È l'estenuazione morale di una assuefazione morbosa o di una succube fidelizzazione: nello spirito del tempo, "tout se tient". Non sarebbe altrimenti lo spirito di un tempo cui il pusher, con le sue varianti, fa da emblema.
Senza pretesa di proporre chissà quale scoperta, questo frustolo suggerisce allora ai suoi due lettori di fermarsi per un attimo a guardare di sguincio il fenomeno della serialità nei consumi culturali: molto meno banale di ciò che pare, nella prospettiva ideologica. 
Sempre che sia ancora possibile e che chi sta leggendo non sia già anche lui o lei al fondo degli esiti liquidi di questo diluvio. Al fondo come un sasso, per via della pietrificazione che consegue dall'avere incrociato lo sguardo con la Gorgone.

 

16 maggio 2025

Come cambiano le lingue (20): "...non mi è stato paventato neanche per sbaglio di offrirmela..."

I segni che paventare fosse venuto a trovarsi nell'area di una frana linguistica rimontano perlomeno a or sono quattro lustri. Chissà come, chissà perché. Vicende linguistiche del genere illustrano infatti alla perfezione cosa sia un accidente. Dicono come capita appunto che qualcosa si verifichi inopinatamente. E d'altra parte illustrano come, davanti a un accidente, venga quasi sempre in mente che anche la vittima sia corresponsabile, che "se la sia andata a cercare", per dire così.
Intendiamoci: non si stanno attribuendo a una parola una (fantasiosa) disattenzione, una (misteriosa) volontà o un (perverso) desiderio. Al contrario, ci si sta chiedendo se a un essere umano, rispetto a ciò che gli capita, più spesso di quanto non si creda, non possa essere attribuita la stessa innocenza di cui si fa credito a una parola. Se non siano stati appunto il suo banale aspetto, la sua ingenua esistenza a cacciarlo in un guaio inatteso, come quello che, di botto, travolge una parola.
Il caso di paventare pare proprio di tal fatta. Un verbo dall'aria seria e pulita. Dall'uso raro e cólto. Dalla forma piana, però, e quindi particolarmente indifesa, con una coniugazione elementare e accessibile a chiunque. Pronta quindi per essere infilata nelle insalate con cui la lingua che si pretende ufficiale, tra burocrazia e politica, prova a darsi un tono. 
Orecchiato e incerto, infine, per la maggioranza, il suo valore. Non si dice "il significato": concetto sempre molto equivoco e soprattutto fuorviante, dal momento che induce a credere che una parola l'abbia per se stessa, quando invece il suo valore viene fuori per via delle relazioni di combinazione e di commutazione in cui essa entra. 
Insomma, c'è tutto per dire che paventare "se la sia andata a cercare", che fosse la vittima perfetta per le cattive intenzioni di chi volesse servirsene a suo piacimento, usandole violenza.
Già nel 2011, l'Accademia della Crusca, sollecitata in proposito, rispondeva pertanto allarmata, davanti a un caso ancora tutto sommato banale. E dopo un quinquennio, un celebre e attento osservatore delle forme espressive e comunicative nazionali scriveva: "Nel caso di paventare, converrà predisporsi alla rassegnazione". Lo faceva in uno scritto, dal titolo "Non avere paura, mettere paura / «Paventare» si è spostato". Dottamente, Cassandra vi compariva come prosopopea del buono e integro paventare d'un dì e oggetto di interesse erano, per contrasto, i paventare già in degrado esposti, come si diceva, dal discorso politico. 
Che ci fosse una frana era dunque da gran tempo evidente, ma oggi - si ha l'impressione - se ne possono osservare spettacolari sviluppi. Lo spostamento si è spinto molto avanti, come in effetti era prevedibile. Finita nello smottamento, una parola la si ritrova a valle. Il passaggio da 'avere paura' a 'mettere paura' è già di ieri. Oggi, nella Umgangssprache delle reti sociali, si è a un sinonimo di prospettare, quindi a una vox media, pari pari. 
L'immagine in alto esibisce un caso esemplare. Lo si è colto in una rete sociale, sotto la penna, si sarebbe detto un giorno, ora, meglio, sotto le dita di "un giornalista, scrittore, conduttore radiofonico e autore televisivo", recita la voce che Wikipedia dedica opportunamente al personaggio pubblico. Alla ricerca di un esempio, meglio di così, insomma, non si sarebbe potuto trovare, per i connotati enunciativi di rilievo. 
Si tratta infatti di un interprete perfetto della lingua come deve essere, della lingua di tendenza, che si esprime in una sede in cui si fa tendenza e in cui la tendenza si specchia, compiacendosi di se medesima. Da quel post, che ovviamente lo registra, verrà in effetti ancora una spinta al nuovo paventare, per via del gran numero di seguaci. 
E si conferma, caso mai ce ne fosse bisogno, che agenti del cambiamento linguistico vengono, come sempre, dal ceto semi-cólto: è insomma gente che scrive di letteratura e sui giornali, conduce spettacoli, presenta libri e, agitandosi nel mondo, coglie e fomenta i suoi andazzi.
Apollonio, come sanno i suoi due lettori, non è un aristarco. Non mena scandalo davanti ai cambiamenti. Non ha simpatia per chi lo fa e capita che di costoro rida. I reazionari non se ne rendono conto, ma sono solo un (marginale e spesso doloroso) effetto collaterale di ciò contro cui reagiscono e che, come testimonia per paradosso la loro medesima reazione, ha già evidentemente acquisito l'insopprimibile privilegio dell'esistenza: è insomma un dato osservabile della realtà.
L'ethos di questo frustolo è pertanto meramente documentario. Come cambiano le lingue, appunto: tema appassionante, da una prospettiva teoretica (e, da una etica, succulento; se il mondo non cambiasse, come se ne vedrebbero le comiche magagne?). La speranza è che, un giorno, il reperto renda un po' felice, come documento, chi farà ancora modesta professione di filologia, anche se Apollonio paventa che alla futile disciplina la tendenza non riservi un futuro.

11 maggio 2025

Sommessi commenti sull'Ultra-moderno (7): Quantità e qualità

Il tema è frusto e imponente. Questo frustolo non pretende certo di riscattarlo dal suo difetto né di esaurirne la taglia. Segnala soltanto, argomentando alla buona e molto rapidamente in proposito, che la e con cui, nell'espressione comune, si copulano le due nozioni cela la condizione ottimale per un malinteso. 
Il malinteso non è solo da ieri corrente, ovviamente, ma oggi è ben più che corrente in ogni dove, anche dove un dì sarebbe stato impensabile. E condizione assoluta per stabilire valori ed enunciare verità è che si siano contati i tokens, personalmente o, come è ormai pigra norma, affidando il compito a una macchina. Come se la macchina non rispecchiasse ciecamente e alla perfezione l'ordine umano che l'ha istituita e non fosse, eventualmente, scema come colui o colei che se ne serve.
Testualmente presentate come lo sono nel titolo, quantità e qualità si trovano in effetti a essere congiunte sopra un piede di parità. I due lettori di questo diario troveranno oltraggioso che Apollonio ricordi loro cosa è e. E che li inviti a considerare come, nei suoi usi banali (come è appunto in apparenza quello in esame), la congiunzione abbia l'ufficio di coordinare parole equipollenti. Equipollenti nella forma e nella funzione sintattica in maniera che si presta bene a equipollente interpretazione (o, come capita di sentire dire, senso, significato e così via: come si sa, in proposito non ci sono limiti all'invenzione).
Come fossero due tratti, quantità e qualità passano così come caratterizzazioni di egual peso da attribuire a ciò che, si ponga, si intende valutare. E non solo di egual peso, che già sarebbe una prospettiva meritevole di attento esame critico, ma soprattutto, nella loro fondamentale eguaglianza, atte ciascuna a qualificare indipendentemente, l'una senza l'altra, ciò cui si applicano. 
Qualificare: si faccia attenzione. Perché la lingua medesima svela a questo punto il malinteso e dice che tra quantità e qualità non c'è parità di livello ma, per dire così, gerarchia, organizzazione, sistema. Contare le ricorrenze di qualcosa è qualificarlo dalla prospettiva quantitativa. Attribuire a qualcosa una qualità è invece indipendente da qualsiasi quantificazione (ovviamente, a meno che, con una tautologia, la qualità in questione non sia una quantità). 
Indipendente in questa sede vale a dire che, nella determinazione di una qualità, qualsivoglia essa sia, l'atto di qualificare impegna chi lo compie teoreticamente e, si dirà, eticamente. Investe infatti tanto la sua dottrina, la sua capacità di discernere, quanto la sua responsabilità, quindi è cartina di tornasole della sua buona o malafede. Sono questi, com'è appena il caso di dire, ingredienti indispensabili della libertà umana. Affidata alle qualificazioni di mera quantità, la libertà umana può solo perire. 
Ma è già gravemente ammalata (e lo è - lo si ribadisce a scanso di equivoci - non da oggi) quando la coppia quantità e qualità circola, a fondamento dei pensieri e dei comportamenti, come se si trattasse di un accostamento alla pari. Una prospettiva foriera di un malinteso, come si è detto, se non pronta per un vero e proprio imbroglio, a uso di malintenzionati e malintenzionate, che non mancano mai tra gli esseri umani, non tanto quantitativamente, appunto, quanto qualitativamente.       

9 maggio 2025

Spettatore pagante (9): "Black bag" di Steven Soderbergh

Black
 e nero, bag e borsa sono parole che, grosso modo, corrispondono l'una all'altra nel lessico delle lingue da cui sono prese. Combinandosi, possono pure mantenersi piattamente denotative, tanto in inglese, quanto in italiano. Ma capita anche che scivolino figurativamente verso la connotazione e a quel punto, divenute insiemi compatti, prendono valori completamente diversi nelle due lingue. Rientrano insomma nel lessico come locuzioni: sequenze in cui, come nella poesia, secondo Roman Jakobson, la combinazione, cioè il rapporto sintagmatico, annichilisce la similarità, cioè l'eventuale commutazione paradigmatica. E la locuzione borsa nera non ha a quel punto niente da spartire con la locuzione black bag, comparsa, a quanto pare, or sono più o meno settanta anni, nella lingua speciale dell'intelligence, come ormai si dice comunemente in giro per il mondo. L'Oxford English Dictionary, a proposito di black bag, chiosa: "Designating a covert intelligence operation..." e procura anche un'attestazione.
Ecco il problema che ha dovuto risolvere chi ha curato la distribuzione in Italia del recente film sceneggiato da David Koepp e diretto da Steven Soderbergh. Il titolo originale della pellicola suona Black bag. Come mandarlo allora nelle sale italiane, senza evocare impropriamente borsa nera e dicendo di  cosa si tratta?
Ne è venuto fuori un compromesso: Black bag - Doppio gioco. All'originale è stata aggiunta un'ulteriore locuzione, come spiegazione. L'allusione è al campo semantico della fabula, utile a richiamare il pubblico e a collocare il film in un genere. Sullo schermo scorrono vicende che impegnano appunto persone professionalmente addette all'intelligence e alle azioni conseguenti. Ma la nuova locuzione è parecchio fuorviante, quanto al tema autentico del film.
Con doppio gioco si qualifica infatti la pratica di chi, in segretezza all'apparente servizio di una entità politica, presta in realtà il medesimo servizio a un'entità politica diversa e ostile alla prima. Non è il caso di nessuna figura del film di Soderbergh. Tutti e tutte lavorano a Londra per la maggiore gloria della Corona britannica. Lo fanno però con idee e progetti materiali differenti e, soprattutto, con un serpeggiante antagonismo reciproco. Questo sì celato sotto i modi della collaborazione e della colleganza, se non dell'amicizia e persino dell'amore. E, in correlazione con amore e amicizia, sotto i modi dell'opposizione tra fedeltà e infedeltà, tra verità e menzogna. Ecco la materia che agita la pellicola: combinazione e similarità; sintagmatica e paradigmatica.
Personaggi di opportuno supporto alla costruzione dell'intreccio fanno da contorno. Ma si tratta essenzialmente di ciò che succede fra tre coppie: tre donne e tre uomini. Ciascuna intreccia rapporti personali e professionali in apparenza semplici, in realtà piuttosto composti nella definizione delle reciproche unioni, quindi delle combinazioni, e delle eventuali commutazioni.
Lo si scopre via via che la narrazione procede e non si toglierà a chi legge queste note il piacere di vedere personalmente in sala come ciò avviene. Black bag è infatti una pellicola consigliabile: classicamente molto ben fatta, tanto negli aspetti diegetici quanto in quelli più specificamente cinematografici. Non vi mancano sequenze che, ispirandosi idealmente a modelli memorabili, aspirano esse stesse alla memorabilità.
Il protagonista impersona un ossimoro: ha una passione ma la esercita in modo freddo e razionale. Le motivazioni psicologiche di tale attitudine sono profonde e dolorose, si apprende di passaggio. Non sono edipicamente estranee al disordine di una menzogna nella sua famiglia di origine. La menzogna è quanto in più di un'occasione il personaggio dichiara di spregiare massimamente. Michael Fassbender presta in proposito un'interpretazione impeccabile.
Oggetto di quella passione, ricambiata, è la protagonista. Nel ruolo, Cate Blanchett, colta spesso in primi piani e in posture che ricordano grandi interpreti in opere di grandi registi del passato. Il personaggio fa da innesco della macchina narrativa. E d'altra parte a lei si devono il solo efficace uso personale di un'arma da fuoco e, come mandante, il solo scoppio che ricorre nella pellicola. Una donna elegante ed esplosiva.
Anche ciò dice come Black bag non sia ascrivibile alla corriva cinematografia di tema spionistico, in cui atti violenti e spettacolari scene di azione spesseggiano. Il film fa invece concessioni indispensabili, considerata l'aria del tempo, all'incombenza del controllo universale assicurato materialmente dalla tecnologia e spiritualmente dalla psicologia; ingrediente, quest'ultimo, che non manca di precedenti illustri, come si sa, nella storia del thriller.
Qual sia il black bag che fa da perno all'intreccio viene subito reso esplicito ma il suo recto lineare quanto enigmatico cela nel verso pieghe perverse e articolazioni inattese. Sono tutte riconducibili all'ambiguità della quarta persona grammaticale: 'noi'. Si tratta, come si è detto, di rapporti personali (amicizie, o presunte tali, e amori, o presunti tali) e 'noi', dei rapporti personali, in modo aperto o coperto, è l'architrave.
Il filo concettuale e narrativo del film appare a nudo in un momento rivelatore. A un dipresso (queste note pescano nella memoria di un semplice spettatore in sala), "Noi sappiamo dunque che non è stata tua moglie..." dice un personaggio al protagonista; è un dialogo cruciale, perché, nella prospettiva di quest'ultimo, il garbuglio si sta finalmente sciogliendo. E il protagonista di rimando: "Noi, chi?". Colto di sorpresa dalla sottile inquisizione, "Noi... tu ed io", risponde colui che ha incautamente proferito lo scabroso pronome: un vero e proprio lapsus. Nella sua spiegazione, è quindi un 'noi' che si presenta come inclusivo. Un 'noi' che include chi lo proferisce, ovviamente, ma anche chi, in linea di principio, lo subisce.
Orbene, nulla come un 'noi' inclusivo si presta bene a ingannare i gonzi, che vi finiscono dentro inconsapevoli, come dentro una trappola. Ma nulla più di un 'noi' inclusivo dichiara di essere una trappola a chi gonzo non è, a chi invece sa vedervi dentro e, del black bag, ha appunto intelligenza, etimologicamente.
Nell'attimo di quella titubanza c'è il decisivo annuncio della catastrofe e di chi ne finirà vittima. Un 'noi' saldissimo come una locuzione e senza menzogna, pur messo duramente alla prova da una contingente reticenza, smaschera i 'noi' effimeri e bugiardi che hanno attentato alla sua coesione. E quel 'noi' procede, in conclusione, a riaffermarsi, come una locuzione appunto, come una frase fatta o come il verso di una poesia. E annichilisce tutti i 'noi' concorrenti, sortiti da combinazioni finalmente accidentali, anche se volontaristicamente ordite. Un 'noi' da averne ammirata paura è forse il paradossale stigma finale del film.

1 maggio 2025

Caratteri (25)



Ottusamente, ciò che non capisce gli pare un errore. Dottamente, se ne impanca a giudice. Perversamente, gode al pensiero di correggerlo.

23 aprile 2025

Lingua nostra (15): "Computer" (e Marco Fabio Quintiliano)

Con l'aggeggio che chiama computer, Apollonio fa molto raramente ciò che quel nome pare indicare si faccia d'elezione: calcolare. E scommette che un gran numero di coloro che leggono questo diario siano nella medesima condizione. Usano intensamente un computer, ma piuttosto raramente per fare o fargli fare calcoli. 
Come prestito, ormai ben più che acclimatato, computer è parola rimbalzata in italiano dall'inglese negli ultimi decenni del Novecento: è appena il caso di dirlo. Ha morfologia da nomen agentis, opaca però fuori del gruppo germanico. In inglese, a sua volta il verbo relativo era arrivato per trafila dotta (prima attestazione, pare, verso la fine del Cinquecento), esemplato sul latino computo 'io calcolo'. Computer vale insomma 'calcolatore', né più né meno.
Anch'esso nomen agentis, anch'esso derivato da un verbo, l'italiano calcolatore avrebbe fatto dunque il suo mestiere degnamente come nome del medesimo aggeggio, se la concorrenza di computer non l'avesse annichilito. 
Nella produzione e nel commercio delle parole, lo si dirà un caso di dumping lessicale? È d'altra parte più o meno quanto è accaduto a pellicola con film, perlomeno nel discorso cinematografico. Ambedue sono in ogni caso esempi perspicui di designazioni ottenute grazie a una procedura metonimica: il supporto materiale per quanto di spirituale vi si trova supportato.
Di calcolatore, Apollonio ricorda come fosse sufficientemente in uso ancora sul principio degli anni Ottanta del secolo scorso, perlomeno per i grandi impianti aziendali o universitari. L'arrivo dell'informatica personale e di massa ha deciso la partita. Ormai non c'è più quasi nessuno che lo calcoli, calcolatore. Ancora più sfortunato si è rivelato il presto scomparso elaboratore.
Come film rispetto a pellicolacomputer è meno trasparente di calcolatore, per chi vive in italiano. E anche ciò deve avere decretato l'opposta fortuna dell'uno e dell'altro. Perché una parola si imponga, non è detto sia un bene che si capisca cosa vuole dire. E i prestiti, con la loro aura misteriosa e affascinante, stanno lì proprio a fare questo. Capita appunto che talvolta aiutino a non capire cosa si ode e persino cosa si dice. Ed è questa una condizione che, non paia un paradosso, rende quasi sempre più fluida ed efficace la comunicazione. Chiedere in proposito a chi fa usi pubblici della parola, come accade in politica o nella pubblicità... Parere chiari è ben diverso da essere chiari.
Andata come è andata tra computer e suoi concorrenti fatti in casa e finiti fuori del mercato, resta che - lo si diceva sul principio - computo e calcolo hanno spazi e tempi marginali nell'uso popolare e universale della macchina così designata. C'è chi ci scrive, c'è chi ci gioca, c'è chi ci tiene conversazioni e rapporti, c'è chi ci si intrattiene con spettacoli d'ogni sorta, c'è chi ci si informa, c'è chi ci studia e così via. C'è soprattutto chi con esso svolge tutte queste attività e ancora molte altre: dagli acquisti alle prenotazioni, dalle scommesse all'adescamento, dai furti ai ricatti, dallo spionaggio alla guerra. 
Tutte, lo si sa, corrispondono a calcoli dentro la macchina, ma sarebbero guai se la macchina le presentasse appunto come tali. Sicché computer o, se ancora lo si considera, calcolatore finiscono per essere, a ben vedere, bizzarre designazioni metonimiche. O perché valgono per il tutto, mentre sono giustificate da una parte dell'uso. O perché nascono da una sostanza algoritmica invisibile e si applicano ad apparenze multiformi che fanno tutte da cortina di quella sostanza. 
Non era così, per fare un paio di esempi, né per macchina da scrivere né per calcolatrice, designazioni di due arnesi meccanici che infanzia e adolescenza di Apollonio ebbero carissimi (né è il caso di dire perché) e che il computer ha ingoiato, senza sputarne una sola rotella.
Il fatto è che, nelle lingue, cose che motivino adeguatamente, per ciò che sono e che fanno, i nomi con cui le si chiama ce ne sono infine meno di quanto si creda. E non da oggi, visto che in proposito si conoscono ammonimenti già da parte di Quintiliano: "Transfertur ergo nomen aut uerbum ex eo loco in quo proprium est in eum in quo aut proprium deest aut tralatum proprio melius est. Id facimus aut quia necesse est aut quia significantius est aut, ut dixi, quia decentius".
Bisogna dunque che ci si rassegni: il lessico è un cafarnao di tropi e capita spesso che il princisbecco vi passi per oro colato. Il recente acronimo AI è caso paradigmatico, ma si è già approfittato troppo della pazienza di chi legge per non lasciarlo per intero alla sua personale ed intima riflessione.

14 aprile 2025

"Morte cerebrale" e "clinicamente morto": scherzi della lingua

"Kentucky man declared brain dead 'woke up' during organ harvesting": la notizia è stagionata e la fonte affidabile. Potrà agevolmente verificarlo chi legge, se segue il collegamento. 
Apollonio non ha nulla da dire nel merito. A stento può esprimersi sulle quisquilie oggetto di una lunga militanza, condivisa con il suo alter ego. E il pezzo giornalistico in questione stava appunto in una cartella in cui si trovano, gettati a casaccio, reperti di accidentali letture. Da lì, lo si sta qui riesumando, per una considerazione marginale e di stretta (im)pertinenza linguistica.
Mesi fa, mutatis mutandis, questo pezzo ricordò infatti ad Apollonio un celebre aneddoto narrato da Benjamin Lee Whorf e presente in pubblicazioni divulgative della disciplina, oltre che in suoi corsi di base. 
L'espressione empty drums - raccontò Whorf, che aveva lavorato per una società assicuratrice specializzata nel settore degli incendi industriali - aveva convinto un poveraccio qualsiasi che accendere una sigaretta accanto a quei fusti non fosse controindicato. 
Per ignoranza, costui era inconsapevole del fatto che, utilizzati per il trasporto di liquidi combustibili, pur svuotati dei liquidi, i fusti erano in ogni caso colmi dei vapori correlati, vapori molto infiammabili, e quindi tali da rendere i fusti vuoti pericolosi perlomeno quanto i pieni. Ne era conseguito un disastroso incendio.
Non sono certo dei poveracci e degli ignoranti coloro che si servono, dicono, a ragion veduta, di espressioni come morte cerebrale o clinicamente morto e, servendosene, se ne determinano per compiere le relative azioni. Tuttavia l'effetto rischia di essere comparabile con quello descritto da Whorf (c'è da sperare, solo sporadicamente). Non c'è espressione infatti, anche la più tecnica, che non porti con sé un punto di vista.
E non c'è di conseguenza livello di sofisticazione della cultura umana, in cui la lingua, feroce, non possa prendersi gioco di chi s'illude di padroneggiarla, facendone una fredda terminologia. In cui la lingua non possa di conseguenza fare scherzi irreparabili a un illuso padrone e alle incolpevoli vittime della sua presunzione. Perché, come ci sono fusti che capita di dire vuoti, quando sono regolarmente pieni, ci sono persone che capita di dire morte, quando invece, anche fosse solo per un imprevedibile accidente, non lo sono.

3 aprile 2025

"L'isola di Ferdinando" si rinnova

 



Apollonio dà qui spazio e parola al suo alter ego che, con il determinante aiuto delle Edizioni ETS di Pisa, rinnova la collana L'isola di Ferdinando. Ecco il suo nuovo manifesto. La prima epifania della nuova serie è prevista a giorni (un indizio? Questo frustolo, con il suo annuncio, esce oggi, giorno nel quale la Chiesa di Roma ricorda Riccardo di Chichester).



 

1 aprile 2025

Discenti e docenti: osmosi

Confida ad Apollonio il suo alter ego di avere remore ad associarsi ai dolenti accenti che sente spesseggiare sopra la qualità dei giovani e delle giovani che frequentano oggi i più alti livelli dell'istruzione nazionale.  
Si astiene dal farlo anche perché trova che accenti simili, eventualmente sotto la comica forma di amaro dileggio, si estenderebbero anche a coloro che frequentano quei livelli da docenti. Come per i discenti, ovviamente il giudizio comporterebbe eccezioni, valendo solo ut in pluribus, per dirla con una formula del latino universitario medioevale.
A determinare il suo silenzio in proposito è dunque la considerazione che, siano come siano, docenti e discenti sono semplicemente conformi tra loro e conformi al loro ambiente. Si e gli corrispondono e vi si equilibrano per osmosi, com'è sempre stato. D'altra parte, si potrebbe altrimenti?

30 marzo 2025

29 marzo 2025

Linguistica candida (74): Perché disperare...

Con la lingua si dice il vero e il falso ma, più spesso di quanto si creda, né l'uno né l'altro. Con la lingua ci si comporta in modo conforme a una norma e difforme da essa ma, più spesso di quanto si creda, né nell'uno né nell'altro. 
Prima di tutto e sempre, la lingua è espressione e come tale si può provare a conoscerla, facendola oggetto di una scienza ragionevole, soprattutto in quanto covata dalla lingua medesima. 
Un giorno o l'altro, filosofi e grammatici di tutti i generi e di tutte le specie dovrebbero accorgersene. Ma andrebbe contro i loro interessi. Potrebbe infatti conseguirne la fine di signorie che somigliano a usurpazioni. 
E in ogni caso, a considerare la storia millenaria della civiltà e, in scala minore ma molto probante, quella degli ultimi due secoli, prima ancora di disperare della loro probità, c'è da farlo del loro acume. 

23 marzo 2025

Caratteri (23)


C'è chi l'accusa d'essere una banderuola. Sbaglia. Non ne ha rettamente inteso la linea di condotta, specchiata e inflessibile: dire a ciascuno ciò che ciascuno ama sentirsi dire. 

20 marzo 2025

Di "se stesso"

Tra coloro che benevolmente leggono questo diario, c'è chi ha osservato che il titolo del frustolo immediatamente precedente dichiara una scelta ortografica e, interpretandolo come un segno, ne ha chiesto ragione ad Apollonio.
Non c'è tema comparso in questo diario che non sia una quisquilia: stanno lì la sua forza e la ragione della sua esistenza, ritiene vanitosamente chi lo tiene in vita.
Anche alle quisquilie c'è però un limite. E quella ortografica che concerne eventualmente il titolo in questione oltrepassa il limite e di molto. Non è nemmeno tra quelle che, con Galileo, si definirebbero "di lana caprina". Si spinge con vertiginosa temerarietà verso la nullità assoluta, verso il Néant
Può così farne oggetto di giudizio e di opinione solo chi riempie con la debordante pienezza della sua figura un vuoto privo persino di un'eco. 
Non è appunto il caso di Apollonio. Non sono lui e il suo parere a dare valore alle quisquilie con cui perde il suo tempo. Sono tali quisquilie a dargli, caso mai, la fantasmatica consistenza che può vantare.
In conclusione: Apollonio scrive se stesso. E continuerà a farlo. Non è un'opinione. È un comportamento.  

19 marzo 2025

Di se stesso



Il piacere sopraffino che gli procura accompagnare un pezzo di pane con qualche oliva dà a chi scrive queste righe, riflessivamente, la migliore idea di chi sia e di donde venga.  

16 marzo 2025

Linguistica candida (74): Il Cielo guardi lingua, lingue e parlanti...

Venendo al mondo, una creatura della specie umana, tra il molto altro, incappa in una lingua di cui non sa nulla. Ma, umana com'è, è predisposta alla lingua (cioè a esprimersi) e con la lingua particolare in cui è incappata si accostuma in brevissimo tempo alla perfezione. Si accostuma in altre parole con un particolare sviluppo culturale della sua natura.
Si immagini allora, solo per un momento, che per assolvere a tale compito, cruciale per la sua sopravvivenza, essa fosse invece immediatamente affidata a cure e spiegazioni con le quali, per tradizione, si dottrineggia e si soloneggia sopra quella lingua in particolare o sopra ogni altra. La creatura non capirebbe nulla e sarebbe destinata, se non all'afasia, a gravi disturbi del comportamento espressivo e comunicativo.
Già solo a immaginarlo, che, per il suo sviluppo linguistico, sin dalla più tenera età, una creatura possa trovarsi in balia di un indottrinamento grammaticale provoca un'istintiva repulsione, anche a chi non ha letto le spassose pagine che l'Erasmo qui rappresentato dedica a deridere la follia di grammatici e grammatiche (già comico, in effetti, a dirlo così, per il gioco del genere). E si può stare certi che una madre grammatica o un padre grammatico, esprimendosi e comunicando con la propria creatura, depongono ogni superfetazione dottrinale e ricorrono, senza nemmeno pensarci, alla loro natura culturale. Parlano, non fanno sfoggio di precetti o di spiegazioni.
In effetti, a chi, predisposto, l'ascolta in una lingua qualsiasi, la lingua si spiega da sé. Anzi, si può dire che questa sia la caratteristica principale della lingua: la sua mirabile capacità di spiegarsi, senza, per dire così, intervento umano. Priva di tale capacità, se ci si pensa, la facoltà della specie di esprimersi, ammesso ci fosse stata in origine, si sarebbe rapidamente spenta. E a nulla sarebbero valsi, in proposito, grammatici e grammatiche. 
Di costoro, a lungo l'umanità ha fatto certamente a meno, senza danni, per la permanenza e lo sviluppo delle sue molteplici espressioni linguistiche. E c'è da ritenere che, nella vicenda dell'umanità, ci siano state lingue che hanno attraversato millenni di storia senza che a nessuno venisse in mente di farle oggetto di grammatiche. In altre parole, di un costrutto culturale che in effetti porta inscritto nel suo stesso nome la dipendenza da una tecnologia nata da poco: la scrittura. A qual pro perdere il proprio tempo con qualcosa cui la natura culturale degli esseri umani provvede ottimamente da sé medesima?
Agli esseri umani, come si sa, il fato ha tuttavia dato di complicarsi la vita, sotto pretesa di migliorarsela. In inespiabile pena o, in mancanza di meglio, in ragione di gioia. E, ammesso che per un breve momento una fase precedente sia esistita, non si è più ovviamente in una siffatta età dell'oro. L'età dell'oro della lingua rinasce tuttavia ogni volta che una creatura viene al mondo, come si è detto, e non bisogna perciò scordarsi che così stanno fondamentalmente le cose, con la lingua e con le lingue. 
Ne consegue allora che, nel mondo come è venuto fatto, inesorabilmente, l'unico insegnamento grammaticale sensato, con il procedere di un essere umano verso una personale e augurabile maturità, consisterebbe in un nobile "conosci te stesso, quando ti esprimi e comunichi". O, come variante, in un consapevolmente disperato "tenta di sapere almeno un po' cosa fai, quando ti esprimi e comunichi". O ancora, con spirito più illusoriamente prometeico, in un "prova coscientemente a padroneggiare a tua volta ciò in cui sei penetrato nascendo e che da quando vivi, senza che tu lo sappia, ti padroneggia e ti permette di sopravvivere". 
Ecco a cosa lavora, se ha un po' di sale in zucca, chi consacra la sua attenzione a lingua e lingue. E fu questo, per una breve stagione (oggi trascorsa), il vero programma della linguistica, nella qualità di disciplina ragionevolmente scientifica, quando essa provò a riscattarsi dall'erudizione che le aveva fatto da utero indispensabile, ma a lungo andare (e a rimanervi oltre il dovuto) malsano e mortifero. 
Come altre volte qui s'è scritto, sono infatti lingua e lingue a spiegare eventualmente quei bizzarri costrutti concettuali, trasformati sovente in cervellotici precetti di comportamento, che vengono detti grammatiche. E il Cielo guardi lingua, lingue e parlanti da chi crede il contrario. Non perché costui o costei possa nulla, in realtà, ma perché la sua rabbia impotente diventa ragione, per lingua, lingue e parlanti, di inutile, contingente infelicità. 

9 marzo 2025

Del "Gattopardo" in serie...

...Apollonio ha poco da dire. E ne ha anche meno il suo alter ego che intrattiene con il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (e con altre sue pagine) un rapporto di lunga fedeltà e di mai esausta goduria. Riflessi ne ha procurato, nei suoi venti anni, questo diario. Chi volesse verificare può inserire nella piccola casella in alto a sinistra, destinata alla ricerca, "gattopardo", "lampedusa", "tancredi" o "fabrizio", per esempio. Ne avrà esiti copiosi. 
Con quasi cinquemila e seicento contatti (non si osa dire letture), il frustolo "Quanti figli ha Fabrizio?", dell'undici febbraio 2009, è forse il più fortunato dei mille e cento che si sono qui accumulati sopra ogni sorta di futile tema. Un numero straordinario per un'impresa culturale nemmeno artigianale, ma meramente dilettantesca e individuale come è questo blog. Merito, ovviamente, di Lampedusa. 
Una predilezione, se non una dipendenza siffatta di Apollonio e alter ego è nota a più sodali. Ne è venuto da parte loro un invito, meglio, quasi un ordine a seguire la serie televisiva che, prendendo a pretesto l'opera di Lampedusa, Netflix, la gigantesca società statunitense che opera nel mercato globale dell'intrattenimento, ha prodotto l'anno scorso e ha immesso in queste settimane sul mercato italiano. Non solo a seguirla, ma anche a dirne. Di comune accordo, Apollonio e alter ego disobbediscono. Pensano non ne valga la pena. 
Si fidano in proposito di un buono, vecchio e malmostoso amico. Nanni Moretti. Ci s'intenda: amico non simmetrico e solo ideale. Con cui è capitato talvolta di intrattenere uno spassoso e ironico dialogo, altrettanto ideale. Sopra qualsivoglia produzione di Netflix, da lui è in effetti venuto, or sono pochi anni, negli opportuni modi dell'arte, un giudizio definitivo:



4 marzo 2025

Impossibile non amare il cinema...

 


...quando è capace di dire, con una sorta di ironico e amaro aforisma, tutto ciò che va detto di un paradosso perenne: la labile ed effimera compagine che volta per volta mette insieme, opponendoli, il "con" e il "contro". 

2 marzo 2025

A frusto a frusto (142)

 



Un potere che si fa vanitosamente rabbioso proclama, lo sappia o no, il suo inesorabile tramonto.

27 febbraio 2025

Il CEO di una "company" millenaria

"Chi governa la Chiesa?" si legge e si sente chiedere, con affettata premura, sulle gazzette scritte e parlate in questi giorni. L'attuale papa di Roma, come si sa, non sta bene e da un po' si trova in ospedale, sottoposto a intense cure.
Per chi, creda o non creda, prova a tenere in conto lo spessore culturale che al mondo conferisce una religione, qualsiasi religione, come manifestazione, appunto, di una cultura umana, c'è, in una domanda siffatta (e nelle comparabili), una lampante prova della desolante, spietata, totalitaria piattezza con cui correntemente viene ormai trattata la vicenda della specie, in ogni suo aspetto.
Caso mai ancora ci fosse bisogno di dirlo, per l'attuale e globale Weltanschauung, tutto è management. Tutto va amministrato, perché tutto è soprattutto oggetto di amministrazione (il modello? Buna Monowitz). 
E con un sorriso irriverente e ben augurante per la salute di quell'uomo anziano e malato, Apollonio spera che lui, almeno lui, se sa, come probabilmente sa, della domanda, ilare stia pensando: "Che sciocchezza! Sono solo il vicario, non l'immortale CEO di questa company millenaria".

19 febbraio 2025

Cronache dal demo di Colono (73): Ancora "Mamma", ma soprattutto "Vorrei, ma non..."


"Mamma, stasera non ritorno" è l'incipit del tormentone del momento: "tutta l'Italia, tutta l'Italia, tutta l'Italia ah...". Esso si avvia a diventare la canzone dell'estate e, sempre sotto il segno delle relazioni famigliari, si candida a fungere da (alternativa popolare all') inno nazionale, che, come si sa, si apre invece con "Fratelli...". 
Di passaggio, qualche giorno fa, s'era qui fatta d'altra parte cursoria menzione della Mamma come costante tematica della canzonetta italiana: Se n'era colta una variazione timica, tra passato e presente, nella sua più recente epifania sanremese. L'immagine della Mamma italiana vi sconta infatti il declino cognitivo che, fuori di festeggiamenti che hanno l'aria di essere posticci,  colpisce la nazione. Di essa è ormai appropriata sineddoche e adeguato emblema una Mamma appunto la cui senilità non si accompagna più, come un tempo, a una dolce saggezza, ma alla demenza e alla perdita della memoria. Dietro le sdolcinature del testo specifico e i suoi legittimi intenti commerciali, avrebbe potuto esserci specchio più veritiero? 
Apollonio non aveva fermato ulteriormente la sua attenzione sul resto della merce presente in quella fiera musical-letteraria. Ed è stato un errore. Glielo fa notare (e quasi glielo rimprovera) una persona con cui Apollonio corrisponde da un quarto di secolo e che, di conseguenza, di Apollonio conosce e condivide parecchie fissazioni, come il gusto per l'osservazione quotidiana non tanto delle parole, ma di quelle forme e di quei concetti grammaticali che, come insegnava Edward Sapir, sono il vero nocciolo funzionale delle lingue (e del pensiero).
Ebbene, la persona in questione ha osservato, informandone Apollonio, che il quid ideologico corrente della competizione sanremese è procurato dal suo esito. Le quattro canzoni che sono risultate favorite, "il podio", come si dice adesso con metafora sportiva, e quella a immediato ridosso, pur nelle loro differenze tematiche, hanno un tratto che le accumuna. Eccolo, per specimina:

Prima classificata. Balorda nostalgia: "Io le ho risposto che vorrei vorrei vorrei vorrei vorrei vorrei vorrei tornare a quando ci bastava ridere, piangere, fare l'amore...".

Seconda classificata. Volevo essere un duro: "Volevo essere un duro che non gli importa del futuro un robot un lottatore di sumo uno spaccino in fuga da un cane lupo... Volevo essere un duro...".

Terza classificata. L'albero delle noci: "Vorrei cambiare la voce vorrei cantare senza parole senza mentire per paura di farti soffrire vorrei cantarti l'amore amore il buio che arriva nel giorno che muore...".

Quarta classificata. Battito: "Vorrei guarire ma non credo vedo nero pure il cielo vetri rotti schegge negli occhi...".

Ammesso che, nei testi e nei discorsi, le parole in quanto tali esistano (la questione è complessa e Apollonio non vuole annoiare qui i suoi due lettori), volere è sempre ben più di una parola e non c'è testo o discorso che ne alberghi un'epifania che non sia determinato dalla sua ingombrante portata predicativa. 
Come espressioni, tra dire Parto e dire Voglio partire, per fare l'esempio più banale, c'è un abisso. Un abisso al cui fondo c'è, come concetto grammaticale (Sapir, appunto, e Benveniste), una caratterizzazione morale del soggetto, che nel caso specifico è una prima persona.
La faccenda diventa più gustosa e intricata quando ad attualizzare volere e il suo soggetto di prima persona sono modi e tempi che (si scusi il bisticcio) ne modalizzano appunto il valore. Vorrei (come modo) e volevo (come tempo, ma in realtà anch'esso come modo) sono due casi esemplari e, spesso, in eventuale commutazione di registro, valgono come mere varianti (Coseriu e Ambrosini). Vorrei o Volevo aggiungere qualcosa... dice per esempio e alternativamente chi si propone di intervenire in una discussione. Una voglia in sordina, che si atteggia a perenta, meglio, a non attuale.
Va a questo punto precisato, a scanso di equivoci, che forme come vorrei e come volevo, con il loro pesante portato, sono da sempre tutt'altro che rare nelle canzonette: è una parte importante di ciò che, come cascame, esse hanno ereditato dall'"io" lirico della tradizione romantica e tardo-romantica.
Il narrato di ciascuna delle quattro tuttavia permette di integrare l'osservazione generale con un'interessante e contemporanea prospettiva pragmatica. A riassumerla con una battuta, come qui è indispensabile, si è nei quattro casi davanti a un 'vorrei (o volevo), ma non posso (o non ho potuto)'. Condizione (esistenziale o, se si preferisce, di vita) che si combina bene, oggi, con un ulteriore tratto comune dei componimenti: l'inequivocabile genere maschile dei quattro "io" che vi prendono la parola. Nelle quattro canzoni, insomma, pur nelle differenze, ha uniforme presenza un "io" maschile dal volere esposto, ma ben più che attenuato. Forse, affatto frustrato. Aggiungere qualcosa, in proposito, sarebbe ridondante.
Sopra la musica popolare, è un luogo comune che si menzioni e si citi L'éloge de la mauvaise musique di Marcel Proust, ma a questo punto, ringraziando chi, ammonendo il distratto Apollonio, ha procurato lo spunto a questo frustolo, cursorio perlomeno quanto il primo, la lettura del relativo passaggio è d'obbligo: "Détestez la mauvaise musique, ne la méprisez pas. Comme on la joue, la chante bien plus, bien plus passionnément que la bonne, bien plus qu'elle, elle s'est peu à peu remplie du rêve et des larmes des hommes. Qu'elle vous soit par là vénérable. Sa place, nulle dans l'histoire de l'Art, est immense dans l'histoire sentimentale des sociétés. Le respect, je ne dis pas l'amour, de la mauvaise musique n'est pas seulement une forme de ce qu'on pourrait appeler la charité du bon goût ou son scepticisme, c'est encore la conscience de l'importance du rôle social de la musique" (Les plaisirs et les jours, XIII).


16 febbraio 2025

A frusto a frusto (141)


Corporale o spirituale che sia, la consapevolezza di sé cresce proporzionalmente all'innalzamento della soglia del dolore.  

13 febbraio 2025

La Mamma, nella canzone italiana. Solo uno spunto...

 ...naturalmente. Il tema è infatti molto impegnativo e chiama in causa competenze e conoscenze storiche, antropologiche, musicali, psicologiche, linguistiche. 
Culturali, insomma, in più di una disciplina, se non in più di una dimensione del mondo e, in particolare, della nazione che si esprime nella lingua del sì. Ben al di là di ciò cui può attingere questo diario.
A procurare lo spunto è tuttavia l'attualità: il settantacinquesimo Festival della canzone italiana, in quel di Sanremo (sia detto di passaggio: anche la grafica del suo logo decreta che 2025 è ormai definitivamente venti-venticinque: qui, quanto si scriveva in proposito quasi un anno fa).
Ebbene, la canzone che vi sta facendo il massimo scalpore ha per tema la Mamma. S'intitola (caso mai i suoi due lettori non lo sapessero già) "Quando sarai piccola": è una straniante acutezza che, rovesciandolo, richiama naturalmente il "quando sarai grande..." che una persona adulta indirizza familiarmente a una bimba. Autore e interprete della canzone Simone Cristicchi: artista uso a mettere in versi e musica vicende sociali commoventi, godendo della relativa reputazione. Apollonio prima ne ha appreso qualcosa, quindi ne ha fatto verifica
La circostanza è a suo modo consolante: gli Italiani non cambiano. E non si tratta, si badi, di un uso del maschile detto esteso, ma di maschile a tutti gli effetti, verrebbe fatto di pensare. Ove la canzone di Cristicchi trionfasse nella competizione (c'è chi dice avverrà: lo si saprà prima della fine della settimana in cui questo frustolo viene steso e compare), non sarebbe la prima dedicata alla Mamma a farlo. 
Gino Latilla e Giorgio Consolini (allora usava così) portarono infatti alla vittoria "Tutte le mamme" nell'edizione del Festival del 1954, la quarta. L'alter ego di Apollonio solo da poco aveva in quei mesi superato la fase della lallazione e se la sentì cantare intorno, a buona ragione, negli anni a venire.
D'altra parte, da un quindicennio un tormentone era già "Mamma", paradigmatica anche nel titolo. Beniamino Gigli (e non un Pinco Pallino dalla voce gracchiante) ne aveva fatto una hit nazionale, internazionalmente riconosciuta come ben accetto prodotto culturale del più tipico spirito italiano. 
Tra campi e cantieri, dentro e fuori dei confini nazionali, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta la si sentiva cantare. Erano anche tempi di emigrazione, soprattutto maschile, e, lasciando la patria (che curioso bisticcio tra sentimento morale ed etimologia!), si lasciava la madre: si usciva dal suo grembo. Dunque, alla madre gli Italiani, testimonia la canzone, aspiravano a tornare (si intenda la cosa nel senso che si vuole: eventualmente in quello dissacrante di una fulminante battuta di Woody Allen). 
Se l'orizzonte morale degli Italiani, mammoni, non è dunque complessivamente cambiato, molto cambiata è la Mamma, nella nuova prospettiva. In ogni caso, un tratto permane, nei tre concordi campioni: la Mamma invecchia. "...e gli anni passano... le mamme imbiancano...";  "...sento la mano tua stanca... oggi la testa tua bianca...", dicevano in proposito gli stagionati. 
Del capo della mamma, il più recente non procura a sua volta un'immagine esteriore, ma interiore, prodotta dall'avanzare negli anni. I toni sono quelli di una cura filiale, ma elegiaci (la presente non è epoca atta ad accettare altro), e dicono che, invecchiando e, forse anche incanutendo, la Mamma soprattutto non c'è più con la testa (dolorosamente: Apollonio lo sa).
Bisogna ammetterlo per l'ennesima volta. Non c'è specchio che renda meglio l'immagine della nazione del Festival della canzone italiana di Sanremo. Proprio in quanto nazione, dotata appunto di un comune sentire, essa vi si celebra in effetti ormai da tre quarti di secolo.
E oggi, con il suo festival di canzonette, l'Italia si riconosce in una Mamma ormai suonata (ohibò!). Una Mamma che ha perso consapevolezza di sé, della sua storia, dei suoi figli. E alla quale, con tono di amorevole condiscendenza, non resta che dire, concludendo: "...adesso è tardi, fai la brava, buonanotte". 
      

9 febbraio 2025

Linguistica candida (73): Nomi propri. Embè?

Il nome proprio è un ineffabile mistero, riflesso, come si sa, fin dentro le Tavole della Legge affidate a Mosè e da lui originariamente divulgate. Allo spirito grosso di Apollonio (e a quello comparabile, se non più grosso, del suo alter ego), esso si presenta però nella maniera meccanica della sintassi, che è come dire "della composizione" (non si dovrebbe mai omettere di chiarirlo, caso mai sfuggisse).
Ciò non vuole dire che siano a suo avviso infondate o, si direbbe con Galileo, "di lana caprina", le questioni che si addensano sopra il tema per ogni sorta di pensiero esoterico e di correlata pratica (religioni, logica, filosofia e chi più ne ha più ne metta). 
Non nega di averne il sospetto, tuttavia. Forse per mascherare una scarsa fiducia in se stesso. Di fronte a esse, prova infatti un senso di inadeguatezza di capacità e competenze. Ad attirarlo, al contrario, sono faccende minuscole. Un esempio? Quattro (fra gli innumerevoli possibili).
A sequenze come arrivafelice ([ar'ri:vafe'li:tʃe]), labiondacantava ([la'bjondakan'ta:va]), recitabene (['rɛtʃita'bɛ:ne]), vieneassunta ['vjɛneas'sunta], chi le ascolta assegna immediatamente e implicitamente differenti analisi e quindi valori diversi (cioè diverso significato e, si badi bene, anche se non pare, diverso significante) secondo che, per dirla con il comodo artificio concesso dall'ortografia, nel primo caso intenda felice o Felice, nel secondo, la bionda o La Bionda (Carmelo), nel terzo, bene o Bene (Carmelo), nel quarto assunta o Assunta. Perché?
Attenzione: rispondere snocciolando oppositivamente i relativi termini categoriali (aggettivo o nome proprio, nel primo caso; nel secondo, articolo e nome comune o nome proprio; nel terzo, avverbio o nome proprio; nel quarto, participio o nome proprio) è produrre tautologie. I termini categoriali, con i loro riferimenti, sono infatti mere chiose parafrastiche del problema, non sue spiegazioni. 
Nella sua interezza, la grammatica dei grammatici (che oggi passano per linguisti) ha d'altra parte questo carattere: è un modo di assegnare un nome ("proprio": cioè un termine) a qualcosa, illudendo (e forse illudendosi) che ciò equivalga a chiarirla, quando consiste soltanto nel servirsi di etichette millenarie e non pensarci più. A frequentare certe opere che si pretendono linguistiche, "Warum? Hier ist kein Warum" verrebbe fatto di commentare, per fortuna solo ironicamente, ricordando il tragico resoconto che Primo Levi fece del fallimento della ragione moderna.
Per farsi appunto una ragione di quisquilie come le menzionate, all'alter ego di Apollonio, come forse sanno i due lettori di questo diario, è capitato qualche anno fa di scrivere addirittura un libro sulle procedure con le quali nella lingua si producono (talvolta, per poi sciogliersi) quei coaguli funzionali che per tradizione grammaticale vengono appunto detti nomi propri (e anche di pubblicarlo, grazie alla benevolenza di un amico)
Vi ha messo dentro un po' delle riflessioni e delle divagazioni che ha dedicato al mistero dei nomi propri, in qualche decennio di scapestrataggine disciplinare (non vige oggi un corrivo culto degli ossimori? Si lasci che anche questo diario vi indulga, di tanto in tanto). A ispirarle, lo si ribadisce, solo il desiderio, strettamente personale, di capirci qualcosa.
Declinato intimamente, tale desiderio è in fondo solo il modesto riflesso di un'attitudine tipica dell'epoca che, nei suoi estremi bagliori, procurò la provinciale formazione di Apollonio e del suo alter ego. L'utopia (di nuovo) moderna (ma ci fu mai evo più contraddittorio?) di una conoscenza che prova a (o forse solo pretende di) ridurre un mistero, qualsiasi mistero, per sua natura indefinito, alla definizione di un problema. Meglio, di una serie di problemi, da affrontare uno per uno, ordinatamente, nella speranza di un'intelligenza che non se ne lasciasse sopraffare. 
Così insegnava un tempo, si pensi, già agli alunni e alle alunne della scuola primaria italiana, il racconto guerresco, ma per antica allegoria, della leggenda romana degli "Orazi e Curiazi", traendone l'indicazione di una prassi procedurale che, proprio in quanto tale, associava a un'etica una teoretica della ragionevolezza.