27 dicembre 2007

Bolle d'alea (5): Stevenson

"There is no duty we so much underrate as the duty of being happy. By being happy, we sow anonymous benefits upon the world, which remain unknown even to ourselves, or when they are disclosed, surprise nobody so much as the benefactor".

Una lampante verità, cui Robert L. Stevenson prestò nel 1877 la sua parola. Infinite volte essa sarà passata e passerà per la testa delle infinite marionette - paradossali sintesi di replica e singolarità - che la vita ha messo, mette e metterà in scena nella condizione umana. Passata fugacemente e dispersa, come un dono inafferrabile.
Tra una fine e un principio arbitrari, a chi ha continuato a leggere le sue parole Apollonio fa l'augurio di trattenere tale verità nella sua coscienza almeno per un anno, godendo così dell'incosciente generosità che regala la felicità: per sorprendere, per sorprendersi.

["Non esiste dovere così sottovalutato come quello d'esser felici. Quando siamo felici, disseminiamo il mondo di benefici anonimi, che restano ignoti persino a noi stessi o, se svelati, non sorprendono nessuno quanto lo stesso benefattore"].

19 dicembre 2007

"A perpetuale infamia..." (Convivio I, xi)

Alla lingua della sua espressione e al suo lettore ideale - per incoraggiarlo e per incoraggiarsi - Apollonio dedica, come viatico per i tempi a venire, un passo del Convivio dantesco (un blog del tempo che fu?).
Quel che tale passo dice è attuale quanto lo era quando fu concepito: prova storica, e dunque paradossale, dell'acronia del genio, come di quella della stupidità, del resto, e della lotta del primo per sopravvivere alla seconda.
Nel tempo effimero che cagiona l'esplosione sociale degli indirizzi d'augurio, questa lettura valga ad ancorarsi - individualmente e con chi e con ciò che si ama: l'espressione italiana, per esempio - alla consapevolezza dell'eterno farsi del tempo.


«1. A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. 2. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta che pochi sono quelli che siano da esse liberi. 3. De la prima si può così ragionare. Sì come la parte sensitiva de l’anima ha suoi occhi, con li quali apprende la differenza de le cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, con lo quale apprende la differenza de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è la discrezione. 4. E sì come colui che è cieco de li occhi sensibili va sempre secondo che li altri giudicando lo male e lo bene, così colui che è cieco del lume della discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde qualunque ora lo guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch’a lui s’appoggia, vegnano a mal fine. Però è scritto che "’l cieco al cieco farà guida, e così cadranno ambedue ne la fossa". 5. Questa grida è stata lungamente contro a nostro volgare, per le ragioni che di sotto si ragioneranno, appresso di questa. E li ciechi sopra notati, che sono quasi infiniti, con la mano in su la spalla a questi mentitori, sono caduti ne la fossa de la falsa oppinione, de la quale uscire non sanno. 6. De l’abito di questa luce discretiva massimamente le populari persone sono orbate; però che, occupate dal principio de la loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l’animo loro a quello per forza de la necessitate, che ad altro non intendono. 7. E però che l’abito di vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza s’acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l’altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere. 8. Per che incontra che molte volte gridano Viva la loro morte, e Muoia la loro vita, pur che alcuno cominci; e quest’è pericolosissimo difetto ne la loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana, perché la vede sanza discrezione. 9. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. 10. E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non ostante che ’l pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col petto dinanzi a esse si parava. 11. La seconda setta contra nostro volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d’essere tenuti maestri che d’essere, e per fuggir lo contrario, cioè di non esser tenuti, sempre danno colpa a la materia de l’arte apparecchiata, o vero a lo strumento; sì come lo mal fabbro biasima lo ferro appresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro e alla cetera, e levarla a sé. 12. Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l’uomo li tegna dicitori; e per scusarsi dal non dire o dal dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio, e commendano l’altro lo quale non è loro richesto di fabbricare. 13. E chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi che opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, si credono scusare. 14. Contra questi cotali grida Tullio nel principio d’un suo libro, che si chiama Libro di Fine de’ Beni, però che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca, per simiglianti cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza. 15. La terza setta contra nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto. 16. La quarta si fa da uno argomento d’invidia. Sì come è detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra li uomini d’una lingua è la paritade del volgare; e perché l’uno quella non sa usare come l’altro, nasce invidia. 17. Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di non saper dire, ma biasima quello che è materia de la sua opera, per torre, dispregiando l’opera da quella parte, a lui che dice onore e fama; sì come colui che biasimasse lo ferro d’una spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l’opera del maestro. 18. La quinta e ultima setta si muove da viltà d’animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è. 19. E perché magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa, per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che ’l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. 20. E però che con quella misura che l’uomo misura sé medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di sé medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l’altrui men buone: lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l’altrui assai. 21. Onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio volgare, e l’altrui pregiano: e tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui condutto vanno li ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione.»

18 dicembre 2007

En quête de... (1)

La syntaxe n’est qu’une opération de composition qui crée en même temps un système (c.-à-d. un ensemble ordonné d’interdépendances) et ses parties. Ni l’un ni les autres n’existent préalablement. Dans le processus de composition, c’est le rapport mutuel qui leur donne des valeurs, selon la suggestion théorique pionnière de Ferdinand de Saussure.
Pour se faire jour, les études syntaxiques (et la linguistique toute entière) doivent se libérer de toute ontologie. Le monde étudié par le linguiste est un univers vide, peuplé des fantômes qui manifestent le processus créateur de purs rapports systématiques. Le travail d’un chercheur sage, avisé et conscient (comme le fut Edward Sapir) ne consiste que dans la découverte et dans la détermination des rapports (manifestés et, en même temps, cachés par ces fantômes). En fonction d’une telle prise de conscience, le siècle qui nous sépare de Saussure n’a pas vu changer beaucoup la situation.
À quelques exceptions près (parmi lesquelles pourrait peut-être figurer le pseudo-Harris des Notes du cours de syntaxe, c.-à-d. le cilice par lequel Maurice Gross mortifia une émersion de son ego spéculatif et théorique), les syntacticiens se sont contentés et se contentent de renouveler, sous des formes toujours variées (les chemins de l’errance sont justement infinis), les façons de procéder d’une tradition philologique ontologiquement fondée.
La terminologie courante en est la meilleure preuve. Et, même dans les cadres qui se prétendent les plus innovateurs, les catégories par lesquelles on opère le démontrent clairement. En tant que taxinomie indiscutée qui fonde l’état d’entités des objets de toute recherche, des notions comme article, nom, verbe, adjectif etc. (qu’elles soient « dopées » ou non par l’adjonction des qualifications supplémentaires tirées du mécanicisme post-bloomfieldien) définissent les choses auxquelles on aurait affaire en syntaxe. Et de ce fait la syntaxe reste un jeu aveugle et un peu idiot, surtout écrasé sous le poids d’un lexique (mieux, d’une idée naïve et toute faite du lexique) considéré comme le dépôt d’où des unités irréductibles de sens et de forme (qu’elles soient appelées racines, morphèmes, mots ne change pas la substance) sortent presque toutes faites (et comment se font-elles ?). De ces unités, la syntaxe ne serait finalement qu’une simple disposition, un modeste arrangement.
La notion de prédicat, mieux, de prédicativité peut jouer un rôle important dans l’établissement d’un cadre approprié à la naissance d’une véritable syntaxe scientifique, une fois passée au crible de l’arbitraire saussurien (qui concerne la terminologie de la linguistique au même titre que toute autre expression linguistique : ce que l’on oublie presque toujours), une fois nettoyée en conséquence du fardeau de ses emplois logico-grammaticaux et une fois connectée à l’idée d’une fonction d’opérateur de composition (un renvoi aux Notes pseudo-harrisiennes est à ce propos approprié). Ce travail préalable est nécessaire mais il n’est pas suffisant, car le danger d’une considération positive et non différentielle reste. Il faut donc passer à une évaluation relationnelle et oppositive (en s’inspirant de Roman Jakobson): à une idée de prédicativité comme négation de sa valeur négative et non-marquée. Et dans cette opposition, le terme non-marqué ne coïncide pas avec la fonction corrélée d’argument, qui est elle aussi l’un des deux termes d’une opposition comparable.
Cela fait, catégories et catégorisation sont finalement subordonnées aux notions relationnelles et on passe ainsi d’une question traditionnelle (« quelles sont les catégories linguistiques qui ont vocation à être prédicatives ? » : à vrai dire, toutes et aucune) à la tentative de comprendre et de classer les formes par lesquelles se manifestent les rapports et les différences entre les valeurs fonctionnellement diverses de predicativité.