26 gennaio 2011

Toscano

A vent'anni dalla data fatidica, esce nel 1881 il romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga. La "questione della lingua", questa specialità culturale nazionale cucinata dagli intellettuali italiani, per tradizione, secondo ripetitive ricette, aveva appena vissuto (e a suo modo ancora viveva) una delle sue fasi più acute. Connesse, c'erano, per una volta, anche scelte politiche da fare e, nel Moderno, niente rende la gente istruita più audace (o spudorata) del pensiero d'essere importante e utile a qualcosa, in ispecie alla comunità, e di poterle così impartire qualche imprescindibile precetto.
Giovanni Verga, prima a Firenze, poi a Milano, parla come parla e scrive come scrive. Toscano è il cognome della famiglia siciliana di cui narra la favola del suo capolavoro. Realisticamente: nell'isola, Toscano è cognome ricorrente. Ma, in faccia agli intellettuali nazionali e alla loro "questione della lingua", quanta irridente, celata e amara ironia linguistica porta quel nome proprio, dissimulato sotto la 'nciuria Malavoglia?
E un'ironia solo linguistica? Non il mare di Aci Trezza ma quello di Lissa (ed è appunto la Terza guerra d'indipendenza) accade infatti che ingoi il ragazzo Luca, diventato italiano, siciliano di fatto, Toscano di nome.

17 gennaio 2011

"Mi domando che madri avete avuto"

"Dedichiamo questo saggio ai nostri figli. Augurandoci che li aiuti a comprendere che rispettare le regole può essere un buon affare anche per loro".
R. Abravanel e L. D'Agnese, Regole, Garzanti, Milano 2010.

Caro PPP, trovi in questa dedica (e nel libro che la porta) la risposta quanto ai padri. Le madri? Conseguenti: di quelle che comprendono che far figli con tali padri "può essere un buon affare anche per loro".

16 gennaio 2011

Speculazione. Edilizia

Lanciato da una campagna pubblicitaria non da poco e patrocinato da una società culturale che eroe eponimo più illustre non potrebbe avere, esce un quaderno speciale di una rivista di geopolitica. Il fascicolo ha un titolo bruttino e tanto corrivo, ma ad effetto: "Lingua è potere".
Il primo articolo è una sorta di presentazione generale: "La geopolitica delle lingue in poche parole". Il suo incipit suona così: "Aveva ragione lo scrittore portoghese Vergílio Ferreira: la lingua è, in fondo, soprattutto un luogo. Una casa da condividere o una frontiera da attraversare, un ghetto in cui rinchiudersi o un altrove in cui limitarsi a transitare".
Di Ferreira, Apollonio conosce appena il nome. Proprio quell'articolo porta però in epigrafe la traduzione italiana del passo cui il suo incipit farebbe riferimento. Per quanto limitato e su due piedi, un riscontro è possibile.
Sostiene Ferreira, in apertura del passo, che "una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e sentire". Poi continua: "Dalla mia lingua si vede il mare. Dalla mia lingua se ne sente il rumore, come da quella di altri si sentirà il rumore della foresta o il silenzio del deserto. Perciò, la voce del mare è stata quella della nostra inquietudine". A credere a questa citazione (e a credere affidabile la sua traduzione), sembra insomma che Ferreira consideri la lingua anzitutto un punto di vista: "il luogo da cui si vede il mondo...". In ciò, come si sa, egli è in ottima compagnia e non c'è da stupirsi. Da secoli, il punto di vista che vede nella lingua un punto di vista è tanto affascinante quanto producente.
Dare di tale prospettiva una lettura crudamente localista, affermare sul suo presunto fondamento ("aveva ragione lo scrittore portoghese...") che "la lingua è, in fondo, soprattutto un luogo" non sarà allora una speculazione un po' abusiva? Da abusivismo edilizio, pensa Apollonio mentre sfoglia il fascicolo, la cui visione d'insieme - sarà per il potere evocatore della metafora - gli ricorda il colpo d'occhio offerto da coste calabresi o siciliane, quando le operose popolazioni locali, incoraggiate dai periodici condoni, hanno potuto meglio esprimervi il loro genio paesaggistico, col suo aureo principio: ciascuno faccia la prima cosa che gli passa per il capo. Ai desideri di decoro dei committenti ottimamente provvedono in tali casi scienza e stile del geometra e del capomastro.
La trouvaille metaforica deve del resto essere parsa un'acutezza all'autore dell'articolo di apertura. Sul "luogo" attribuito (e forse usurpato) a Ferreira, egli medesimo si è infatti affrettato a costruire "casa", "frontiere", "ghetto" e, per non farsi mancare proprio nulla, pure un "altrove". Cosa, c'è da chiedersi, una lingua non potrebbe infatti mai essere?
Ma già bastano "potere" e "luogo" a gettare Apollonio quasi nello scoramento, quanto al mucchietto di pagine stampate che si trova tra le mani. D'improvviso, intuisce però che è tutto solo uno scherzo. Glielo rivela, benevolo e ammiccante, il titolo della rivista. Non ci aveva mai fatto caso: in anagramma, suona "Smile".
Ripone il fascicolo nello scaffale da cui, curioso, l'aveva tratto, sorride grato e, consolato, corre a prendere il suo aereo.

Superlativi. Relativi

"Putnam, che è forse il più influente filosofo americano vivente, ha scritto questo articolo per il Sole 24 Ore-Domenica...". "Peter Sloterdijk è indubbiamente uno dei maggiori filosofi contemporanei, almeno se consideriamo la sfera continentale...". "Emanuele Severino è uno dei maggiori filosofi contemporanei...". Si potrebbe continuare a lungo con citazioni del genere, pescando naturalmente anche fuori dello stagno della filosofia, di cui si stanno qui solo casualmente rimestando le acque.
Quando la figura di un (presunto) sapiente ha un'epifania che il medium che la rende possibile vuole vendere come consolidata, se ne può stare certi: il superlativo relativo ricorrerà. E così, capita ogni giorno e talvolta più volte al giorno di ascoltare o di leggere "una delle più illustri poetesse", "il maggiore biologo", "l'astrofisico più autorevole", naturalmente "vivente", "contemporaneo", "della modernità", "dello scorso, di questo secolo".
Il presupposto è che l'elargitore del superlativo sia capace di tale giudizio. In faccia a chi lo ascolta o lo legge, egli se ne fa in ogni caso garante. E siccome conosce le regole della buona educazione, officia il rito sempre con sussiego. Adorna infatti il superlativo, sovente, con un'espressione avverbiale. Ne fa iperbole, fingendo di mitigarlo, con un "forse" (le veneri dello stile, lo si sa, sono ritrose). Insinua perplessità facendo mostra di negarle: "indubbiamente".
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Nel 1921, Albert Einstein sbarcava negli Stati Uniti, per la prima volta. Ad accoglierlo acclamazioni e manifestazioni di massa, mai prima sotto tale forma tributate a un uomo di scienza: egli diventava così "Albert Einstein: il maggior fisico vivente". E maturava (o giungeva solo in piena luce) un aspetto del destino, perverso e paradossale, del sapere e della scienza nel Moderno: fare da feticcio di nuove religioni sociali.
Nel corso del Novecento, trassero profitto ideologico da tale perversione sistemi totalitari d'ogni colore. Non ci fu fascismo i cui (presunti) uomini di cultura non fossero "i più grandi X contemporanei". Non ci fu conferenza mondiale (oggi si direbbe globale) cominformista i cui partecipanti, "intellettuali per la pace", non fossero tutti ipso facto insigniti del superlativo. Modesti compositori di versi, coloratori di tele furono così proiettati su Parnasi divenuti frattanto polverosi, magari, ma dai quali poi più nessuno si è mai incaricato di richiamarli, visto che, alla bisogna, possono sempre risultare utili. Anni della modernità matura e delle sue farsesche tragedie.
Oggi, dal feticcio provano a trarre profitto le religioni della modernità putrefatta: totalitaria senza nemmeno volerlo (che è il modo perfetto d'esserlo). Beotamente considerata liberale, anzi, tanto dai suoi cantori (cui basta, a quanto pare, il grado di totalitarismo raggiunto) quanto dai suoi oppositori (che ne desidererebbero uno ancora maggiore).
Il cielo corrusco della stupidità ideologica otto-novecentesca si è così mutato nelle lampanti esigenze bottegaie del merito e del mercato, che, per essersi fatte ragioni di spettacolo, non per questo sono meno ideologiche. Anzi.
Come abito di scena del clown, dell'artista da circo, la forma linguistica del superlativo relativo attribuita dal presentatore al (presunto) sapiente di turno è così trascorsa dalla rappresentazione di una farsesca tragedia alle mille e poi mille repliche di una tragica farsa e le conferenze cominformiste grigio-metallo sono diventate colorati festival dei libri e di ogni branca dello scibile umano: "ed ora, signore e signori, dopo la più celebre contorsionista del Vecchio mondo, si esibirà davanti a voi il più grande trapezista del Nuovo...". Valeva la pena, cari i miei due lettori, di pagare il prezzo del biglietto che si è acquistato per assistere allo spettacolo di questa scalcinata compagnia di guitti di cui accade inoltre, come servi di scena, di fare parte!

[E ancora, sempre attingendo alla stessa fonte, inesauribile nella produzione di imbonitorie stucchevolezze onorifiche e dei relativi superlativi relativi, il 20 marzo 2011: "Certo, quando aveva due anni Putnam se ne stava sulle ginocchia di Pirandello (che era amico del padre, grande traduttore); da studente era amico di Chomsky; da giovane conversava con Einstein, Gödel e Carnap; e a trent'anni era già nella storia della matematica, avendo contribuito alla soluzione di uno dei famosi «problemi di Hilbert». Queste sono cose che aiutano: non sorprenderà allora che Putnam sia divenuto poi uno dei maggiori filosofi contemporanei"].

11 gennaio 2011

Nomen, non me! (10)

Piccola rassegna della stampa quotidiana italiana. Si procede, com'è d'uso, da sinistra a destra ma (ognun lo sa e i linguisti d'oggi dovrebbero meglio di altri) si tratta di un continuum in una logica, letteralmente, fuzzy.

Forse, agli abitanti del Bel paese non è inutile sapere che...
Da qui, fottono itali

I lettori? Sono veramente rimasti in pochi.
Taluni

I suoi sostenitori? Eletta schiera, ogni mattina danno il loro obolo in brodo di giuggiole.
Club 'Bea pirla'

La notizia lievita, se la si è ben manipolata. Orsù...
...mpastala!

Esce ogni giorno, ma nessuno se ne accorge tranne gli opportuni strumenti.
Sisma leggero

Ah! L'eleganza superiore della buona operosa borghesia lombarda.
Sorridere al celare

Son bravi a cambiare il pelo ma...
L'eco dà soliti lai

Verità e falsità.
Lì, le girano

Te l'avevo detto. Leggerlo è da ovini, infatti...
Or beli

Esiti perversi di misteriose pratiche celtiche o per opposizione a quelli romani "da poltrona"?
Ani da pala

[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]

3 gennaio 2011

Giocare d'anticipo

Ad Apollonio passano per il capo delle sciocchezze, si diceva in chiusura del post precedente. Giunge puntuale una conferma. Lo invita a prenderne atto, di qua da Chiasso, un premuroso sodale. Dall'estate del 2009 a quella del 2010, alcuni nuovi topoi stilistici di telecronisti e giornalisti sportivi italiani avevano fatto l'oggetto di tre post di questo blog. Oggi, sul più venduto quotidiano italiano, il medesimo tema merita addirittura una civetta in prima pagina e poi non uno ma due corposi articoli nella sezione sportiva. Non c'è che dire e Apollonio deve ammetterlo. La prova è schiacciante: per il capo gli passano, e anticipatamente, proprio delle sciocchezze.

Apollonio un, due, tre. E uno dei due articoli comparsi oggi sul più venduto quotidiano italiano.