26 settembre 2016

Linguistica candida (39): I nuovi detrattori di Noam Chomsky

Era chiaro che a Noam Chomsky, prima o poi, dovesse succedere, come effetto del trapasso dal Moderno ultra-maturo all'attuale e completamente putrefatto (trapasso cui peraltro egli medesimo ha contribuito, dal 1956, con le sue idee e, a partire dal decennio successivo, con la sua immagine pubblica di intellettuale).
In coro, ha cominciato a parlare male di lui gente che, di ciò che il linguista americano pensa e ha fatto, non capisce nulla e, se ne parla male, ne parla male senza capire perché; o meglio, semplicemente perché pensa di mettersi così tra le prime schiere di un tendenziale andazzo.
Nei decenni trascorsi, del resto, non pochi dei suoi estimatori (linguisti inclusi) erano completamente inconsapevoli di ciò che facevano e, anche loro, seguivano un andazzo, con la trasparente ingenuità che fa sempre la fortuna dei furbi. 
Chomsky paga oggi qualcosa di quel facile consenso con gli accenni di un'irrisione maramalda e altrettanto facile.
Facili nemici si raccolgono infatti intorno al simulacro dell'allievo geniale e malandrino di Zellig Harris, dell'ultimo erede del legato metodologico di Leonard Bloomfield (da lui, a parole, proditoriamente rinnegato). Apollonio non li tiene per amici, sappiano i suoi due lettori. E fosse chiamato a decidere con chi stare, l'errore di Chomsky, dei suoi libri, del suo impegno di linguista gli pare incomparabilmente più nobile, come sfida all'intelligenza, della loro montante nullità. Contro le idee di Chomsky si poteva, anzi si doveva argomentare. Leggendo le parole dei suoi attuali detrattori si possono solo allargare le braccia.

18 settembre 2016

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (22): La comparsa di reazionari



Nella storia delle lingue, ma ovviamente non solo in essa, la comparsa di petulanti reazionari è prova certa che il cambiamento è ormai irreparabilmente (e, si può dire, purtroppo) già avvenuto.

16 settembre 2016

Cronache dal demo di Colono (43): Un Campiello sopra le righe

La letteratura, lo si sa, non è una cosa seria. Meglio: non lo sarebbe e non lo era. Lo è divenuta, in una temperie, la presente, e forse già in un'epoca, quella in corso (la deriva non è cominciata l'altro ieri), che non tollera esistano cose poco o non serie. 
Ne sanno qualcosa, per esempio, il gioco, la ricerca, l'amore, il diporto: tutti àmbiti dell'esperienza umana del mondo e nel mondo diventati oggi serissimi, a tratti tetri, come è appunto capitato alla letteratura. 
Una prova? Per contrasto, la più peregrina: la trasmissione televisiva (curata da Rai Cultura, dicono i titoli di testa) della serata finale del Premio Campiello 2016. In rete, dove Apollonio l'ha trovata, pare resti disponibile ancora per un paio di giorni. Se curiosi e non al corrente, i suoi due lettori si affrettino alla verifica.
La produzione del programma, preoccupata della serietà della serata letteraria, l'ha affidata per contrappasso a due conduttori universalmente ritenuti di spirito: una ciarliera signora sarda che fa la sarda e un giovanotto marchigiano, allampanato e, a dire il vero, ormai piuttosto avanti con gli anni. 
Ebbene, per evidente mandato, nelle due ore di trasmissione, non c'è stato un solo momento in cui i poverini non abbiano tentato di metterla sul ridere. Penosamente, non ci sono riusciti. L'ineluttabile aleggiare della tetra serietà di cui ormai vive il tema letterario, come si è detto, ha avuto la meglio, anche se di esso si è avuta cura di tacere radicalmente. 
Facili ironie, giochi di parole, battute, birignao, false baruffe, inciampi, gaffe, uscite demenziali, interviste di sublime trans-idiozia, i due ne hanno tentato di tutti i generi, sempre atteggiandosi inoltre a un trattenuto sussiego. Si pensi: con un esercizio di supremo virtuosismo, per i cento venti minuti hanno anche tenuto sulle loro facce un sorriso che si pretendeva meta-ebete. O forse, in armonia coi tempi, post-ebete. Con l'ossimoro di un ammiccamento esplicito, parevano proferire così a ogni passo, cercando di intercettare la simpatia d'ogni segmento del pubblico nazionale, una tradizionale divisa italiana: il "Ma guarda un po' che s'ha da fa' pe' campa'". 
L'attitudine è del resto precisamente la cifra stilistica dell'attempato ex-giovanotto marchigiano, quella cui deve la sua fortuna. Tra i due, è infatti parso lui il capo-comico e, sullo sfondo, anche lo scalcagnato impresario cui la committenza (gli industriali veneti, un tempo floridi e ora evidentemente male in arnese) ha affidato per ragioni di economia l'intera baracca.
Insomma, con chiara intenzione (giustificata dalla manifesta incapacità di fare altro e di evitare in ogni caso il peggio), non una parola è stata proferita in due ore che non fosse sopra le righe. Ed è difficile non sospettare che, in realtà, lo si sia fatto perché di quelle nude righe letterarie che, in linea di principio, avrebbero dovuto essere le serie protagoniste della serata si è avuta vergogna e che starci sopra era infine un modo buono e a buon mercato per coprirle. 


10 settembre 2016

Linguistica candida (38): Ascoli, Manzoni e la frattura degli studi linguistici di espressione italiana

Con la lingua, Alessandro Manzoni aveva un rapporto viscerale e agonistico ma soprattutto consapevole. C'è bisogno di dirlo? Non era, in altre parole, un cretino di talento, come sono stati e sono scrittori anche molto rinomati. Ed era, nella prassi, ancor più che nella teoria, un fine grammatico, oltre che (e non paia un paradosso) un acuto linguista speculativo. Cultore di una linguistica diversa da quella che praticò il bravo glottologo Graziadio Isaia Ascoli. 
Ascoli infatti non capì Manzoni: gli mancavano i mezzi e sarebbe difficile immaginare due uomini dalle formazioni più diverse e contrastanti. Meglio, a Manzoni appena morto, di Manzoni linguista, con qualche schiamazzo, Ascoli fece mostra di capire ed enfatizzò ciò che, a suo parere, era sbagliato e, certamente, era discutibile. 
L'enfatico additamento dell'errore altrui, invece della piana esposizione di ciò che positivamente si ha da dire, lasciando all'intelligenza del lettore il ponderato giudizio, è del resto malvezzo avvocatesco da cui lo stile di argomentazione della glottologia non si è più liberato.  
Erano faccende politiche, del resto: cascami di pensieri, raccolti da epigoni che il Risorgimento, con il suo esito, aveva messo nelle condizioni parossistiche tipicamente produttrici di sconsideratezze. Temperie - tutti e tutte le si conosce, visto che si ripresentano periodicamente - in cui qualcosa, qualsiasi cosa bisogna si dica e si faccia, pena il sentirsi fuori del flusso vitale (ingannevolmente, vitale) che corre per il mondo. Esattamente le situazioni, invece, in cui non bisognerebbe far nulla, lasciando che il mondo vada appunto al diavolo da sé, consapevoli con un sorriso della probabilità di trovarsi ineluttabilmente ad accompagnarlo.
Dalla frattura ideale tra Manzoni, il linguista fine e speculativamente pratico, e Ascoli, il rude e bravo glottologo delle inezie e dalle frustrate ambizioni di finezza, frattura decretata da Ascoli, come s'è detto, l'attenzione alla lingua e gli studi linguistici d'espressione italiana non si ripresero mai più. Lo spirito di Manzoni avrebbe certo avuto bisogno di Ascoli. Ma molto, molto di più Ascoli avrebbe avuto bisogno dello spirito di Manzoni, se l'avesse capito. 
Ora che, in proposito, una tradizione nazionale qualsivoglia pare si stia definitivamente disperdendo (se non s'è già completamente dispersa) nell'indeterminatezza di idee cervellotiche tanto locali, quanto globali, Apollonio pensa sia il caso di dirlo, come ipotesi di testimonianza, a chi, giovane e sfaccendato o sfaccendata, vuole conservare la curiosa memoria di glorie (poche) e fallimenti (tanti) della linguistica di espressione italiana.