29 ottobre 2014

Linguistica candida (19): "Système" e "Erlebnis"

Poco meno di tre minuti: ecco quanto tempo Apollonio concede qui alla viva parola del suo alter ego. Lo fa perché vi si tratteggia la combinazione d'un punto di vista e d'una disposizione di spirito che gli stanno a cuore. Non sa da quando egli faccia pratica e goda del loro connubio. Direbbe da quando ha cominciato, esprimendosi, a pensare all'espressione. La consapevolezza gli si è maturata lentamente, tuttavia. O forse anche questa è solo un'impressione: lì è sempre stato e, per giunta, consapevole, nei rari momenti in cui non sonnecchiava; ciò che gli ha fatto, gli fa e gli farà difetto è magari solo la memoria e il processo (e l'apparente progresso) è solo un risveglio periodico e immemore delle veglie precedenti.
L'occasione o, forse, il pretesto di esprimersi in proposito, per l'alter ego, un convegno, a Siena qualche giorno fa. Le vie del piacere umano non sono certo infinite (del resto, non lo sono nemmeno quelle dell'umana espressione) ma possono aprirsi inattese, soggette, come quelle del dolore, all'inflessibile tirannide del caso. 

19 ottobre 2014

Linguistica candida (18): Chomsky, ricorsivamente



Un Nobel per la linguistica non c'è e, quanto a quello per la medicina, si dovrebbe attendere ancora l'esito di qualche TAC. C'è il rischio che si faccia tardi. Di chimica e di fisica, non è il caso di parlare: lì, come si può, si pretende di fare sul serio, mentre il cosiddetto Nobel per l'economia è, come si sa, un'autentica patacca. 
Restano il Nobel per la letteratura e quello per la pace. Il giovanotto, cui - ed è grande qualità - le ambizioni non hanno mai fatto difetto, com'è suo costume, sta alacremente lavorando al secondo, inconsapevole di essere già meritevole del primo.   

18 ottobre 2014

Lingua nostra (6): "serpeggiare"

Serpeggiare, dichiara uno sbarbatello o una pupetta, a séguito d'opportuna domanda, significa 'spettegolare, parlare male di qualcuno alle sue spalle'. Commovente.
Invece, la testimonianza dell'exploit, accolta tra l'indignazione e l'irrisione, completerebbe il quadro d'una desolazione, per chi la riferisce. Scenario, la grande sala in cui si svolge un convegno sulla didattica dell'italiano. Al fondo, l'alter ego di Apollonio ha fin lì sonnecchiato: gli si perdonerà l'incertezza sul dettaglio del genere. 
Del resto, sono le tre del pomeriggio. Solite geremiadi e soliti numeri percentuali: per una relazione pomeridiana, roba contro la quale s'infrange inane l'onda d'urto di qualsiasi caffè. 
Il poveruomo ne sente poi dire da quaranta anni: era acerbo, è maturato e sta adesso avvizzendo. È progressivamente cambiata solo la luce sotto la quale il canovaccio va in scena. Una luce radente. Un dì, era il sole dell'avvenire. Oggi sono i raggi di un tramonto. E nel tramonto, ciò che poteva parere, or sono numerosi decenni, un ordito progressista prende i riflessi sinistri della lagna reazionaria: tutto va appunto in sfacelo.
No, narra ad Apollonio di aver pensato l'alter ego, riscosso da quel serpeggiare. C'è vita, nella lingua. E una vita vivace di lunghissima durata. L'-izo dei tempi lontani di Tucidide e di Demostene, trapiantato or sono due millenni nell'espressione di chi parlava latino (senza farlo, ovviamente, come scriveva il latino Cicerone), ha messo radici nella testa di quello sbarbatello o di quella pupetta con iPhone e getta polloni nell'italiano del ventunesimo secolo. 
Polloni abusivi, si dirà. Appunto: quindi ancora più apprezzabili e gustosi, non foss'altro perché scandalizzano sul principio quei benparlanti che, la cosa avesse successo, correrebbero subito a sposarne l'indiscutibile fondatezza.
Se, dunque, chi si comporta da birbone birboneggia, chi da bambino bambineggia, chi, per figura, da asino asineggia, perché mai oggi chi si comporta, di nuovo per figura, da serpe non dovrebbe serpeggiare
E, si dica il vero, non è comportarsi da serpe andare in giro a spettegolare della compagnuccia di scuola, tagliandole addosso i panni, magari profittando dell'immorale vantaggio di essere stato o stata partecipe dei suoi piccoli segreti? Se ciò non è serpeggiare, cosa lo sarà meglio mai?
Il serpeggiare che c'è già? Primo, tanto antico non è: cinque secoli. Troppo poco per accampare diritti di esclusività. Secondo, anch'esso è foggiato per figura: sui modi fisici della serpe. Il nuovo estende la figura a una figura dello spirito: se non è poesia, insomma, poco ci manca. E anche quando sembra che tutto vada in sfacelo, il o la parlante più scavezzacollo che ci sia, con le sue sortite, è buona compagnia per il linguista: gli tiene caldo il cuore, viva la testa, lo spirito lieto.

15 ottobre 2014

Cronache dal demo di Colono (26), Lingua loro (33), Lingua nostra (5): "Bomba d'acqua" e "torrente"

Dal Grande dizionario della lingua italiana, alle relative voci.
Torrente. "Corso d'acqua, in part. montano, caratterizzato da portata irregolare con alternanza di periodi di secca e di piene violente in relazione alle precipitazioni atmosferiche; scorre a forte pendenza, in genere incassato strettamente fra gole e interrotto talora da salti e cascate".
Torrentizio. "...Traboccante, irruente...".
Torrentóso. "Letter. Irruente, impulsivo".
Torrenziale. "Che cade copiosamente e impetuosamente".
Torrenzialmente. "Con grande impeto e violenza".
E Riccardo Bacchelli: "Mio padre... vedeva da quei laghi imbrigliate, corrette, regolate le acque pazze e torrentizie e perniciose dell'Appennino". E, sotto cieli diversi, anche Apollonio riceveva dal padre - certo in tempi più recenti ma sempre lontani, ormai - ammonimenti a essere guardingo coi torrenti e, non appena si faceva autunno, a tenersene lontano durante le passeggiate, a non credere alla loro invitante e facile percorribilità. Lui, che di etimologia non sapeva un'acca, dal momento che non sapeva nemmeno cosa fosse un etimo, invitava insomma il bambino, per via di una Erlebnis dagli evidenti riflessi linguistici, a tenere presente che un torrente, da 'corso d'acqua che si dissecca', può evolversi verso 'corso d'acqua impetuoso'. E può farlo senza preavviso.  
Apollonio si chiede di conseguenza se il pretesto fornito dal neologismo bomba d'acqua, oggidì d'uso torrenziale, non stia contribuendo a erodere quanto ancora resta di una consapevolezza un tempo diffusa e testimoniata, come si vede, dal lessico. 
Se ne va così anche il ricordo d'una millenaria cautela negli insediamenti, imposta da un territorio morfologicamente complesso e quindi, se umanizzato (come è, in effetti, e intensamente), bisognoso delle cure di molti (se non di ciascuno). Un territorio reso più complesso, oggi, dall'ineluttabile abbandono di chi vuol giustamente vivere tra gli agi urbani ma pretende che le alture cui ha volto le spalle, lasciate a se medesime, non lo seguano e non vengano giù, per un qualsivoglia, violento capriccio meteorologico, secondo un identico percorso torrentizio.
Sono insomma le terre e le acque ripudiate dagli Italiani che, di tanto in tanto, si presentano a chiedere loro conto del tradimento (linguistico).  

11 ottobre 2014

Sommessi commenti sul Moderno (13): Intellettuali e fenomeni culturali di massa



E viene sempre il momento in cui l'intellettuale storna sulla moltitudine nei cui comportamenti vede riflessa, per fedele parodia, la sua immagine lo spregio inconfessato che non può non nutrire per se stesso.  

10 ottobre 2014

Scherza coi santi... (3): Italo e Galileo

"Il più grande scrittore della letteratura italiana d'ogni secolo": era il 1967. Italo se ne uscì così, a proposito di Galileo, la vigilia di Natale sul Corriere della Sera. Lo pensava, certo, ma come non pensare che pensasse di fare rumore, con la sortita.
E fece rumore, tanto che quasi subito gli fu chiesto (come certo s'attendeva) di tornarci su, per spiegarsi, rispondendo alle osservazioni. Lo fece con larghezza di argomenti. Del resto, testimonianza della sua predilezione per Galileo si trova, come si sa, fino alle sue carte estreme.
Se Apollonio non s'inganna, non ci fu nessuno però che obiettasse a Italo che il guasto della sua affermazione stava nel metodo più che nel merito. Galileo non è il più grande scrittore della letteratura italiana d'ogni secolo. E non lo è non perché non sia un grande, un grandissimo scrittore, ma perché il più grande scrittore, non solo della letteratura italiana ma di qualsiasi letteratura, semplicemente non c'è. E se pare esserci, c'è, tutte le volte che appare, come un feticcio: il feticcio linguistico "il più grande...". Ci si rende quindi colpevoli d'un imbroglio a mettere in giro tale feticcio. Bene che vada, ci si comporta da comizianti o da imbonitori.
Per Italo, insomma, sempre così attento con le parole, un vero e proprio lapsus. Rivelatore della circostanza che, puoi anche chiamarti un giorno Qfwfq o Palomar, puoi volteggiare leggero tra città invisibili, castelli dei destini incrociati e infiniti incassi di intrecci narrativi, ma la nebulosa pesantezza della propaganda in cui t'è capitato di emettere i primi vagiti intellettuali, basta tu perda per un attimo il controllo della lingua, che è ciò che dà forma ai tuoi pensieri e quindi dà a essi espressione, succede che torni.

[Sul tema, nel gennaio del 2011 e nel settembre dello stesso anno.]

8 ottobre 2014

Come cambiano le lingue (9): "A me preoccupa..."

"A me preoccupa la disoccupazione, non l'opposizione": per l'ormai stagionata innovazione sintattica, cresciuta sul principio sottotraccia e ormai giunta, come si osservava qualche mese fa, ai vertici dell'espressione scritta italiana, stasera una nuova consacrazione. 
Portata a Citera e alle orecchie di Apollonio da onde radiofoniche, conteneva la frase qui posta in esordio una dichiarazione (con forte incidenza della funzione poetica, avrebbe detto Roman Jakobson) del giovane Presidente del Consiglio dei ministri italiano, ineccepibile cavaliere degli andazzi, a quanto pare, anche in questo dettaglio irrisorio ("tout se tient"). 
Ghiotta materia tuttavia per cruscheggiare, con accenti estremistici o moderati, che i cruscheggiatori di professione, per interesse o per diletto, non dovrebbero lasciarsi sfuggire (Apollonio l'affida infatti alle loro cure) e che, da parte dell'opposizione - altrimenti a rischio di disoccupazione -, meriterebbe almeno un'interrogazione parlamentare da rivolgere al Ministro dell'Istruzione e volta a fare definitivamente chiarire dall'autorevole esponente del Governo (per fortunata coincidenza, nell'occasione una glottologa) se, alla luce delle vigenti norme grammaticali, un'espressione del genere vada ritenuta corretta nelle sedi ufficiali ed istituzionali o se per essa sia da prevedere una deroga.

6 ottobre 2014

Lingua nel pallone (5): "Dormita"

Nel mondo, quasi tutto è apparenza e, se c'è una cosa che appare, è appunto un gol. Alla visione del gol, spesso iterata e proposta da ogni angolazione fino al disgusto, si riduce ormai il godimento effimero, si direbbe aoristico più che perfettivo, dei cosiddetti appassionati del gioco del calcio. La durata, l'aspetto imperfettivo dell'attività agonistica - trasparente per chi si interroga criticamente sul valore di gioco e del prestito sport - non è roba per il presente, dove tutto è un accadimento frammentario, misurato in centimetri (o in caratteri) e privo d'una coerenza narrativa: collocato - eventualmente - nelle prospettive fantastiche, al meglio immaginarie ma forse ridicolmente e solo oniriche, delle storie interminabili, delle predestinazioni, dei complotti. 
Fu, sotto altro clima, Gianni Brera a teorizzare - se Apollonio non s'inganna - che il gioco del calcio avesse come prova di una partita ben giocata, se non perfetta, uno zero a zero: valesse insomma più per il gustoso e lento percorso che per i suoi eventuali esiti. E fu di nuovo Brera ad affermare che, a fondamento della realizzazione di un gol, eventualmente propiziato da una prodezza, ci fosse sempre un errore. 
Prospettiva umanissima, a pensarci bene, e che oggi si dovrebbe correre ad abbracciare, se i presenti fossero tempi di vera ed esperiente pratica di quanto a ogni angolo si predica: moderazione, rispetto, minimo impatto e così via. 
Non altro merito infatti è da tenere nel conto degli umani, fatta la tara della fortuna, del provare a non demeritare troppo di esserci: sul campo, naturalmente.
Nell'espressione di chi raccontava il calcio o di chi, a qualsiasi titolo, ne parlava, provvido o improvvido che sia, l'errore che genera l'exploit aveva un dì parecchie designazioni: lo si diceva distrazione, disattenzione, sbadataggine, svista, sbaglio, abbaglio, topica, toppata, granchio e così via. 
Oggi, su tutte, prevale dormita, un'innovazione, come designazione ovviamente figurata: il chiasso è tale, sugli spalti, da escludere ogni valore letterale all'espressione, quanto ai protagonisti in campo. Apollonio confessa invece che di dormite - quando assiste, da lontano, a una partita - gli è capitato di farne qualcuna (ed è forse la circostanza cui va messo in conto questo frustolo). 
Il dormita specialistico entrato nel lessico sportivo (ipotizza Apollonio, nell'ultimo lustro: ancora una volta e opportunamente, nessuna registrazione lessicografica) prende ragionevolmente origine da discorsi condotti su registri bassi e colloquiali: quelli nei quali si può apostrofare con un "Che fai, dormi?" un qualche sottoposto (in casi come questi, come si sa, di correttezza politica, quanto al genere, si può fare a meno) giudicato colpevole di uno sbaglio, nell'applicazione di una procedura. 
Se capita così che un attaccante faccia un gol, è perché un difensore "s'è fatto una dormita". E "la dormita" - che succede sia "gigantesca", oltre che "inspiegabile" - può riguardare, se è il caso, un intero reparto: naturalmente, quello delegato alla "fase difensiva".
Del resto, sempre più la figura di chi gioca a calcio è associata a quella di un addetto a procedure standardizzate che hanno appunto "fasi"; ma, di ciò, anche per l'interesse sintattico della questione, Apollonio parlerà forse un'altra volta. 
Gli basta, qui, d'avere scovato tra le pieghe di espressioni correnti alimento sistematico a una scusa (improbabile) per non ammettere che, delle sue già menzionate dormite, responsabile è soprattutto - e tristemente - l'età.

4 ottobre 2014

Cose (1): Bottiglie a suzione



Bere per suzione da una bottiglia, come fosse un capezzolo: segno lampante, per spiriti e corpi, di un'epoca d'infantilismi persistenti, di precocissimi rimbambimenti.

2 ottobre 2014

Linguistica da strapazzo (33): "La corazzata non decolla"

"...la corazzata non decolla" occhieggia da una pagina di un giornale squadernato una fila più in là. Apollonio attende il suo aereo, come del resto chi sta leggendo quel quotidiano di provincia. È il mattino d'un lunedì: il titolo marca un articolo che ha per tema un incontro calcistico delle serie minori. Insomma, cronaca così minuta, contesto così locale, argomento così futile che ci vuole la faccia tosta di Apollonio (o la sua stordita fatuità) per proporlo ai suoi lettori (frattanto tornati due) come esemplare, sotto qualsivoglia rispetto. Eppure...
Quando ricorre nel discorso italiano d'oggidì, corazzata lo fa in virtù di codificata metafora. Della nave da guerra che fu simbolo dell'epoca in cui l'Europa si fece letteralmente d'acciaio e scorrazzò per il mondo, con la sua ambiguità sovente nefanda e prima di rivolgere la sua rabbia verso se medesima, parlano forse solo i libri di storia e i documentari televisivi. Certo, non lo fanno i giornali: nelle pagine dedicate allo sport, poi. Infatti, una corazzata è oggi, d'elezione, una squadra di atleti messa insieme, di norma con larghezza di mezzi economici, per raggiungere i massimi risultati nelle competizioni sportive, inaffondabile e funesta per gli avversari come si presumeva lo fosse, nella guerra per mare, una corazzata. C'è bisogno d'altro indizio per intendere quanto quell'Europa d'acciaio si sia frattanto fatta molle? C'è chi dice appunto "liquida".
Del valore ludico-sportivo di corazzata (ragionevolmente, il prevalente nell'uso), i dizionari non registrano ancora l'esistenza, neanche i più spregiudicati e aperti. Del resto, cosa ci si vuol fare? In un dizionario, non c'è parola che non indossi la marsina e la marsina di corazzata è, a quanto pare, solo quella lisa e, nell'uso, quasi perenta che l'incasella nel lessico bellico marinaro.
Certo che, a partire da lì, (navecorazzata di acque deve averne percorse, allontanandosi dal bacino in cui, come parola, fu varata. Acque che devono averne spento il fuoco metaforico che, gonfiatala come un pallone, l'ha fatta volare verso la prosa ornata dei cronisti sportivi. 
Oggi, in barba a ogni "restrizione di selezione" a un titolista di provincia viene infatti spontaneamente in mente di associare sintagmaticamente corazzata, nome di un processo più che di una cosa, a decolla, predicato con un valore a sua volta metaforico. Roba da poeti laureati o da fini accademici: su quattro parole, spente o accese, due metafore, ma solo due solo perché le altre sono la e non.
A essere precisi, peraltro, con decolla s'è ancora più avanti. S'è in effetti al livello della metafora d'una metafora. La basica fu acquisita all'italiano per via di prestito dal francese (decollare, l'italiano, ne aveva già un altro; per chiarimenti, chiedere di Salome). 
'Scollare', dunque, per 'staccarsi da terra' (come fase incoativa dello stato cui è destinato un velivolo, certo, non un natante), passato, come si sa, al valore universale di 'avviarsi verso un felice sviluppo'. Ha decollato, questo frustolo? C'è da dubitarne. Del resto non è nemmeno una corazzata. Quindi, cosa importa? 
L'importante è che, oggi, per l'occasione, "la corazzata non decolla": oggettivamente. E che, soggettivamente, per la medesima occasione, seduto sulla ferrea poltroncina d'un aeroporto, in attesa di un decollo, un anziano buonuomo - sguardo ilare e perso nel vuoto - sorride. Di se stesso.