28 settembre 2012

Prima l'uovo o la gallina?

Ad Apollonio, Kublai Kan, il suo stordito e sognatore compagno di serate, ha fatto un tiro mancino. Dal fondo della sua memoria ha tirato fuori una canzonetta che suo padre usava cantargli quando era bambino, coi modi, giammai deposti e ormai non più deponibili, del suo sardonico e difficile affetto. 
La canzonetta è del Quarantotto (l'ultimo, ovviamente). Nove anni dopo, Apollonio sarebbe per la prima volta entrato in un'aula: e prima di quel momento, ora capisce, aveva già maturato nella sua testa tutto ciò che sarebbe stato decisivo, nel male e nel bene, per il resto della sua vita (la lingua anzitutto, naturalmente). A farglielo maturare, dunque, anche quella canzonetta e la sua triplice polarità oppositiva.
Sul medesimo terreno, per superficiale contrasto ma al fondo solidali, pedanti e pedestri: a rappresentare gli uni, portatori di una presuntuosa dottrina e di un'odiosa attitudine al giudizio, sta il professore; a rappresentare gli altri, tetragoni custodi dell'assenza di curiosità, Martinelli e la signorina Maccabei.
Sotto (o sopra?), opposta agli uni e agli altri e, soprattutto, in un rapporto che si oppone alla loro opposizione, sta la gallina con una domanda: "Prima l'uovo o la gallina?", che ai pedestri può solo parere contestualmente farsesca e impertinente e per la quale ai pedanti e alla loro supponenza manca invece vertiginosamente una vera risposta. Donde, sovente, il pretestuoso argomento che essa (e l'opinione raggiunge appunto quella dei pedestri) sarebbe impertinente.
Da allora, oggi se ne rende conto, Apollonio non ha mai smesso di dialogare con quella gallina saltata su "dal cortile che confina con l'università". Non ha mai smesso di farsene interpellare con domande che a lui, come evidentemente alla gallina, paiono pertinenti e cui continua ad arrischiare pertinenti risposte. E ne è grato alla memoria e all'ironico trasporto di suo padre, perché è contento dell'insegnamento ricevuto, e ritiene di aver fatto bene a trarne il massimo profitto e di avere così speso fin qui non troppo indegnamente il suo tempo. 
Non fosse altro perché, tra i personaggi della sciocca canzonetta della sua vita, trascorsa per gran parte in un'aula, la gallina, l'autentica gallina dell'allegoria, che salta sempre sul davanzale di una finestra e lo guarda amorosamente beffarda ora con un occhio ora con l'altro, è certo la più simpatica e la più umana. 

25 settembre 2012

Sommessi commenti sul Moderno (5): "Il mestier de l'arme"

Grave, troppo grave la soma di responsabilità finita, per presunzione di sé, sulle spalle degli esseri umani, perché l'ipocrita delega alle macchine, complice un cieco progresso tecnico, non dilagasse, devastando infine ogni perizia, soprattutto la valutativa: "che spesso par del buono il rio migliore". 
Sintomo della maturazione del processo e sineddoche d'ogni meccanizzazione e d'ogni macchina a venire fu, come si sa, la ghigliottina, che (qui lo si è già detto) tagliava le teste di chi la subiva solo perché aveva già prima reciso (e radicalmente) le teste di chi l'aveva concepita e messa in opera.
Agli umani vigili (non si vuol dire intelligenti), già sul suo sorgere, la vicenda s'era d'altra parte presentata chiara, nelle sue premesse e nei suoi immaginabili sviluppi, com'era apparso chiaro che il dominio sperimentale che meglio si presta al suo apprezzamento, tanto etico quanto teoretico, è quello dell'esercizio della violenza (che poi si sia trattato e si tratti di violenza mascherata o solo differita poco importa).
Ecco, appunto, Ludovico Ariosto, sul principio del Cinquecento, a proposito di macchine che avrebbero poi indirizzato l'umanità verso Hiroshima e oltre: "Come trovasti, o scelerata e brutta / invenzion, mai loco in uman core? / Per te la militar gloria è distrutta, / per te il mestier de l'arme è senza onore; / per te è il valore e la virtù ridutta, / che spesso par del buono il rio migliore: / non più la gagliardia, non più l'ardire / per te può in campo al paragon venire. / Per te son giti ed anderan sotterra / tanti signori e cavallieri tanti, / prima che sia finita questa guerra, / che 'l mondo, ma più Italia ha messo in pianti; / che s'io v'ho detto, il detto mio non erra, / che ben fu il più crudele e il più di quanti / mai furo al mondo ingegni empi e maligni, / ch'imaginò sì abominosi ordigni."
"Il mestier de l'arme": dall'ironia amara, sorniona e perciò sublime di Ariosto alla sconsolata, livida e perciò sublime amarezza di Ermanno Olmi:


24 settembre 2012

"...agli uomini preferisco le macchine"

A dirlo ad Apollonio, e con una sfumatura di sufficienza, è un più giovane collega del suo sparuto e ormai attempato alter ego mondano. Occasione: la celebrazione d'uno dei riti valutativi che marcano periodicamente la vita universitaria.  
"Umana," - era venuto fatto ad Apollonio di sussurrare, meditando fra sé e sé, in un momento di pausa del rito - "l'università, in fondo, è cosa umana". 
E quello, còlto, lui solo, il sussurro: "Ma non dovrebbe esserlo e a me piacerebbe che non lo fosse perché agli uomini preferisco le macchine".
Come se le macchine non fossero (e sempre) esseri umani camuffati. Come se molti esseri umani non fossero (spesso) macchine camuffate: quindi, esseri umani doppiamente e più che doppiamente camuffati.
Apollonio sospende a quel punto ogni sussurro. "Pover'uomo," - pensa - "anzi, povera macchina".

21 settembre 2012

Linguistica da strapazzo (1): Boccasana



Basta una pubblicità a ricordare una cosa banale: storicamente, nomi propri vengono da nomi comuni e da loro combinatorie sintattiche, sovente ancora in quel modo trasparente che solo l'uso denominativo ("Ciao Boccasana") opacizza. Sul come di tale opacizzazione, in questo blog, capiterà magari di tornare: non è privo di interesse.
Ma meglio di come lo farebbe un filosofo del linguaggio (oltre che, ovviamente, un professore di linguistica), basta una pubblicità a chiarire una cosa non altrettanto banale: in modo ultra-storico, tutto ciò è possibile grazie all'antonomasia, il motore linguistico del processo che poi capita di osservare in accadimenti che, come omaggio a Giovanni Verga, ad Apollonio piace chiamare "'nciurie" (cosa siano, lo spiega la graziosa linguaccia che chiude l'annuncio) e sulle quali, forse, succederà un giorno qui ci si fermi più di quanto si fece con un frustolo di qualche anno fa.

20 settembre 2012

Vale e Costa

"Ciao, sono Valentina Vezzali ma quando non sono in giro per il mondo sono Vale, la mamma di Pietro": in scena, una testimonial scende dall'Olimpo che l'abilita alla funzione. In esso, il suo nome risuona nella forma paradigmatica: è il nome di un luogo comune individualizzato, noto "in giro per il mondo". Certifica la qualità eroica di chi lo porta e ne sancisce, volendo, la predisposizione eponimica. 
A valle, sotto un albero, con una barretta di cioccolato qualsiasi sotto i denti e come "madre di Pietro", Valentina Vezzali è Vale: il luogo comune individualizzato diventa un individuo-luogo comune, prima che per ogni altra caratteristica, come è appunto la banalissima maternità, per la forma del nome cui risponde: un ipocoristico che, come Apollonio rilevava qualche tempo fa, risponde ai canoni dell'andazzo. 
E l'andazzo vuole che di una piccola Costanza si faccia oggi una Costa. Come Vale (ma si è proprio sicuri che valga?), l'esempio è autentico. È stato raccolto dalla voce di due giovani e adoranti genitori che nelle sale di un aeroporto non smettevano (forse inconsapevoli, forse no) di evocare così un'amara, possibile verità, oggi celata sovente dall'ebbrezza (quanto duratura?) del volere e dell'avere voluto procreare. 
Forse vale; certo costa. Lo si sa bene: costa.

[Un paio di settimane dopo, ecco una valorosa attestazione scritta di Cami

16 settembre 2012

Verbo, nome, aggettivo

Verbo, nome, aggettivo: categorie lessicali che da qualche millennio, eventualmente sotto designazioni diverse, più che accompagnare, determinano ogni riflessione sulla lingua, anche la più sofisticata, anche la più ipoteticamente innovativa. 
Si fa tanto parlare, oggi, di nuove frontiere che alla ricerca aprirebbe, per esempio, certa neurolinguistica. Sarà. 
Non c'è però bisogno di grattar troppo la crosta di studi e pubblicazioni che fan lussuosa mostra d'uno stile da scienze cosiddette dure per vedere occhieggiare, maligne, le nozioni grammaticali di sempre e, con esse, le menzionate categorie lessicali, approssimative e ingannevoli. 
La caccia, insomma, sarà pure organizzata con la massima serietà ma ciò di cui si va a caccia (ed è così la premessa concettuale che orienta i cacciatori) sono le solite bestie favolose. E quando si è convinti che tali bestie esistono, se ne può star certi: non c'è metodo sperimentale che impedisca di trovarle e, trovatele, di costruirci sopra poi i più convincenti racconti fantascientifici.
Verbo, nome, aggettivo: si capisce così (sempre che si voglia capirlo) che la sbandierata novità non esce dalla gabbia di un modello, più che linguistico, ontologico. Un modello al tempo stesso tascabile e gigantesco, rigido e insinuantemente pervasivo. Pronto a tutti gli usi: ad accompagnare le chiacchiere apparentemente ingenue di chi parla di lingua al bar o sul treno come a sostanziare le alte speculazioni dei filosofi e le accurate ricostruzioni dei filologi.
A ribadirlo qui, a ribadire ciò che invero tutti sanno, anche coloro che, dietro le bancarelle del mercato delle idee, schiamazzano lodi all'inaudita novità della propria merce, a dire che si tratta di cinema (e non di quello vero, cui vale la pena di appassionarsi), si fa immancabilmente la figura del bambino o dello sciocco: meglio, del bambino sciocco. Apollonio lo sa. Ma l'ha confessato più volte: come un bambino, come uno sciocco, è un ottimista. Gli pare così (per sua incoercibile volgarità di spirito) che sempre, e soprattutto nei giorni dei celebrati fasti, sia necessario ricordarlo.

13 settembre 2012

1 settembre 2012

Il tonfo del sasso nel pozzo

L'immagine d'origine è di Andrea Camilleri. Scrivere, ricorda Apollonio di avergli sentito dire come allusione alla sua vicenda pubblica di scrittore, è gettare un sasso in un pozzo e, sapendo che la cosa può durare molto a lungo, attenderne il tonfo.
Solo se non si ha però niente altro di meglio da fare, qui si osa aggiungere. Il pozzo in cui, a dire il vero, si getta il proprio sasso non ha fondo. L'attesa, di conseguenza, non avrebbe limiti. Figurarsi quelli, variabili ma in ogni caso a vista, d'una vita.