24 aprile 2024

Minuzie (1): Moretti in "C'è ancora domani"

 

La "Gelateria Moretti", nel fotogramma: un fermo-immagine che precede di un attimo il passaggio narrativo nel quale viene distrutta da una esplosione, in C'è ancora domani, il film di Paola Cortellesi (e, con lei, degli sceneggiatori Furio Andreotti e Giulia Calenda). Apollonio non ha trovato in rete un'immagine in cui l'insegna si veda meglio. Essa ha in effetti il suo fugace risalto nella scena che segue il pranzo di fidanzamento tra Marcella Santucci e, appunto, Giulio Moretti. Non, si ponga, Angelucci, Ceccarelli, Mancini, come sarebbe stato possibile per verosimiglianza geolinguistica. Moretti.
A proposito di onomastica nelle opere di fantasia, chissà se, tra le moltitudini che hanno visto la pellicola e tra le numerosissime penne che l'hanno commentata, c'è chi ha fatto caso alla scelta del nome. Nella Roma cinematografica, una scelta marcata (à suivre).
Qui il trailer dal quale è tratto il fotogramma:
 

29 marzo 2024

A frusto a frusto (137)

 




Ogni temperie ha i suoi personaggi pubblici. Grandi, piccoli o minimi che siano, sono, di norma, i loquaci sintomi dei morbi che l'affliggono.

8 marzo 2024

Lingua loro (46bis): "...a doppio cieco"

 

Apollonio non sa dire se a proposito delle procedure ormai di rigore per le pubblicazioni scientifiche (probabilmente no), ma a commentare il "doppio cieco" ci aveva già pensato Altan (à suivre). 


28 febbraio 2024

Lingua loro (46): "Peer Review a doppio cieco"

Il nesso Double-Blind Peer Review designa una pratica fattasi norma cogente, nel corso dell'ultimo cinquantennio. Essa prevede che chi procura un giudizio sopra uno scritto scientifico proposto per la pubblicazione o per la presentazione a un congresso ignori chi ne è l'autore e che, reciprocamente, l'autore ignori l'identità del revisore. Niente nomi propri, per carità: i nomi propri sono settici.
Qui si sospende il giudizio sopra la pratica. Che possa essere calamitosa è ipotesi che ha cominciato a serpeggiare non da ieri, negli ambienti scientifici. E la teoretica, cui essa pretende di essere al servizio, non tiene evidentemente troppo conto (anche se fa sembiante di farlo) di una correlata etica. Per tradizione, si ritiene per esempio che l'anonimato di una comunicazione non sia in effetti etico emblema di probità.
Come s'è detto, questo frustolo non si impegna tuttavia in temi tanto importanti: ogni temperie ha l'etica e la teoretica che merita e guai a toccargliele, se non si vuole buscarne in contraccambio botte da orbi (wow). 
Ci si limita così a considerare brevemente la parziale resa in italiano della designazione della pratica. La si legge nel titolo e la si incontra regolarmente, frequentando i circuiti nazionali della Scienza (con articolo determinativo e iniziale maiuscola, come ormai è d'obbligo) e della sua amministrazione (in questo documento, un esempio). 
Una resa siffatta ha certamente visto la luce in ambienti che all'inflessibile serietà degli studi, al grande valore scientifico e alla cura maniacale per la considerazione sociale, uniscono una naturale disposizione al comico e alla (auto)parodia, soprattutto quando ammiccano a una varietà linguistica di prestigio. A essi va la gratitudine per il buonumore che ne deriva.
Leggere o udire a doppio cieco (e non a doppio non vedente, si osservi sorridendo) invita inoltre a volgere per analogia il pensiero a un'opera d'arte che, di ciechi, ne mette in scena addirittura tre volte due, forse come illustrazione del modo con cui, proprio sulla sua soglia, si stava presentando l'evo moderno:

26 febbraio 2024

Linguistica candida (67): Sapienza della lingua

La facoltà umana che è uso chiamare lingua (e che, sempre per metonimia, sarebbe più allusivo della sua realtà chiamare orecchio) è un sistema incessantemente processuale e un processo costantemente sistematico, in ogni momento e in ogni suo aspetto. 
Si illude o millanta chi proclama di avere, già adesso o in prospettiva, il modo di farne l'oggetto di una descrizione compiuta, ancor peggio, di una comprensione integrale. 
Al contrario, è realistico e adeguato mettersi nella disposizione d'animo e nella condizione, se ci si riesce, di cogliere, per via di pertinenza, ciò che non varia nella varietà e ciò che varia nell'invarianza del quasi nulla della lingua di cui si ha la ventura di fare esperienza diretta o per via di studio. 
Ecco perché, senza una filologia, non questa o quella filologia, ma inderogabilmente una filologia, l'attenzione rivolta alla lingua diventa un'attività ben che vada spassosa, pur nelle sue complicazioni, ma vana, in termini di conoscenza. Parimenti vana, fuori di un gioco di erudizione, è tuttavia la medesima attenzione quando, invocando specularmente la storia come principio, essa finisce per fare da servile complemento a una filologia, riducendosi a una filologia d'accatto.
Esperienza di un quasi nulla, s'è detto. Di qualsiasi strumento di raccolta si disponga, i cosiddetti dati non saranno infatti mai più di un quasi nulla, se, anche al di là della loro qualità, il loro numero è messo a confronto con la quantità indefinita non solo di ciò che della lingua è patente, ma anche di ciò che non lo è e che è la stragrande maggioranza delle sue evenienze, convenzionalmente dette pensiero. 
Non è curioso in effetti ed è indiscutibile che la facoltà espressiva umana destini alla latenza la quasi totalità delle sue realizzazioni. A ben vedere, sarebbe infatti una troppo atroce condanna, per gli esseri umani, vivere nel rumore perenne che deriverebbe dalla manifestazione dell'indefinito numero dei loro pensieri. 
È d'altra parte ovvio che si parli di quantità indefinita, quando è in gioco la lingua. Si tratta, come s'è detto in esordio, di una facoltà umana e del relativo comportamento. Evitando in proposito di montarsi la testa, è dunque opportuno, oltre che sobrio ed elegante, lasciare la qualificazione di infinito eventualmente a chi o a quanto ne fosse adeguatamente descritto. Di una cosa si può essere sufficientemente certi: infinito non è niente di ciò che è al tempo stesso umano, lingua inclusa, in ogni suo aspetto.
In funzione di un'indefinita finitezza e del correlato quasi nulla dell'esperienza che se ne può fare, cogliere quanto non varia nella varietà e quanto varia nell'invarianza è in effetti ciò che, per naturale disposizione e sensibilità, fa con la lingua ogni essere umano. Lo fa con accanita dedizione nei primi anni della sua vita e, via via con più scarsa capacità e minore interesse, nel prosieguo, ma caso mai avendone qui e là barlumi di consapevolezza.
Scienza o, forse meglio, sapienza della facoltà espressiva umana convenzionalmente detta lingua è provare a conservare, nei suoi confronti, disposizione, sensibilità e dedizione infantili, con l'obiettivo di rendere meno effimera e precaria la luce che sopra essa getta, come può, una consapevole maturità. 

15 febbraio 2024

Buoni e cattivi

A parziale fondamento intellettuale, e si vorrebbe dire anche morale, di una civiltà in cui si pretende ancora d'essere iscritti (chissà con  quanta ragione, c'è da chiedersi), sta l'Iliade. 
Non è rappresentazione poetica di stati umani e sovra-umani di concordia, è appena il caso di ricordare. Forse vale però la pena di osservare come il dissidio messo in scena dal poema non oppone buoni e cattivi. E ciò vale tanto per gli umani, per i quali la contesa è ovviamente mortale, quanto per i sovra-umani, per i quali essa non lo è. 
Se il poema aspirava a suscitare stati d'animo in chi un dì lontano lo ascoltava, in chi poi lo ha letto e in chi ancora lo legge, non ne fomenta nessuno che si appoggi basilarmente sopra la distinzione tra buoni e cattivi. Rabbia, pietà, orrore, ammirazione, sdegno, commiserazione, ribrezzo, scherno: in linea di principio, erga omnes. E, con i medesimi bersagli, uno per uno, i sentimenti conversi.
Immaturità di un pensiero e di un'epoca che, certamente per un errore di prospettiva, vengono considerati aurorali e, a ben vedere, erano invece pienamente e luminosamente diurni? 
Decrepito tramonto di una rimbambita temperie, piuttosto, in cui, non da ieri, chi ha pretese intellettuali emette giudizi e divide il mondo in buoni e cattivi.

9 febbraio 2024

Indirizzi di metodo, per giovani che non ne necessitano (37): Il quid e il come




Sciogliere un inconoscibile quid nell'umile prassi di un come, senza lasciarne residui, è il superbo orizzonte dell'esperienza umana.  

31 gennaio 2024

Intolleranze (14): "Sold out", "Reading"


Si esprime così, in una rete sociale, la casa editrice che ebbe in Leonardo Sciascia il suo mentore. Quando "uno voli fari triatro" (avrebbe scritto la più celebrata delle sue firme nel suo idioletto letterario), uscirsene con un tutto esaurito sarebbe da zotici. Scrivere lettura ancora peggio: non si tratterebbe appunto di un "evento".
Nell'ambiente dei colti e letterati e delle letterate e colte, si procede al proposito in compatta falange: è tutto un sold out e tutto un reading. Né c'è da illudersi che qualcuno, per il rispetto che gli si dovrebbe, possa uscirne indenne. 
Una prova? Assoggettato a un reading anche un dolente e irridente fustigatore di cliché e di stupidità espressive:


Si potrebbe commentare che, a differenza dei vivi volentieri dediti a simili pratiche, i morti non hanno nessuno che li difenda, come è stato tristemente scritto (qui non si sa dire da chi). Ma lo spirito di questo diario è sorridente. E fin quando c'è qualcuno che sorride, si può morire contenti. 

29 gennaio 2024

Lingua loro (45): Ancora su "allooora..."

Un frustolo fortunato, il precedente. Ha procurato ad Apollonio, mediatrice la casella postale del suo alter ego, il conforto di lettori e lettrici di norma acquattati e acquattate dietro il paio che qui invece di tanto in tanto si manifesta. 
Il fenomeno che vi si espone ha certamente fattispecie più varie della singolare e nuova (ma, forse, solo nella forma del suo attuale dilagare) che si è prestata alla estemporanea segnalazione: ne sono giunte numerose testimonianze. 
Insieme con esse, è anche giunta un'integrazione autorevole e gustosa. Autorevole perché viene da Paolo D'Achille. Gustosa perché consente ad Apollonio di suggerire una correlazione inattesa e, a suo parere, rivelatrice.
Scrive D'Achille all'alter ego di Apollonio (menzione e citazione sono state graziosamente autorizzate): "[Allora] è molto frequente come segnale di presa di possesso [della parola], ma non è solo dei professori. Ho visto e sentito che lo usa spessissimo Lilli Gruber a 8 e mezzo, per riprendere la parola, e spesso per mostrarsi in disaccordo con chi sta parlando o per interrompere eventuali sovrapposizioni di interventi". Per chi si occupa criticamente di espressione e di comunicazione, un'osservazione siffatta è preziosa. 
Apollonio assiste solo molto occasionalmente al popolare programma televisivo di approfondimento giornalistico. Quanto basta però a sospettare che gli "allooora..." che D'Achille segnala come frequenti sulle labbra della anchorwoman corroborino e non indeboliscano l'ipotesi di una caratterizzazione professorale del vezzo. Sono infatti veri e propri sintomi dell'attitudine fondamentalmente didattica del programma e della sua conduttrice. 
Ne viene insomma non si dice spiegata, ma perlomeno illustrata l'impressione che in 8 e mezzo si pratichi un giornalismo da maestrinə (la locuzione tradizionale, nel caso specifico appropriata quanto al genere, potrebbe suonare a chi legge come non corretta politicamente). 
Numeri e successo dicono tuttavia che, al di là del genere grammaticale, un simile modo di comunicare piace a molti e a molte. Sarà per la nostalgia degli anni belli in cui, sotto uno sguardo giudicatore e severo, costoro scaldavano i banchi.

26 gennaio 2024

Lingua loro (44): "Allooora..."

C'è un costante, quasi ossessivo comparire di un avverbio tra le osservazioni procurate all'alter ego di Apollonio dalla frequentazione di studenti e studentesse di università, negli estremi anni italiani del suo servizio
Sollecitati e sollecitate a prendere la parola, nella situazione comunicativa di un contesto didattico d'una qualche formalità e quindi in quella ovvia di una prova di esame, in apertura, sulle loro labbra compare invariabilmente un "allooora...". Talvolta segue, talaltra non segue quanto chi proferisce l'avverbio è richiesto o richiesta di dire. In questo secondo caso, l'"allooora..." incipitario resta sospeso ed è la sola cosa che capita di ascoltare da quella bocca (spesso, va detto, grazie al Cielo: tra il silenzio e la parola, non di rado il silenzio è ciò che ferisce di meno). 
Bronisław Malinowski e, sulla sua scorta, Roman Jakobson, che ne formalizzò l'intuizione nel quadro di una teoria degli eventi comunicativi, individuarono in fenomeni siffatti l'emergere della funzione fàtica. Nel caso specifico, la certificazione della presa di possesso e dell'apertura del canale sul quale, procedendo, ci si prepara a dare uno sviluppo al contatto e al rapporto comunicativo, fornendo per esempio le informazioni richieste. 
Fin qui, pertanto, nulla di sorprendente. La vita linguistica di ogni giorno pullula di espressioni che valgono 'sono qui e sono disponibile e pronto a parlare con te' o 'aspetta un po', tieni aperte orecchie e attenzione, quello che ho da dirti arriva a momenti' o ancora altro del genere. 
Ma, a parte un'estensione nell'uso dell'avverbio allora che, se non ci si sbaglia, i lessici non hanno ancora opportunamente registrato (estensione sui modi della quale forse qualcosa ci sarebbe da dire dalla prospettiva di una diacronia grammaticale), l'osservazione, perlomeno come essa si è presentata ad Apollonio e al suo alter ego, sembra disporre di un curioso e correlato aspetto sociolinguistico. 
Sono in apparenza testimoni dell'uso in questione parlanti di una classe d'età che un dì si sarebbe detta giovanile e adesso più opportunamente tardo-adolescenziale, se non affatto adolescenziale e che un dì si sarebbe detta eventualmente semi-colta e oggi non si saprebbe più come definire, respingendo anche solo il sospetto che drammaticamente essa sia da qualificare come incolta. 
Costoro se ne stanno inoltre facendo testimoni in un registro a loro giudizio tutt'altro che informale, come è quello di un esame universitario. È più che ragionevole l'ipotesi che, come si diceva un tempo, non sia farina del loro sacco e che in realtà essi stiamo imitando un comportamento percepito come appropriato e prestigioso.
Apollonio e il suo alter ego si sono così messi a un più largo ascolto del contesto in cui hanno registrato il fenomeno: la scuola. Oggi, la scuola (l'accademia ne è una parte) è in effetti colma di chiacchiere. Forse lo è stata sempre, solo che da qualche decennio, l'eccesso si è reso più evidente. C'è da credere siano diventate meno alte le mura entro le quali la chiacchiera si produce: essa tracima più facilmente e allaga così ogni spazio (materiale e morale).
Ebbene, la fonte degli "allooora..." incipitari studenteschi viene pienamente alla luce, se si ascolta con attenzione e con specifica intenzione chi, nella scuola e soprattutto nell'attività didattica, prende la parola. Viene alla luce, se ci si mette all'ascolto dei e delle docenti, che, in tale contesto comunicativo, sono i e le titolari autorizzati/e, effettivi/e e permanenti della parola, sono coloro che non hanno bisogno di qualcuno che gliela dia, la parola, e che invece, quando è il caso, la danno. Un professore, una professoressa comincia a parlare? Due volte su tre, la sua prima parola è "allooora...".
Con il suo stucchevole sapore semi-colto, il vezzo viene da lì. Ed è un paradossale successo didattico. Sono professori e professoresse che, almeno in questo, sono infatti riusciti a insegnare qualcosa ai loro e alle loro discenti: hanno insegnato che, in principio, sì, c'è la parola, ma che questa parola è "allooora...".
Ai due lettori di Apollonio parrà inverosimile il risultato di questa minuscola ricerca sociolinguistica, condotta, lo si ammette, molto alla buona e insieme con il suo alter ego: fantasie di due vecchi rimbambiti, penseranno. Si sbagliano. 
La gente che lavora in pubblicità è gente sveglia e seria, gente che con la comunicazione ci campa e campa la famiglia, che alla comunicazione si avvicina con competenza e con strumenti atti a misurare il peso di ogni parola, di ogni espressione. Gente che sa bene, meglio dei lessicografi e dei grammatici che vanno per la maggiore, chi dice, donde viene, cosa vale e chi qualifica "allooora...". Ecco appunto cosa, a definire tipicamente una docente, le mette in bocca come prima parola una pubblicità:


   

21 gennaio 2024

A frusto a frusto (136)


Sarebbe bello (utile, non si sa, ma qui poco importa) se gli esseri umani dedicassero perlomeno la metà del tempo che mettono per cambiare il mondo e tutto quello che perdono per interpretarlo a modesti tentativi di procurarsi qualche provvisoria idea di come sia fatto. 

12 gennaio 2024

Le cose 'come sono' esistono nelle parole...

"The things 'as they are' exist in words; therefore words should be handled with care lest the picture, the image of truth abiding in facts, should become distorted - or blurred", scrive Joseph Conrad al suo corrispondente Hugh Clifford sul finire del 1899. 
Gli sta dicendo cosa pensa di un libro che Clifford gli ha mandato in lettura e il giudizio è amichevolmente positivo. Conrad "si permette di fargli solo un'osservazione": "Non lasci abbastanza spazio alla fantasia. Non intendo i fatti - i fatti non possono essere narrati troppo esplicitamente - alludo semplicemente all'espressione. È vero che un uomo che conosce tanto (senza tener conto della maniera in cui la sua conoscenza è stata acquisita) può ben risparmiarsi il disturbo di meditare sulle parole; solo che le parole, i gruppi di parole, le parole isolate, sono simboli di vita, posseggono nei loro suoni e nelle loro forme la capacità di presentare proprio ciò che tu desideri imporre alla visione mentale dei tuoi lettori [...] Puoi dire che queste sono considerazioni adatte ad un semplice artigiano, e puoi anche dire - ed è concepibile - che non ho altro a cui pensare. Comunque tutta la verità sta nella presentazione, e di conseguenza la forma dovrebbe essere curata nell'interesse della veracità. Questa è l'unica moralità dell'arte, a parte il soggetto" (i corsivi sono nel testo e l'italiano è di Alessandro Serpieri).
Questo diario inaugura il suo nuovo anno e Apollonio è felice di farlo con simili parole, in compagnia, spera, dei suoi due lettori. Aprire un libro a caso, nella propria biblioteca, procura il piacere sopraffino di trovare, dopo anni, dimenticate sottolineature. Anzitutto, esse ricordano ad Apollonio come quelli che crede suoi pensieri, per fortuna, non sono suoi e, passati di mano in mano, molto meglio detti, chissà da qual fondo di antichissima, si direbbe, primordiale consapevolezza essi vengono. Vale insomma la pena di rompere il silenzio, per farli ancora echeggiare, anche sommessamente.
Dietro il silenzio, ammette, c'è di tanto in tanto qualche sconforto. Meglio, c'è un'incidenza talvolta acuta, nella sua faccia depressiva, di quel sentimento di inanità che, di norma, al contrario gli fa euforicamente da corroborante garanzia dell'accettabile grado della sua libertà. 
Non servire a nulla e a nessuno aiuta a non servire nessuno e nulla.