31 maggio 2011

Semantica e grammatica della natica

"Qualunque cosa se ne dica, la natica non svolge una grande attività nella vita. Non richiede un uso frequente del verbo transitivo. Richiede il verbo medio o intransitivo. Del resto, non chiede assolutamente nulla. In quanto soggetto non ha una grande esistenza. La troviamo preferibilmente descritta nella sua modalità d'essere, se così si può dire. Si parla più volentieri delle sue forme, del suo movimento, delle sue metamorfosi. In breve la natica ha un solo accessorio indispensabile, ed è l'epiteto. Il quale, a dire il vero, non modifica la sua natura. La natica è là, l'attributo la rende sfumata". A supporto di questa gustosa pagina grammaticale, è stato di recente fornito un formidabile apparato di dati testuali, nei mezzi di comunicazione di mezzo mondo. Questi hanno mostrato quanto essa sia veritiera e condivisibile, nei suoi contenuti. Viene da un libro del 1995 di Jean-Luc Hennig, Brève histoire des fesses, nella traduzione che Giancarlo Pavanello ne ha procurato l'anno successivo per il pubblico italiano, sotto il titolo di Breve storia delle natiche.
Sia detto per inciso che, in funzione della linguistica dei corpora (ohibò!), la ratio della cosiddetta grammatica delle costruzioni trova in queste poche righe una sorta di rapida spiegazione, come ne vengono illustrate, per indiretti aspetti, la nozione di ruolo tematico, la classificazione semantica dei verbi e altri importanti concetti oggi correnti in linguistica. Se Apollonio si ferma sul passo, non è certo però per sentenziare sulle natiche promotrici di tante discussioni né per affrontare problemi di teoria linguistica rilevanti come gli evocati.
Anzitutto, dubita infatti di esserne capace. Sono problemi troppo nuovi e pulsanti per le sue sfilacciate corde di uomo anziano e di vecchio strutturalista. Si aggiunga che egli nutre un rispetto, quasi superstizioso, tanto per la natica quanto per la semantica, i cui nomi (quelli veri, intende) non dovrebbero, a suo parere, mai farsi invano.
In secondo luogo, la vigile attenzione dei suoi smaliziati cinque lettori non ha certo bisogno d'essere sollecitata a proposito di nessuna delle due questioni: di natica e di semantica ne sanno sicuramente più di lui. E chi scrive, diceva Italo Calvino, lo fa per un lettore che immagina migliore di lui. Principio cui chi cura questo blog si tiene strettissimo: fosse altrimenti, varrebbe la pena?
E allora, cosa c'è in ballo nel passo, per Apollonio? Solo una minuscola curiosità. E per soddisfarla, chiede soccorso a chi, diversamente da lui, avesse eventualmente il bel libro di Hennig a disposizione nella lingua originale.
La questione è di terminologia comparata e confluisce nell'immenso bacino dei problemi della traduzione. L'"epiteto", dice in italiano il brano, è il solo accessorio grammaticale indispensabile della natica. E a rendere la natica sfumata è l'"attributo". Nel testo francese, c'è da scommettere, "epiteto" suona come "épithète" e "attributo" come "attribut".
In rapporto con la terminologia grammaticale italiana, tanto l'uno quanto l'altro sono tuttavia dei faux amis. Ed è certo una poco simpatica trappola, proprio nel cuore della lingua speciale della disciplina che dice di occuparsi di lingue scientificamente. L'"épithète" francese è infatti l'italiano "attributo": una bella natica. L'"attribut" francese è l'italiano "predicato (nominale)": le sue natiche erano deliziose.
Se fosse come qui si immagina, il traduttore avrebbe forse dovuto essere più attento ai valori grammaticali di ciò che traduceva. Il passo l'avrebbe meritato. Parte del suo gusto, per l'intenditore di natica e di grammatica, sta proprio lì. Insomma, se Apollonio non si sbaglia, tirando come sta facendo a indovinare, la traduzione delle due proposizioni avrebbe dovuto suonare come segue: "In breve la natica ha un solo accessorio indispensabile, ed è l'attributo. Il quale, a dire il vero, non modifica la sua natura. La natica è là, il predicato la rende sfumata" [forse, anche qui, "le dà le sue sfumature"].
C'è bisogno di precisare che il tema è di futile e peregrina pedanteria? Ma se ne leggono di diversi in questo blog? Comunque sia, per avere conferma delle sue ipotesi filologiche, Apollonio chiede soccorso a chi potrà fornirglielo. Come ricompensa, promette (ma senza promettere di mantenere la promessa) di metterlo privatamente a parte di un castissimo aneddoto. Gli accadde di ascoltarlo dalla voce di colui che, incolpevole, lo introdusse (or sono quasi quaranta anni) agli studi linguistici. L'aneddoto ha appunto come tema le natiche. E, confermando l'acuta teoria grammaticale di Hennig, termina proprio con una proposizione con predicato nominale: "Quelle natiche non mi sono nuove".

27 maggio 2011

Parole che parlano (5): Millennio

Ora è una dozzina d'anni, millennio stava sulla bocca di tutti e, se così si può dire, se ne aveva ben donde. Come evento preparatorio, non capita proprio ogni giorno di vedere cambiare tutte insieme le cifre del "contachilometri" con cui l'Occidente calcola arbitrariamente la deriva dal suo incipit cristiano. Non capita ogni giorno di potere, infine, mutare in uno l'ultimo zero di una sequenza di tre, rompendo così l'apparente sospeso incantesimo di un nulla. Come non attendersi allora un po' di infantile eccitazione? Come non giustificarla?
Pian piano, millennio è rientrato nei ranghi. La vieta e triste quotidianità del decennio trascorso l'ha ingoiato. Il problema di molti, dall'inizio del nuovo millennio, è diventato sopravvivere oltre, come si dice, la terza settimana. Chi ha più animo di evocarlo, il millennio? Sulla bocca o sotto la penna di qualche attardato, millennio tuttavia resiste e le sue ricorrenze, fuori della banalità, ne stagliano meglio il profilo sull'orizzonte, così che oggi (pensa Apollonio) se ne può dire profittevolmente.
Proprietà universale delle parole è di avere valori etici e teoretici mutevolissimi e dipendenti strettamente dal punto di vista a partire dal quale esse vengono proferite. Millennio è tra quelle che meglio palesano tale proprietà.
Il punto di vista retrospettivo fa infatti di millennio una parola teoreticamente proba. Combinata al passato, essa è soggetta a verifica. La verifica la rende immediatamente nobile. E anche elegante. Due millenni di storia ha la Chiesa. Laico quanto voglia, chi ne dubiterà? E chi penserà che la sua (eventualmente criticabile) testimonianza non poggi sopra una veneranda permanenza? In funzione del passato, millennio è una bella parola.
Si passi invece adesso al punto di vista prospettivo. Millennio prende subito l'aspetto di un emblema: dati gli insuperabili limiti umani, l'emblema di una millanteria teoretica. E (come fa notare ad Apollonio un cortese sodale) non si tratta certo di un caso: millennio e millanteria rampollano dal medesimo stigma etimologico.
Il millantatore che si pone in bocca o sotto la penna il millennio prospettivo farà ridere, di conseguenza. L'ilarità non deve fare dimenticare però che, coniugata al futuro, millennio è parola eticamente sinistra. E ce ne sono prove lampanti. O ci si è già scordati del tausendjähriges Reich, del Reich millenario della propaganda goebbelsiana?
Altro che millennio, ovviamente. Come si sa retrospettivamente (è la dura legge cui deve sottostare una parte importante della cosiddetta conoscenza umana), tutto durò ancor meno di una generazione. Una miserabile dozzina d'anni. Non c'è quindi migliore prova della millanteria spudorata e ridicola che si accompagna al millennio prospettivo, da commentare eventualmente, imparando da Totò, solo con un "Ma mi faccia il piacere!". Di nuovo, però, la risata si gela. Complici la stupidità e la fulminea velocità del suo contagio, quanto è tragicamente costata la prova che si trattava di una invereconda millanteria?
La replica di una tragedia si presenta di norma come una farsa. Il consolatorio pensiero si deve a Karl Marx, come si sa: un noto specialista del pensiero prospettivo. Quindi sarebbe forse il caso di fare gli scongiuri. In proposito, è già del resto indubitabile che, almeno per un aspetto della questione, Marx come profeta si sbagliava. Ci si riferisce al numero grammaticale. Anche quanto a millennio, la tragedia, replicata, non si realizza infatti come una sola farsa ma come una sterminata serie di gag grotteschi e lillipuziani.

25 maggio 2011

Il Belpaese: 150 anni di storia per antonomasie

Al culmine del Risorgimento, ora è un secolo e mezzo, l'Eroe dei due mondi saluta come monarca italiano il Re galantuomo, incontrandolo nei pressi di un piccolo comune campano. Il secondo era da qualche anno succeduto, sul trono della Città della Mole, al Re tentenna, quello dello Statuto. L'Unità fu tuttavia merito quasi per intero del Tessitore: "...la Chiesa... lo Stato...". Tutto finì con la Breccia di Porta Pia e con il Discorso di Stradella ma la svolta portò dritto allo Scandalo della Banca Romana.
Seguì il Regicidio. Il Re buono cade vittima di un attentato. Di lì a poco, sarebbe morto anche il Cigno di Busseto. Poi, come si sa, la Grande proletaria si mosse alla conquista della Quarta sponda. Sul costume politico nazionale conseguenze gravi ci furono per il lungo permanere al potere del Ministro della malavita.
Col buon pretesto delle Terre irredente, ci si lanciò nella Grande guerra, durante la quale azione fortunata e temeraria fu la Beffa di Buccari. Almeno quanto l'Impresa di Premuda. Alla prima prese parte il Vate: non alla seconda. Finita la guerra, fu tempo della Vittoria mutilata e dei Reduci. Cominciavano a circolare le Squadracce, al soldo degli Agrari. Non erano anni buoni: imperversavano il Manganello e l'Olio di ricino. Finì con una gita: la Marcia su Roma. Il Fascio diventava il Partito e la Milizia s'ingrossava di fascisti della Prima ora. Gli altri: sull'Aventino. La vicenda dello Smemorato di Collegno creava frattanto molto scalpore. Correvano gli anni del Gigante buono e del Mantovano volante. Moriva la Divina. E, col Concordato, di nuovo "...la Chiesa... lo Stato...".
Del Duce, che dire? Un modello, copiato anche all'estero (e che disastro!). Fu il Duce: bastò e, certo, avanzò. Tra le molte calamità del Ventennio, il Gran consiglio, la Battaglia del grano, l'Impero, l'Asse e (che obbrobrio!) la Razza. Infine, la tragica illusione della Guerra lampo.
Dal Balcone e dalla Città eterna, il Duce, lo sloggiò il 25 luglio, seguito amaramente dall'8 settembre: l'Armistizio. E con la Resistenza arrivò il 25 aprile: la Liberazione. E si seppe dell'Olocausto. Sopravvissuto alle Purghe e sottraendosi al Baffone, al suono dell'Internazionale, ritornò in patria il Migliore e fu, di nuovo, il tempo del Partito. Niente Gran consiglio, stavolta, ma il Comitato centrale. Col Referendum, ci si sbarazzò velocemente del Re di maggio. La Costituzione. Ma aprile, come dice il poeta, è il più crudele dei mesi: dopo il 25, miracolo della Vergine, non poteva mancare quindi il 18 aprile: fu il trionfo dello Scudo crociato. La Piazza non sembrò esserne unanimemente felice. E giù botte, allora, con la Celere.
La Benemerita, frattanto, teneva tutto sotto controllo. E mentre, come antonomasia foresta, la Locomotiva umana mieteva allori alle Olimpiadi, il Campionissimo, spopolando in discese, salite e tappe a cronometro, nel Giro e nel Tour si preparava ad avere, anni dopo, una storia che fu giudicata scandalosa con la Dama bianca. Negli autodromi, il Cavallino rampante consolidava intanto la sua leggenda.
La Guerra fredda, sul limite della Cortina di ferro, finiva lentamente nel Disgelo. Il mondo cominciava a schiudersi dopo le tragedie e qui da noi, con il Boom, giunse sul Soglio di Pietro il Papa buono. Di lì a poco, fu l'ora del Centrosinistra. Sotto la guida del Mago, il Sinistro di Dio e il Gigante di Treviglio, nel Campionato, conquistavano più volte lo Scudetto e, quanto alle competizioni del Continente, alzavano al cielo la Coppa, mentre Pel di carota, Casco d'oro, la Tigre di Cremona, la Pantera di Goro e l'Aquila di Ligonchio riempivano gli schermi della TV. Nessuno riusciva tuttavia a spodestare il Reuccio. L'Abatino, ragazzo, vestiva per la prima volta la Maglia azzurra. Vennero alla luce i Giovani. Al Boom segue, mesta, la Congiuntura.
Maturavano il Sessantotto e la Contestazione, lo Studente e l'Operaio: sulle biblioteche parve prevalere il Libretto rosso. Ci furono scontri alla Statale e alla Cattolica e in altre università. Le rivendicazioni nella Fabbrica, toccò all'Avvocato gestirle, nello stesso tempo in cui si curava anche della Madama, o della Fidanzata d'Italia. Fu il tempo delle Stragi. Con quella di Piazza Fontana, cominciò la Strategia della tensione e tutti si chiedevano chi, dietro le quinte, ne fosse il Grande vecchio, chi il Burattinaio. Non si smetteva di discutere dei Servizi deviati.
Ci fu il Divorzio. Qualche anno dopo, addirittura, l'Aborto. Il peso del Palazzo cominciava a diventare intollerabile ma certo nessuno poteva immaginare che, mentre vedeva la luce il Compromesso storico, proprio alla Frezza bianca toccasse una sorte da agnello sacrificale, crudelmente decretata dal Partito armato, nemico (a suo dire) dello Stato imperialista delle Multinazionali.
Basta così? No. La storia continua e arriva, per merito dello Spirito santo (Dio, che antonomasia!), la sorpresa del Papa polacco, mentre s'insedia Ghino di Tacco. Il tormentone riprende: "...la Chiesa... lo Stato...". L'economia ha girato così veloce, nel glorioso decennio del Made in Italy, che ha finito per schizzar via per la Tangente. S'ingigantisce il Debito pubblico. Cade il Muro, compare il Baffetto. Spalleggiata dall'Opinione pubblica, affidata alle Toghe, si apre la caccia al Cinghialone. Regolati definitivamente i conti aperti, settanta anni prima, al Congresso di Livorno, il Partito degli Onesti si inabissa insieme con quello dei Ladri. Compartecipe di ambedue, si inabissa la Balena bianca. La Quercia si secca. Relitti del naufragio, a galla tornano i Democratici, che discutono a lungo della Cosa e poi della Casa comune, e gli Azzurri, che, devoti del Fare, non hanno ovviamente nulla su cui discutere. E si arriva così quasi ai giorni nostri: all'Ulivo, che dà pochi frutti, alla Margherita, che sfiorisce, al Professore e alla Terza età. Si arriva alla Azienda e alla Legalità, alla Manovra e alla Moneta unica, all'Azione umanitaria e al Fine vita, alle Tigri asiatiche e ai PIGS, alle Pari opportunità e alla Par condicio, al Merito e alla Valutazione. Scomparsi i Giovani, rimasti solo gli Anziani (con le loro Badanti), assediati dai Clandestini, dalle Criticità e dai Mercati, davanti a tutti, oggi, inevitabile il Declino.
Oggi. Capita che il Colle non sempre concordi col Cavaliere. Spuntano i Responsabili. Il Senatùr pare di nuovo pronto a saltare il fosso.
Insomma, grazie alla gente di mondo, cui la fantasia non fa mai difetto, il Paese delle antonomasie per antonomasia ovvero, come scrisse il Divino poeta, il Belpaese.

17 maggio 2011

La dama e le "tricoteuses"

La memoria di Apollonio fa ormai sovente cilecca. Delle cose che legge, così egli conserva spesso solo un'essenza, soprattutto se si tratta di letture di non pochi anni fa. Pian piano, il loro succo ha finito per svaporare quasi del tutto. I suoi pochi lettori lo sanno e, se gli sono affezionati, tollereranno che qualcuno dei vapori che, di conseguenza, gli riempiono il capo, per miracoloso contatto virtuale, appanni appena lo schermo del loro computer, prendendo forme momentanee di lettere dell'alfabeto e di parole del dizionario.
Oggi, l'informe nuvoletta trae origine da un aneddoto, francese e settecentesco, di cui ormai Apollonio non saprebbe appunto indicare la fonte, che deve essere però nobilissima e ben nota agli specialisti. L'aneddoto è il seguente.
A letto con un uomo, una bella dama viene colta sul fatto dal suo amante. Costui non si dimostra per nulla felice della circostanza, come è ovvio. Manifesta così tale infelicità con crude parole rivolte all'amata, fedifraga. La situazione è certo imbarazzante per la dama, che si protesta tuttavia innocente, con apparente piena convinzione. A tali proteste d'innocenza, l'ira dell'amante si accende vie più. Non solo lo si fa cornuto ma si pretende addirittura di trattarlo da scemo. Contro le proteste, dice, sta l'evidenza del fatto: lampante. Al che, la dama, gelidamente: "Voi non mi amate più, signore. Infatti, prestate fede più ai vostri occhi che a me".
Come non ammirare la prontezza di spirito della dama? Ancora più ammirevole, tuttavia, è a parere di Apollonio la sua lucida intelligenza delle relazioni pertinenti nella circostanza. Senza tale intelligenza, si tratterebbe solo di una storiella di (simpatica e impunita) faccia tosta ma non (solo) di ciò è appunto questione.
In quelle poche parole c'è infatti più riflessione epistemologica, teoretica ed etica, insomma c'è più problematica esperienza della propria e dell'altrui umanità di quanto non se ne trovi in intere biblioteche.
Non c'è fatto senza relazione con un punto di vista e non c'è punto di vista senza relazione con un fatto, insegna la dama al suo amante, meritevole già solo per la sua stupidità d'esser fatto becco. E non sono infine importanti, per capire e capirsi e per fare tesoro della propria esperienza, né il fatto né il punto di vista, considerati per se stessi, dal momento che la sola proprietà che li qualifica e li rende un fatto e un punto di vista è la relazione che tra essi intercorre e che li crea. Ciò che si chiama amore è proprio una di tali relazioni, capace appunto di togliere valore, se non di far sparire del tutto ciò che eventualmente si vede coi propri occhi. Niente e nessuno quindi è giudicabile su due piedi. Se si vuole poi percorrere la perigliosa via della morale, niente e nessuno è condannabile su due piedi e sul fondamento, instabilissimo, di un'evidenza.
Un'evidenza, anzi, è sempre meno che presunta ed è l'occasione tipica in cui il discernimento viene abbagliato. Un'evidenza va perciò valutata con ancora maggiore ponderazione, alla ricerca del punto di vista in funzione del quale essa si fa evidenza. Solo dopo avere esaurito, come si può umanamente, tale ricerca (che è lunga, faticosa e richiede concentrazione ed equanimità) si può provare flebilmente a dare una descrizione e, se lo impone qualche ragionevole principio di convivenza, un giudizio sul fatto.
Sorridono ancora i pochi lettori di Apollonio? Se lo fanno non sarà certo sui fasti dell'epoca in cui si trovano a vivere, in cui intelligenza e discernimento sono soffocati da opinioni che si vogliono salde pur essendo prive di relazione coi fatti e da fatti spacciati come tali a prescindere dalla loro relazione con un'opinione: evenienza forse ancora più pericolosa della prima, questa seconda, per una convivenza civile.
Del resto, a tagliare corto con l'epoca di quella dama bella e piena di spirito si provvide rapidamente con la lama della ghigliottina, macchina che battezzò emblematicamente la maturità del Moderno. Malgrado ci si illuda del contrario, essa non ha mai smesso di funzionare, da allora, e di assolvere al compito per la quale fu concepita, appunto, dal Moderno: tagliare teste, cioè i soli strumenti coi quali si può sperare di capire qualcosa della condizione umana. Tagliarle tra lo sferruzzare e le ciarle (ormai divenute assordanti) delle tricoteuses.

15 maggio 2011

Bolle d'alea (13): Goethe?

Se la memoria non tradisce Apollonio, fu Goethe a sentenziare che “sono i suoi errori a rendere l'uomo amabile”. Il nebuloso ricordo gli affiora incontrando un annuncio pubblicitario. In cerca di sostegno tra i lettori di un quotidiano economico, se ne è fatta benemerita promotrice un'associazione che mira ad alleviare le sofferenze di bambini gravemente ammalati.
“Facciamo che bastava la tua firma e a me mi esaudivi il mio più grandissimo desiderio?” vi si legge. Lampanti l'imitazione approssimativa della grazia della lingua infantile e il riferimento alla libera invenzione del gioco.
“Bastava... esaudivi”: l'imperfetto è modo dell'irrealtà. Eugenio Coseriu e Riccardo Ambrosini hanno scritto in proposito, ricordando proprio il suo insostituibile sostegno alla finzione della lingua del gioco e, da lì, c'è da credere, agli artifici letterari della finzione narrativa.
Vira dunque il toccante messaggio verso la finzione? E non suona dunque inopportuno? No. Perché sul valore dell'enunciato prevale la forza veridittiva e persuasiva della voce, nel fittizio atto di enunciazione. Questa si vuole amabile, come quella di un bimbo: e quale voce più di quella infantile è d'altra parte capace di verità? Ancora più vera e amabile per due errori di grammatica: “a me mi” e “il più grandissimo”.
Sono errori prototipici, errori che aspirano a essere eterni, come dicono sia la verità coloro che la posseggono. Ne discende che si tratta di errori per nulla possibilisti o relativisti, anzi tendenzialmente assoluti. L'attitudine spirituale è forse vecchiotta e si nutre della nostalgia per la maestra elementare e la sua matita rossa e blu. I potenziali sottoscrittori hanno del resto una certa età, ragionevolmente, e poca simpatia, magari, per errori nuovi e difficili da capire. L'artefice che ha concepito il testo di quell'annuncio ne ha certo tenuto conto.
L'esempio è modesto: Apollonio lo ammette. Flebilmente e dal punto di vista linguistico, esso svela però una trama nascosta, anche dell'adagio di Goethe (se esso è di Goethe). Dice infatti che rendersi amabili con i propri errori pare possibile solo con l'inderogabile soccorso di una grazia come l'infantile o, in sua mancanza, di un artificio. E la grazia, feroce, non ammette errori, come del resto non ne ammette l'artificio umano che, facendo come può le veci della grazia, si è usi chiamare arte. Insomma, di nuovo un paradosso.

10 maggio 2011

Lingua loro (19): Le nozze di "meritocrazia" e "criticità"...

testimoni "assistere a una levata di scudi" e "fornire altra benzina a una protesta".

"Appena qualcuno, timidamente, prova a introdurre elementi di apertura e di meritocrazia si assiste immediatamente a una levata di scudi... A costo di fornire altra benzina a una protesta di cui non condivido lo spirito, vorrei richiamare quattro criticità dei test".
In poche righe, un concentrato di emblemi della chiacchiera della gente di mondo del tempo presente. Lo scritto in cui ricorrono è questo. Dice cose condivisibili? Forse. Ma, sul serio, che importa?

9 maggio 2011

Le luci della ribalta e la torcia

"The moment men begin to care more for education than for religion they begin to care more for ambition than for education. It is no longer a world in which the souls of all are equal before heaven, but a world in which the mind of each is bent on achieving unequal advantage over the other. There begins to be a mere vanity in being educated whether it be self-educated or merely state-educated. Education ought to be a searchlight given to a man to explore everything, but very specially the things most distant from himself. Education tends to be a spotlight; which is centred entirely on himself. Some improvement may be made by turning equally vivid and perhaps vulgar spotlights upon a large number of other people as well. But the only final cure is to turn off the limelight and let him realise the stars".
Non s'inquietino i cinque lettori di Apollonio (saranno diventati cinque, a questo punto?): lo conoscono laico e laico egli rimane, anzi, fin dove può ed è capace, indagatore di quelle attitudini che si mascherano d'altro e sono invece ideologiche, quindi religiose in un senso deteriore. Oggi, la cosiddetta scienza con cui egli ha una qualche dimestichezza ne pullula. La gestione della cosa pubblica, poi, da quando la modernità è cominciata (e sono ormai più di due secoli), ne è interamente intrisa.
Se lo desiderano, nella prima proposizione della citazione che apre questo post, sostituiscano quindi la parola religion con qualsiasi aspetto che, dell'esperienza umana, preferiscono. Per la sostituzione, Apollonio asseconderebbe la sua inclinazione a costruire ipotesi e ragionamenti per opposizioni. Suggerirebbe di conseguenza quel valore cui, per marcatezza, education si oppone. Capisce però che poi non sarebbe forse capace di spiegare cosa qui si potrebbe intendere con tale non-marcatezza. Dichiara di conseguenza che gli basta, per proseguire e per la presente bisogna, qualcosa che valga come l'esperire, nella vita, la propria umanità, al di là di espliciti programmi d'istruzione. Ciò che a un bimbo accade quando, facendone esperienza, crede a una lingua umana e lascia fiducioso che essa si impossessi di lui, ben prima di essere sottoposto in proposito al trattamento che, nelle nostre società, gli destina la scuola. Del resto, cos'è d'altro, la religione, la vera, per un essere umano se non, come la lingua, come l'amore, una delle forme numerose e confidenti di un'esperienza profonda della propria umanità, nell'ipotesi di un legame d'armonia tra il finito e l'infinito?
E dunque, "Nel momento in cui gli uomini cominciano ad avere più cura dell'istruzione che dell'esperire (nella religione, nella lingua, nell'amore...) la propria umanità...": il resto della citazione segue identico. E segue identico, oggi, come rappresentazione, smascheramento e critica dell'attitudine alla santificazione ideologica, nelle pratiche educative, del cosiddetto merito. Tale concetto al momento furoreggia nel ceto intellettuale. Le ripercussioni sono note. Riguardano non solo la gestione delle istituzioni destinate all'istruzione ma anche (e più gravemente) l'atteggiamento morale cui sono invitati gli insegnanti. Costoro sono chiamati a deporre i modi degli educatori: meglio (o peggio), sono chiamati a subordinarli a quelli dei (continuamente valutati) valutatori di un presunto merito. La pretesa è insomma che, proponendo il modello educativo del merito, gli insegnanti insegnino a tutti l'ambizione di fare dell'istruzione eventualmente acquisita un riflettore puntato sul proprio merito, inseguendo con esso i vantaggi assicurati dalla diseguaglianza.
Sembra una novità rivoluzionaria (e come tale viene spacciata) ma è il solito cambiar tutto perché nulla cambi. Della sua istruzione, il ceto intellettuale moderno ha infatti sempre fatto un merito. E ne ha da sempre fatto un riflettore puntato su se medesimo. Dopo "la ragione", dopo "lo spirito", dopo "il partito", dopo una lunga e ben nota teoria di mostri, l'ideologia del merito propone insomma di mettere in scena (forse in modo finalmente farsesco) uno spettacolo cui l'umanità ha già altre volte assistito, subendone gravi danni.
Il merito pare in conclusione l'ennesima ridicola maschera della falsa coscienza dell'intellettuale moderno e del suo antiumanesimo perverso. Non troppo celato, alfine, per chi gli si avvicina, curioso, con la modesta torcia delle domande ispirategli da un pensiero libero e umano. Eventualmente nutrito, quest'ultimo, da un afflato autenticamente religioso, come insegna (e non per paradosso) il caso di Gilbert K. Chesterton. Indirizzato agli educatori, appartiene a lui l'invito, nel contempo dolce e perentorio, a "prendere coscienza delle stelle".

4 maggio 2011

Funzione

"Quoi qu'il en soit, Mauss aurait probablement rencontré certaines difficultés à pousser plus avant l'élaboration du système [...]. Mais il ne lui aurait certes pas donné la forme régressive qu'il devait recevoir de Malinowski, pour qui la notion de fonction, conçue par Mauss à l'exemple de l'algèbre, c'est-à-dire impliquant que les valeurs sociales sont connaissables en fonction les unes des autres, se transforme dans le sens d'un empirisme naïf, pour ne plus désigner que le service pratique rendu à la société par ses coutumes et ses institutions. Là où Mauss envisageait un rapport constant entre des phénomènes, où se trouve leur explication, Malinowski se demande seulement à quoi ils servent, pour leur chercher une justification. Cette position du problème anéantit tous les progrès antérieurs, puisqu'elle réintroduit un appareil de postulats sans valeur scientifique".
Parole, dalla lampante chiarezza, di Claude Lévi-Strauss, prese dalla sua Introduction à l'œuvre de Marcel Mauss. Esprimono concetti ben noti e oggi quotidianamente disattesi da folle di ricercatori accanitamente e felicemente impegnati in linguistica e in altre scienze dell'uomo. Apollonio rilegge periodicamente tali parole, per tenerle vive in se medesimo. Per lo stesso uso, le offre ai suoi due lettori. Prima di dire, poniamo, "...il suffisso x ha la funzione di esprimere la persona grammaticale...", e di dirlo senza capire il danno che (si) stanno facendo, si fermino un momento e se le ripetano. Poi, se vogliono, consapevoli della dolorosa ferita all'intelligenza propria e delle cose, vadano pure avanti.