20 aprile 2008

Sanzionare "reazionare"?

Come milioni di telespettatori, Apollonio ha assistito qualche sera fa ad una telecronaca sportiva con commento tecnico affidato a Beppe Dossena, il campione del mondo ’82 e ex-centrocampista del Torino. Durante tale telecronaca Dossena si è servito del verbo reazionare, coniugandolo a più riprese: uno degli aspetti più spassosi della serata, per Apollonio, contento di sentire l’italiano, come ogni lingua viva, farsi in diretta (televisiva). Due parole di spiegazione, per chi quella sera faceva altro. Per Dossena, reazionare stava per ‘avere una reazione’, ‘reagire’. Incassato un gol, la squadra soccombente esitava a “reazionare”, secondo Dossena.
I tempi, si sa, sono calamitosi per definizione. Quelli della lingua, lo sono di più. Tempi calamitosi producono censori di (mal)costumi e loro pubblici fustigatori. C’è calamità peggiore? Ed è così che, per esempio, sulla prima pagina della Repubblica, tra le notizie d’altre disgrazie, una firma prestigiosissima si è lanciata qualche settimana fa in lodi, a suo dire, postume per il “punto e virgola”: un autentico coccodrillo, come si dice in gergo giornalistico. Il segno d’interpunzione vi era decretato deceduto o in coma irreversibile, a far così compagnia al congiuntivo, buonanima, la cui morte ha, nei discorsi degli specialisti di congiuntivi, un numero di menzioni inferiore solo a quello che la scomparsa delle stagioni ha nelle conversazioni in ascensore. Questo è l’andazzo e non ci si può far nulla.
Non ci si stupirà perciò del fatto che reazionare non sia passato inosservato. Il 18 aprile (ancora una volta, la Repubblica: ma non è rilevante) Stefano Bartezzaghi dedica la sua quasi quotidiana rubrica a quel che considera un “neologismo” e racconta ciò che qui si è già riferito. La chiave del pezzo è d’amara e rassegnata condiscendenza. Vi si presuppone anche nel lettore la sanzione della sconvenienza di reazionare e la ripugnanza per il degrado linguistico. Sono sentimenti che vanno da sé, non vale la pena neppure di renderli espliciti: “…è l’italiano bricolage, amici; e non ci si può far nulla”.
Sul fatto che non ci si possa far nulla, è difficile dissentire. Non ci si può fare nulla soprattutto perché reazionare per ‘avere una reazione’, ‘reagire’ (abbia o no un futuro) sembra fatto apposta per confermare la fondatezza di un principio del mutamento linguistico individuato da gran tempo: l’analogia. Reazionare è costruito a partire da reazione. Basta un attimo per rendersi conto che (un esempio per tutti) reazione sta a reagire proprio come sanzione sta a sancire. Qualche Dossena del tempo che fu deve essersene impipato dell’esistenza di sancire, verbo peraltro irregolare. E lavorando di taglio e cucito anche con i significati, da sanzione deve avere rifatto un verbo regolare: sanzionare. Oggi a Bartezzaghi ciò torna comodo nella sua sanzione di reazionare, che non è certo l’atto con cui egli lo sancisce.
Ci si scandalizzerà allora se, oggi, un Dossena se ne impipa di reagire (anch’esso irregolare) e da reazione fa un regolare reazionare? Lavorando in futuro di taglio e cucito con i significati, chissà che ciò non venga comodo ad un Bartezzaghi di domani. Anzi, a dirla tutta, viene già comodo al Bartezzaghi d’oggi, perché gli dà modo (direbbe Beppe Dossena) di “reazionare” a reazionare, sconsolato.
Sconsolato, poi, perché? Ammesso che Dossena sia responsabile dell’uso intransitivo di cui s’è detto, reazionare non è affatto un “neologismo”. Primo, se ne conosce un uso tecnico nella lingua specialistica dell'elettronica (una ricerca con Google e se ne trovano esempi in rete). Secondo, lo scrittore Riccardo Bacchelli si servì del suo participio passato, reazionato, per qualificare (pensa un po') ciò che 'è bilanciato da una reazione contraria' (e il Grande Dizionario della Lingua Italiana gli consacra una voce). L’idea del bricolage non è malvagia, dunque, ma forse si tratta anche di un bricolage d’autore.
In conclusione, la vicenda lascia in Apollonio due dubbi, uno particolare e uno generale, e chissà se uno dei suoi cinque lettori può aiutarlo a scioglierli.
Il dubbio particolare: lingua-bricolage di chi parla e scrive o linguistica-bricolage di chi censura e fustiga?
Il dubbio generale: non saranno per caso troppo aristocratici, non avranno troppo la puzza al naso gli intellettuali italiani, per capire una cosa semplice, popolare e democratica com’è il continuo e sistematico farsi della lingua, tanto sotto la penna di un Riccardo Bacchelli quanto sulla bocca di un Beppe Dossena?

15 aprile 2008

Da un papa a un altro

"Il cervello non è relativista" strilla il titolo principale della sezione Cultura del Corriere della Sera del 14 aprile 2008. Massimo Piattelli Palmarini (professore di Scienze Cognitive all'Università dell'Arizona e autore di un libro in uscita per Einaudi, precisa un riquadro) intervista Noam Chomsky (professore emerito di Linguistica al MIT e autore di un libro recentemente riedito da Baldini Castoldi Dalai, precisa lo stesso riquadro). Il titolo - redazionale, certo - riassume per i lettori il pensiero di Chomsky, "il Galileo delle scienze cognitive e il Copernico della linguistica" di cui Piattelli Palmarini si fa ancora una volta araldo sulle pagine dell'importante quotidiano.
Su cosa significhi relativista capiterà una volta o l'altra ad Apollonio di fare qualche modesta riflessione. Mentre il giornale andava in stampa, però, Benedetto XVI atterrava per una visita pastorale nel paese da cui il verbo di Chomsky s'è diffuso nel mondo e in cui insegna Piattelli Palmarini. E non c'è personalità della cultura occidentale che negli ultimi anni abbia condotto una battaglia contro il relativismo più inflessibile di quella del capo della Chiesa Cattolica.
La casuale coincidenza temporale s'incarica così di evocare un parallelismo forse irriverente (decidano i due lettori di Apollonio per chi) e si svela, occasionalmente, qualcosa che, a ben vedere, sorprende poco chi sa un po' di linguistica e ha seguito negli ultimi decenni gli sviluppi di tale disciplina.
Del resto che un papa, qualsiasi papa di qualsivoglia chiesa non ami il relativismo è ovvio ma è altrettanto ovvio che, senza l'occasione della battaglia contro il relativismo, un papa che ci starebbe a fare? È la relazione reciproca che garantisce l'esistenza (morale e intellettuale) dei papi come del relativismo. Finché ci saranno papi, ci sarà relativismo. Finché ci sarà relativismo, ci saranno papi. E il finché non è certo un modo per dire che un radioso giorno sarà diversamente. Papi e relativismo, pensa Apollonio, non scompariranno mai. Sta appunto alla scienza, a quella quieta, scettica e priva di enfasi (si dirà alla scienza vera?) schivare tanto gli uni quanto l'altro.
I lettori diranno che il paragone tra Chomsky e il papa è un'esagerazione e che non hanno mai visto il primo ma solo il secondo con mitra (scherzi delle omonimie...) e abito bianco. A smentirli, nella sostanza (perché l'abito non fa il monaco), provvede Piattelli Palmarini, genuflesso. Anzitutto egli disegna per brevi tratti il suo personale percorso di catecumeno: "Prima di dargli [a Chomsky] la parola... vorrei citare solo alcuni dati di fatto [altrimenti, senza l'evidenza dei "dati di fatto", Palmarini che scienziato sarebbe?]. Da molti anni leggo i lavori di grammatica generativa..., ho a suo tempo seguito dieci interi corsi semestrali di Chomsky al Mit e circa altri dieci di linguisti suoi colleghi e collaboratori. Ciò nonostante, non ho problemi ad ammettere che molti dettagli tecnici ancora mi sfuggono". Con un paio di osservazioni, egli qualifica poi il carattere labirintico del credo chomskiano e la sua indiscutibilità (se non interna al credo medesimo): "Il messaggio, qui, è che si tratta di una scienza immensamente complessa e profonda e che ogni ritocco a un'ipotesi, a un teoria, riverbera con inevitabili ritocchi su molte altre ipotesi e teorie e su dati già noti per varie lingue. Sbalordisco quando vedo criticata con sicumera la grammatica generativa da chi, con ogni evidenza, ne sa poco o niente". E finisce per disegnare il quadro perfetto di una chiesa: "Un altro dato, diciamo [ma sì, diciamolo], demografico: hanno contribuito a questa scienza, nel corso di mezzo secolo, circa duemila studiosi, in vari Paesi. Importanti ricadute della teoria e notevoli conferme sono venute anche da altri campi come la genetica, le neuroscienze, le simulazioni su calcolatori, le patologie del linguaggio, la psicologia animale. Formidabile è stato il potere di attrattiva di questa scienza su menti [o su cervelli? La questione non è priva di senso] di straordinario calibro, su studiosi di matematica, fisica, ingegneria, scienze di calcolo e biologia."
Dal lato della parte rappresentata da Benedetto XVI, gli anni non sono cinquanta ma più di duemila, le folle di tributari sterminate e, quanto a menti somme, solo per far tre nomi, ci sono quelle di Paolo, di Agostino, di Tommaso. Dopo di che, c'è qualcuno che, secondo gli scientifici e non relativisti criteri di Piattelli Palmarini, potrebbe osare mettere in dubbio il fatto che il papa, campione come Chomsky della lotta contro il relativismo, ha senza dubbio ragione?
E infatti qui si è lungi dal volerlo mettere in dubbio: scherza coi fanti e lascia stare i santi. Su Chomsky, però, sul "Galileo delle scienze cognitive", sul "Copernico della linguistica", Apollonio - il cui spirito è sonnolento e si sveglia di cento anni in cento anni - propone di riaprire la discussione tra qualche secolo. Allora, forse, si capirà meglio se di un Galileo, di un Copernico si è trattato o di uno dei tanti falsi profeti periodicamente osannati da molti fedeli autentici, che per evidenti problemi d'incontinenza non riescono a trattenere l'iperbole ("immensamente complessa", "importanti", "notevole", "formidabile", "straordinario calibro") e, appena s'accostano al loro idolo, se la fanno addosso, non peritandosi (come usa adesso) di raccontarlo a tutti sul giornale (sul relativismo segue un commento di Altan).

11 aprile 2008

Del merito (e del metodo)

Da qualche tempo – delle ragioni di questa contingenza cronologica magari si dirà un’altra volta – capita spesso, anzi sempre più spesso di sentir parlare o leggere del merito, con l’articolo determinativo.
Non c’è discorso o scritto di chi si presenta pensoso delle sorti italiane (sia esso uomo politico, imprenditore, editorialista, accademico e così via) che non riservi al merito il posto d’onore che si dà alle parole-chiave, ai concetti che contano, alle idee da cui oggi non si può prescindere e meno, si dice, lo si potrà domani.
Ci si faccia caso. Le espressioni pubbliche delle menzionate categorie (tutta classe dirigente e intellettuali: destra o sinistra non fa differenza) hanno sempre l’impronta del dovere e quella, correlata, del futuro. Ammoniscono. Profetizzano. Lusingano e minacciano.
E la minaccia ad ogni generico concittadino presuntivamente non-meritevole, come la lusinga a ogni ancor più generico presuntivamente meritevole è la seguente. In società – dalla scuola all’amministrazione, dalla politica all’azienda – tutto andrebbe fatto in funzione del merito. E presto del resto lo sarà. Chi merita o meglio chi ha il merito andrà premiato, pagato di più, lodato, promosso, gratificato, messo in grado di operare, di dirigere, di comandare. C’è niente del resto di più ovvio nel mondo?
Chi merita merita insomma il paradiso, o almeno quel surrogato di paradiso che è in grado di fornire l’approvazione sociale umana che va sotto il nome di successo. E dal successo di chi merita, il bene del merito si riverbererà di necessità sul bene di tutti. L’impianto, come si vede, è quello dell’utopia: l’utopia del merito.
Parlare del merito, con l’articolo determinativo, del resto, dà lustro e merito a chi ne parla e, assodato che sono i meritevoli a parlare del merito, darsi il merito di parlarne è appunto già premiarsi, lodarsi, promuoversi, gratificarsi etc.
Anche l’utopia del merito (l’“andrà meglio domani” che essa contiene) è però un’utopia. Ed esperienza moderna insegna che le utopie assicurano da subito qualche vantaggio a chi se ne propone come realizzatore. Diverso è il caso di coloro che le subiscono. All’eventuale incasso dei vantaggi, costoro sono invitati a passare sempre dopo avere dato, e con larghezza. Se non possiedono altro, col credito all’utopia avranno almeno rinunciato alla propria libertà di pensare (che non è ricchezza da poco).
S’aggiunga che, quando d’improvviso una parola che è un nome comune prende stabilmente l’articolo determinativo e comincia a ricorrere su troppe labbra, ragionevolezza critica vuole che se ne cominci a diffidare. Non solo perché la ragionevolezza critica non santifica niente e nessuno: e non si farà un’eccezione col merito. Ma anche perché una parola che ricorre su troppe labbra è sospetta e chiama di necessità una domanda. E se si trattasse di uno degli infiniti travestimenti dell’ineluttabile stupidità umana? D’una stupidità furbastra però, e declinata nei soliti modi delle classi dirigenti italiane.
Il merito, naturale oggetto di valutazione, è infatti quanto di più opinabile e qualsiasi discorso ne tratti incorpora la necessaria premessa dell’espressione di un punto di vista relativo. A coloro che oggi (prima cioè della supposta nascita dell’erigenda città del merito) sono premiati, pagati di più, lodati, promossi, gratificati etc. non fa e non ha mai fatto difetto un merito. Il merito è in fondo sempre un merito ed è certo un merito (e forse la sua migliore realizzazione ideale) il merito di capire come acquisire privilegi in una data situazione. Il merito migliore è insomma l’adeguatezza a luoghi e tempi: quanto di più variabile.
Che ci creda o no, che ci sia o ci faccia, chi oggi parla del merito con articolo determinativo in termini di nuova utopia (e gode del privilegio di farlo) pretende invece di stare sull’assoluto, almeno quanto ad un altro aspetto cruciale della questione: il proprio indiscutibile titolo a presentarsi come araldo del merito, quindi a perpetuare il proprio privilegio. Il suo modello è insomma, come sempre, il prete.
Tematizzare il merito, perché pensosi del futuro della scuola, della nazione, del mondo, è porsi fuori della mischia – in fondo volgare – di chi del merito non è investito per elezione o per eredità e deve, poverino, eventualmente dimostrare di possederlo.
Il tanto parlare che oggi si fa in Italia del merito è allora una guisa del solito costume intellettuale della classe dirigente: porre se stessa al riparo dalle tempeste della vita, costituendosi come ceto mandarino di chierici, cui s’accede perché prima chiamati, quindi eletti. E nessuno dirà che sapere fare ciò non sia un merito.
Orbene, quando è singolare e conduce a gesti singolari, vocazione (e pretesa di elezione) è follia individuale: ridicola, magari, e raramente pericolosa per gli altri. Quando però è plurale e collettiva e riguarda un ceto (o un partito o una chiesa o un popolo), una vocazione (con la pretesa d’elezione) fa ridere pochissimo, perché è il modo più sofisticato e perverso di realizzare una tra le attitudini umane peggiori: il conformismo.
Un ceto che riconosce per se medesimo un merito elettivo è peraltro intrinsecamente destinato ad essere conformista. Va ancora peggio se merito e privilegio non riguardano la sfera materiale ma la sfera morale, del pensiero e della conoscenza.
Si sbaglia infatti a credere che il conformismo colpisca le minoranze cosiddette intelligenti meno delle masse di comuni mortali. E non è vero, per stare alla scuola e alla formazione, che gli studenti qualunque di una qualunque università “di massa” siano destinati a essere mediamente più conformisti e meno creativi di coloro che frequentano una scuola di eccellenza, di quelle tradizionali come di quelle che oggi nascono in Italia come funghi (sia detto a margine: eccellenza, eminenza sono parole che in Italia hanno fascino eterno!).
Al contrario, il conformismo è uno dei tratti distintivi dell’habitat naturale delle cosiddette minoranze intelligenti come ceti mandarini. E il già menzionato proliferare di iniziative didattiche di presunta eccellenza, in Italia e nel mondo, a scapito del perseguimento in buone condizioni di una leva culturale generale produce già in proposito gli attesi effetti negativi. Senza il salutare effetto prodotto dal caso di una continua nuova ricombinazione ideale, il conformismo cresce e non basta l’eventuale efficacia sociale a fare della stupidità coltivata in tali serre-laboratorio una forma d’intelligenza.
Si aggiunga che gli esiti del conformismo investito di una (vera o falsa) missione di redenzione (non si dimentichi quanto si diceva su dovere, futuro e articolo determinativo) sono di norma i più biechi e, talvolta, anche i più dolenti per la massa degli altri: nel caso qui in discussione per la povera umanità di (presunti) non meritevoli da piegare alla logica del merito, con articolo determinativo.
Insomma, non sarà l’utopia del merito a far vivere meglio l’umanità, tanto meno l’Italia. Per muoversi in tale direzione (ammesso che ne valga la pena), la condizione fondamentale è infatti che si abbia coscienza vera e profonda che non del merito si tratta ma, come sempre, di molti meriti diversi e delle loro relazioni sistematiche, armoniche o conflittuali che esse siano.
Conclusione, modesta. Ci si vuole mantenere vigili e critici? Si pensa che l’obiettivo da perseguire in classe e tra i banchi sia la formazione di ciascuno come un libero essere umano, non come un utile idiota né come una replica conformista di un’imperante stupidità (fosse anche la stupidità di maggior contingente successo)? Si prenda allora coscienza del fatto che meritano pochissimo d’essere ascoltati i discorsi di chi parla del merito con articolo determinativo come nuova regola per la vita sociale di tutti. Ragionevolmente, è un (in)consapevole imbroglione. Il merito di cui parla è quello che attribuisce a se medesimo. Si sta solo lodando e, con tali lodi, mira a perpetuare le condizioni che consentono il suo immeritato privilegio.