29 dicembre 2017

Ancora con Giuseppe Tomasi di Lampedusa: cose italiane che non cambiano

Dall'Ottocento in avanti, diceva più di sessanta anni fa Giuseppe Tomasi di Lampedusa con un filo di ironia, la cultura (letteraria) delle Italiane e degli Italiani ha un filtro inestirpabile che ne spiega la permanente approssimazione: il melodramma. Parrebbe un giudizio ormai perento.
La sortita del principe palermitano è tornata invece alla memoria di Apollonio qualche giorno fa come appropriatissima. 
L'insensato turbine che agita le reti sociali ha gettato infatti sulla spiaggia della sua appartata Citera questo cinguettio, lacerto evidente d'una conversazione dal tema socio-culturale: "Io non sono Desdemona (morta per mano di un marito geloso), tanto meno la Bovary, morta di tisi, dopo una vita dissoluta, grazie anche al perbenismo ottocentesco".
Eccolo pienamente all'opera il filtro del melodramma, ancora nell'epoca di Twitter. Probabilmente senza che "cinguettatrice" e "cinguettataria" ne siano state consapevoli: circostanza che ne amplifica il valore. 
Del resto, inconsapevoli non solo loro. Nessuna reazione del tipo di "Ma che diavolo state scrivendo?" tra le migliaia e migliaia di seguaci delle due, a conoscenza di Apollonio. E una topica di tali dimensioni si è guadagnata gli entusiastici rilanci che, come un'onda di piena, l'hanno portata sotto gli occhi divertiti di chi scrive. 
Il melodramma vi rifrange la tragica Emma (Bovary) nel luogo comune nazionale della patetica traviata nazionale, Violetta (Valéry), e la memoria condivisa scioglie così l'implacabile prosa francese del feroce Gustave Flaubert nei versi liquidi e arci-italiani di quel Francesco Maria Piave che, manipolatore di Alexandre Dumas figlio, fu nell'occasione il librettista delle note immortali del buon Giuseppe Verdi. 
Pomata appropriata a lenire ogni male nazionale, decretava sessanta anni fa Lampedusa, con un sardonico sorriso.

25 dicembre 2017

Sommessi commenti sul Moderno (24): L'opinionista compulsivo di massa

Avere un'opinione su tutto, meglio se risentita, e sentirsi d'altra parte in dovere di renderla pubblica. Nella società moderna, fu un dì un disturbo del comportamento tipico delle cosiddette figure intellettuali, dilettanti di norma in quasi tutto ma, dell'opinione, appunto professioniste. 
Oggi il Moderno si è putrefatto e, mentre l'intellettuale come profilo sociale individuabile è da un pezzo andato a ramengo, l'attitudine intellettuale del becero professionismo dell'opinione ha intriso di sé quasi ogni aspetto dell'esperienza umana. 
E come certo non si può dire in questa sede senza dire consapevolmente della sede medesima e di chi vi esprime, è in fondo un'epidemia siffatta a garantire almeno in parte la fortuna della comunicazione nelle reti sociali. Grande o piccola che sia, tale comunicazione è intrinsecamente morbosa e chi la diffonde è un virus.

21 dicembre 2017

Come cambiano le lingue (18): "Antologia"

"Torniamo a trovare Milo De Angelis nella sua casa di Milano per parlare della sua antologia Tutte le poesie 1969-2015 pubblicata da Mondadori nella collana Lo specchio": esordisce così Oreste Bossini aprendo l'intervista radiofonica al poeta, andata in onda la sera del 18 dicembre 2017 sul terzo canale dell'azienda radiotelevisiva pubblica italiana. Dopo un breve saluto di De Angelis, l'intervistatore precisa: "Dunque, questa è una raccolta di tutto il lavoro poetico di Milo De Angelis". E in chiusura della trasmissione: “Grazie a Milo De Angelis per questa ricca e aperta conversazione che prendeva spunto dalla pubblicazione di questa antologia completa di Tutte le poesie 1969-2015 pubblicata da Mondadori nella collana Lo specchio”.
C'era e c'è ancora in antologia (a credere ai dizionari correnti) una connotazione di 'scelta' e, in modo complementare, una di 'lasciar qualcosa da canto', in linea di principio, semanticamente incompatibili con l'idea di completezza e di raccolta esauriente. 
Ecco, per es., quanto scrive alla relativa voce un'opera che si vuole vicina alla lingua viva come il Grande dizionario italiano dell'uso, ideato e diretto da Tullio De Mauro: "raccolta di passi scelti di uno o più scrittori" e naturalmente "il volume che contiene tale raccolta", proponendo come sinonimi crestomazia, florilegio, silloge e non mancando di dare conto dell'etimo: "dal gr. anthología propr. "raccolta di fiori", comp. di antho- e del tema di légō "raccolgo".
I passi citati in esordio informano che, dopo qualche secolo di stabilità, antologia sta cedendo sul versante del significato. Dicono che, anche tra le persone di cultura (come sono senza ombra di dubbio le sopra menzionate), l'etimo non le fa più da àncora: deve avere infatti smesso d'essere trasparente. Si affacciano i segni d'una deriva orientata ad adeguare il significato alla cruda materialità dell'oggetto designato. Nel caso delle antologie, di norma, un volume con un gran numero di pagine. Un librone, insomma, come è presumibilmente quello che raccoglie tutta la produzione in versi del noto poeta milanese e che, per tale ragione è diventato un'antologia, senza riguardo al fatto che, a credere a quanto ne viene detto, non si tratta di una scelta. 


19 dicembre 2017

Bolle d'alea (23): Waggerl


"In fondo, solo l'inutile è veramente durevole": l'osservazione di Karl Heinrich Waggerl ricorda ad Apollonio che, per provare a durare ancora un po', questo diario non deve smettere d'essere inutile. Inutile quanto basta, del resto, a restare umano.
E di continuare a godere appieno della propria inutile umanità è ciò che Apollonio augura nella propizia occasione a chi, se è qui a leggerlo, è perché ama accompagnarsi con lui per benevolenza e per amicizia.

[In originale: "Im Grunde ist nur das Unnütze wirklich von Dauer"]

12 dicembre 2017

L'utile


E c'è poi quello strano ma comunissimo modo di illudersi che l'utile sia il criterio principale per intendere come sono e cosa fanno gli esseri umani, quando l'umanità per intero non serve manifestamente a nulla né c'è modo di credere necessaria ad alcunché la sua esistenza. 

10 dicembre 2017

Competenze e incompetenza


Solo chi ha poca competenza della natura umana può credere che pratica e successo dell'incompetenza non richiedano opportune competenze: dietro ogni incompetenza trionfante c'è un'arte, l'arte di fare trionfare l'incompetenza. E ci sono tempi che possono parere di decadenza, ma nei quali tale arte fiorisce invece e i suoi prodotti brillano in tutto il loro splendore.

9 dicembre 2017

A frusto a frusto (116)





Del proprio tempo ci si lagna, quando ci si scopre inadatti a viverlo e, conseguentemente, chiamati a lasciarlo.

23 novembre 2017

"Nidore" da "Nuovi Argomenti"

"«La sua scrittura ha il nidore abbagliante di una collana di diamanti»" recita una recensione comparsa di recente nell'edizione on line di Nuovi Argomenti, celebre rivista culturale fondata e diretta a suo tempo da Moravia e Carocci e che conta adesso una direttrice e cinque direttori - tolta la direttrice, lo stesso numero di membri del Direttorio che, sul tempestoso spirare del diciottesimo secolo, traghettò la Francia da Robespierre a Napoleone. 
Apollonio legge e resta di stucco: nidore? Il contesto lo aiuta, però, come l'aiuta il luogo comune espressivo: nitore, non nidore. Di una scrittura, è d'uso si lodi il nitore, la qualità d'essere nitida. Del resto a ciò fa riferimento il séguito, con il suo paragone, a dire il vero, corrivo anzi che no.
Certo, nitore non è una parola comune. Ancora meno comune è nidore, però, che con nitore forma quella che in linguistica si chiama una coppia minima, cioè una coppia di parole di una lingua (in questo caso, l'italiano) la cui differenza consiste di un solo segmento distintivo. 
A fare differenti nidore e nitore provvedono le corde vocali, che al momento in cui si articola la consonante dentale, vibrano nel primo caso, non vibrano nel secondo. Un'inezia, insomma. A tale inezia, però, e alla quasi identità formale tra le due parole, corrisponde un'autentica catastrofe, dal correlato punto di vista del significato. 
Se nitore, senza vibrazione delle corde vocali, designa appunto la qualità di ciò che è nitido, nidore, con vibrazione delle corde vocali, è un "Odore piacevole [...] o più spesso sgradevole", come scrive il Vocabolario Treccani. Si passa non solo dalla vista all'olfatto, ma anche da una qualificazione positiva a una media che scivola facilmente verso il negativo: "Odore che per lo più si sprigiona dalla carne arrostita, dal grasso bruciato, da cibi guasti, da uova fradice. - In senso generico: puzza, odore sgradevole", chiosa il Battaglia.
Con tanta carne al fuoco, c'è insomma puzza di bruciato. Ed è impossibile trattenersi dal pensare, con un sorriso, che non si tratti di una banale coquille ma di un autentico lapsus. 
Un lapsus di chi, però? Il passo compare infatti nella recensione come citazione dal libro recensito. È chi recensisce che cita male? O chi recensisce cita bene, ma non ha percepito che dalla citazione sale un qualche nidore? Insomma, nidore, di chi è? O, posta diversamente, nidore, per chi non olet?
Domande futili, come si vede, e che ci si pone proprio a tempo perso. Tali sono di solito quelle che  formula Apollonio: i suoi due lettori lo sanno bene. Domande futili e prive di risposte. 
Una cosa però si può dire con sufficiente certezza. Se alla celebre rivista non manca chi dirige, le fa invece crudamente difetto un correttore di bozze. Con la sua opera modesta, avrebbe evitato che chi legge sospetti che "ci sia del marcio in Danimarca". Naturalmente, a naso:


1 novembre 2017

Linguistica candida (47): Impossibile

Dopo il fortunato tema morale "come una lingua non deve essere", ecco fare capolino, nel mercato dei consumi culturali, un altro tema che prende a pretesto l'espressione umana ed è dotato di un modale: "come una lingua non può essere".
Un tema molto prevedibile. Esso è infatti la sbardellata estensione di un'idea ormai vecchia, tra quelle che hanno circolato in linguistica nel secolo scorso. Secondo tale idea, la Grammatica (si badi bene, al singolare e con iniziale maiuscola, come Dio) ha da dire non tanto come una frase può essere, quanto come una frase non può essere ed è perciò da definire agrammaticale.
Non c'è chi non sappia, tra coloro che praticano la sfortunata disciplina e ne conoscono un po' le vicende, quali danni abbia prodotto alla ricerca linguistica un'idea siffatta, isterilendola e rendendola dogmatica. 
Venuta ormai in uggia agli specialisti e propalata già abbastanza tra quei profani particolari e pericolosi che sono gli specialisti di altre discipline, l'idea dell'impossibile, gonfia come una rana che si atteggia a bue, è ora offerta al gran pubblico dei profani autentici. E c'è da chiedersi come mai finora non si fosse pensato di farlo. Il consumo di un modale (volere, potere, dovere) è graditissimo infatti al palato grossolano di chi ai libri che legge chiede soprattutto occasioni per indignarsi o per stupirsi. E cosa c'è di più stupefacente e spettacolare di un'evocazione dell'impossibile? 
Quasi assente dal mercato, invece e come sempre, è un tema modesto: "come una lingua è". Si tratta di un soggetto, d'altra parte, che domanda cautela, competenza, riflessione, per essere affrontato. E sono le disposizioni di spirito che mancano a chi è allora forse solo costretto a trovare qualcosa di più semplice e, al tempo stesso, di molto appariscente da fare, visto che, per mettersi con pazienza e serietà a descrivere accuratamente anche solo una lingua tra quelle che ci sono state e ci sono, non saprebbe proprio da dove cominciare.

3 ottobre 2017

Vocabol'aria (19): "Ultima spiaggia"

Erano alcuni anni che l'espressione "ultima spiaggia" non si faceva troppa luce nella comunicazione pubblica. La si vede oggi riapparire, in riferimento alla situazione politica europea, sulla copertina di un settimanale d'opinione un dì glorioso. Oggi, quel settimanale è passato a fare da pubblicazione d'accompagnamento del più venduto quotidiano nazionale. Pare perciò giunto, esso medesimo, alla sua ultima spiaggia.
Il tropo vale infatti come 'ultima possibilità di risolvere una situazione; estrema via di salvezza'. Così lo glossa il Battaglia, che ne individua l'origine nell'estensione metaforica del titolo della traduzione italiana di un romanzo del genere apocalittico comparso sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso: On the beach di Nevil Shute.
Le prime bombe atomiche della storia erano esplose solo un decennio prima e si temeva che presto ne esplodessero altre, in giro per il mondo. All'Australia, immaginata in quel libro, dopo la catastrofe, come area del pianeta ancora per poco esente dalla generale contaminazione nucleare, quel titolo assegnava un'immagine che evidentemente piacque molto al demi-monde culturale italiano e fu largamente adottata, divenendo così un luogo comune espressivo, nel Bel paese.
Il Battaglia non fa cenno (né gli se ne può fare colpa, per lampanti ragioni cronologiche) di un gustoso séguito della storia sociale italiana dell'espressione. Tra la fine del nono e l'inizio del decimo decennio del Novecento, con la caduta del Muro di Berlino come emblema, tale séguito fu effetto collaterale del precipitoso declinare di correnti ideologiche che avevano avuto grandissimo rilievo nella storia del Novecento e che, tra politica e cultura, si erano istituite come egemoniche nel ceto intellettuale italiano.
Forse con intenti scaramantici più che ironici, dalle parti di Capalbio, nell'estrema Maremma toscana, si battezzò infatti "L'ultima spiaggia" uno stabilimento balneare, con annessi servizi di ristorazione, che si pretese esclusivo e presso il quale, durante i mesi estivi, prese l'abitudine di raccogliersi ritualmente la crema di quel ceto, in sospetto d'essere appunto alla sua ultima spiaggia.
Con gli anni, "L'ultima spiaggia" nei pressi di Capalbio è stata ingoiata dal mare, per effetto dell'erosione costiera. E sembra così che, oltre al tempo, anche la natura si sia incaricata di sottolineare con feroce sarcasmo derive politiche e sociali di comparabile erosione. 
Anche con riferimento alla crisi europea cui s'è alluso in esordio, una spiaggia italiana qualsivoglia è frattanto diventata, per molte e molti, un'ultima spiaggia non solo metaforica, come è sotto gli occhi di ognuno. E, visto che di spiagge si tratta, in proposito si sentono da più parti evocare parafrasi di un indimenticabile "Li fermeremo sul bagnasciuga", lessicalmente innovativo, per dire così, quando fu proferito, visto che bagnasciuga vi fu adoperato al posto del più appropriato battigia.
La sortita fu in ogni caso esemplare ricorrenza di una vana spacconata e, mutatis mutandis, come tale oggi si ripresenta, perché, quando il mare avanza, anche l'ultima spiaggia finisce appunto per scomparire.

26 settembre 2017

Maschili che (non) la fanno franca


Nessuna intenzione, da parte di Apollonio, di prendere parte (peraltro, tardiva) alle polemiche sorte con il pretesto di un'iniziativa d'indirizzo linguistico presa qualche settimana fa dall'amministrazione comunale di Torino. Nessun desiderio di impegnarsi nel generale dibattito morale sugli usi corretti della lingua cui tale iniziativa fa appello: in proposito, l'unico criterio che vale è l'appropriatezza al tempo. Che poi il tempo piaccia o no è faccenda strettamente privata e se si sopporta come ineluttabile il chiasso di chi lo loda, a chi lo spregia, se lo spregio è autentico, basta il silenzio. Nessuna voglia di argomentare sul grado di plausibilità espressiva delle diverse misure lì suggerite: l'accanimento grammaticale è certo meno drammatico di quello terapeutico (le due attitudini hanno del resto parecchio in comune) ma è oltraggiosamente più stucchevole e c'è solo da sperare che, come andazzo, passi.
Solo un'osservazione piana, fredda e sorridente, come può appunto nascere nell'animo disincantato di quel pianista in un bordello che, qualche mese fa, Apollonio ha suggerito al suo alter ego di sostenere d'essere, smettendo una volta per tutte l'abito ormai ridicolo del linguista.
Oltre ad alcuni maschili subdolamente camuffati (se n'è detto già altrove), nella lingua ci sono maschili generici (se qualcuno sospetta ironia in tale qualificazione, sappia che è involontaria), ci sono maschili generici, si diceva, che paiono farla franca. 


Tratto dall'edizione on line di un importante quotidiano, come illustrazione della notizia cui si è fatto riferimento in esordio, questo quadretto dice per esempio che chi s'è incaricato o incaricata della sorveglianza ha opportunamente intercettato il maschile di "I dipendenti che arrivano in ritardo saranno sanzionati" e l'ha sanzionato. Ha lasciato però in circolazione e a piede libero quello che prospera, quatto quatto, in "Chiunque arrivi in ritardo sarà sanzionato". L'ha persino raccomandato. Forse perché si tratta di sanzione, appunto. E, nello spirito di sanzione, qual genere grammaticale va sanzionato, oggidì, se non (e giustamente) un generico maschile? In un modo o nell'altro, insomma, esso non la fa franca.
Sanzionando, a chi ha compilato la tabella è scappato anche altro, ma in proposito sorvolare è bello.

20 agosto 2017

Linguistica candida (46): Né filosofia né filologia


La lingua è il suolo di profondissima e misteriosa umanità sul quale, da gran tempo, hanno tirato su i loro edifici filosofia e filologia, con opportune lottizzazioni. Si è trattato e si tratta di una speculazione edilizia fiorente, cui non manca tra l'altro il merito di costruzioni mirabili. Essa gode in ogni caso di una millenaria e sempre vigente sanatoria.
La speculazione non è tuttavia fin qui riuscita a rendere irriconoscibile quel suolo e c'è da dubitare mai ci riesca. A dispetto di sbancamenti e d'altre modificazioni di superficie, la lingua determina strettamente ogni nuova costruzione, dal momento che senza essa, come senza suolo, ogni edificazione sarebbe impossibile.
Avventurarsi verso una conoscenza consapevole della lingua (conoscenza consapevole anzitutto d'essere radicalmente ipotetica) comporta quindi sapere di edilizia filosofica e filologica. Comporta tuttavia al tempo stesso una sospensione delle relative dottrine e delle loro attitudini speculative. Esse non rivelano la lingua nemmeno nei loro fondamenti. Al contrario, la coprono e vi affiorano al massimo le tecniche che, volte a specularvi al meglio, tuttavia non giungono mai a celarla compiutamente.
Così che solo malgrado filosofia e filologia a un tentativo di conoscenza consapevole della lingua può capitare di vantare qualche successo tanto precario quanto prezioso.

19 agosto 2017

Sommessi commenti sul Moderno (23): L'idraulico, alla fine dei tempi

Già negli anni Sessanta del secolo scorso, da un'anticipatrice specola nuovaiorchese, un profetico Woody Allen dettava, en philosophe: "Not only is there no God, but try getting a plumber on weekends".
Le cose hanno frattanto proceduto e, da anni, persino nella provincia estrema dell'impero di cui Apollonio continua a fare esperienza, un idraulico non lo si trova in nessun giorno della settimana. La prova dell'idraulico è cruciale: weekend è ormai sempre. Come guerra, per Mordo Nahum, testimone Primo Levi.
Escatologia di una civiltà impiegatizia che ha creato il weekend, identificandovisi, e ha disperso l'umanità delle arti: il fine-settimana è la sua degna fine dei tempi.

15 agosto 2017

Intolleranze (9): Riflessione

Un dì (quando c'era solo la stampa) si pubblicavano articoli, pezzi, elzeviri, si interveniva, si polemizzava, si discuteva. 
Oggi, ci si faccia caso, sulla stampa e sui suoi succedanei non compaiono che "riflessioni". "Esce oggi una mia riflessione...", "...ho riflettuto sul tema in...", "...ci ha inviato una sua riflessione in proposito...". 
Non c'è più nessuno che scriva e basta, nessuno che scriva, se si vuole, senza riflettere. Tra le persone di autentico talento, così usava una volta. Ci pensino un attimo i due lettori di Apollonio. Pier Paolo Pasolini che chiama un suo pezzo per il Corriere "la mia riflessione": lo vedono possibile? Suvvia! È una virtù perduta, lo scrivere irriflesso. E le sciocchezze (anche violente) che si leggono in quantità non sono effetto di assenza di riflessione ma del suo contrario: di un eccesso di riflessione.
Oggi, non c'è peraltro più nessuno che, quando scrive, non vuole dare a intendere di avere riflettuto. "Perché tieni a dirmelo?", verrebbe da chiedergli, "Temi forse che io sospetti tu non l'abbia fatto?"
Del resto, a rifletterci un momento, l'uso che dilaga non è che un riflesso. Le acque stagnanti di una temperie riflettente (più che riflessiva) rimandano indietro ai suoi protagonisti (di qualsiasi taglia essi siano) le loro immagini riflesse, motivo di compiacimento per il loro narcisismo.

14 agosto 2017

A frusto a frusto (114)





"Senza se e senza ma", capita sovente di sentir raccomandare. Ma, tolti i se e tolti i ma, cosa resta dell'umana libertà?

24 luglio 2017

Cronache dal demo di Colono (56): "La velocità della luce non si decide per alzata di mano"

Il mondo va come deve andare. Sono i numeri, le condizioni fattuali e ineluttabili: non c'è scelta. Lo si sente dire, non da oggi, dagli intelligenti.
"La velocità della luce non si decide per alzata di mano": proprio così. Ed ecco allora equiparate alla velocità della luce (ed è un bel salto) le più disparate dinamiche umane, per le quali invece l'alzata di mano parve un giorno una conquista. Si pretende adesso siano prospettate oggettivamente. Come le relative prassi.
Beh! con qualche rigurgito di infantile velleitarismo (ma anche dopo catastrofi umane, recenti e recentissime, rapidamente dimenticate) ritorna spudoratamente alla luce l'ennesima contraddizione moderna. O forse, l'ennesimo doppio tradimento: che si tratti, eventualmente, di tradimento involontario, non ne diminuisce l'infamia e ne fa solo crescere la ridicolaggine. 
La "scienza" (tra virgolette) stupidamente costituita dai suoi chierici come sede dell'autorità, invece che come fonte del dubbio. E per correlazione, ancora più gravemente, il dubbio lasciato in preda della stupidità di innumerevoli chiacchiere "democratiche" (tra virgolette), perché se ne faccia strame.
Nessuno ricorda che furono altre le (false) promesse: alla democrazia, con modi nuovi, un'autorità affabile; il rigore di un dubbio sempre più accanito, alla scienza.

5 luglio 2017

Linguistica applicata (1): Combinazione e commutazione


Ottenebrati dall'ontologia e dai giudizi assoluti, si fa fatica a capirlo e ancora più fatica ad ammetterlo. Il metodo è tuttavia categorico, in proposito: il valore dei termini di una combinazione viene a galla chiaro (e sovente impietoso) quando, come capita per via di comici o crudi accidenti della vita, tali termini si trovano soggetti a una commutazione.

27 giugno 2017

Cronache dal demo di Colono (55): La scelta si è sciolta

Quando non si sceglie, in genere è semplicemente perché non c'è scelta.
E invece, come prevedibile, un uragano di chiacchiere sulle ragioni della crescente disaffezione alla scelta politica, nei paesi che furono culla moderna della democrazia, in Europa.
Si tira in ballo, in proposito, il solito feticcio americano. A differenza di quelle sorte in Europa con secoli di controverso travaglio, lì si tratta di una compagine politica nata già sul principio con l'idea che i suoi cittadini avessero il diritto di farsi a piacimento i fatti propri, a casa loro e nei vasti dintorni. L'idea era tipica di ricchi proprietari terrieri schiavisti in una terra (all'epoca) infinita. Oggi, anche lì, le cose stanno in maniera diversa di allora. Ma gli (ipocriti) fantasmi della libertà vivono più a lungo degli uomini: altrimenti che fantasmi sarebbero? 
Nella vecchia Europa, con qualche eccezione strettamente individuale, del potere pubblico si è sempre avuta una concezione meno appartata e ha sempre contato la grandezza dei numeri. Grandezza dei numeri che poi, non bisogna mai dimenticarlo, fu anche quella dei numeri di un Mussolini, di un Hitler, di tante repubbliche democratiche: spaventosa, come ha raccontato qualche testimone. 
Ora non ci sono più neppure i numeri, a sostegno delle democrazie europee. E una democrazia cui mancano i numeri, che democrazia è? Che ci fosse da scegliere era nei patti, ma la scelta si è sciolta: si deve concludere che si è sciolto anche il patto.
Urgono aggiornamenti lessicali o, a individuale scelta, la profonda consapevolezza che le parole politiche che continuano a circolare, in primis "democrazia", sono solo formalmente le medesime. Non è d'altra parte la prima volta che succede, ma è sempre la prima perché i modi sono nuovi e diversi.

2 giugno 2017

Trucioli di critica linguistica (25): Marco Mengoni, "nel mentre"

"Senza fare i giganti | e giurarsi per sempre | ma in un modo o in un altro | sperarlo nel mentre": canta Marco Mengoni nella sua "Sai che". E c'è il rischio che Fortunato Zampaglione, il paroliere (deliziosa designazione di un mestiere, sulla quale Apollonio una volta o l'altra spera di tornare), sia stato il primo, nella storia della canzonetta italiana, non tanto a dare spazio alla locuzione "nel mentre", quanto ad assicurarle il rilievo che le conferisce la fine di un verso, in consonanza con "per sempre": significato e significante, si osservi, in quella rigorosa correlazione sintagmatica in cui il rapporto paradigmatico collassa, come voleva Roman Jakobson a proposito della funzione poetica.
Eppure, niente sembra più prosaico e dimesso, oggi, di "nel mentre". La sua storia non è però infame né comincia di recente. E quanto alla lingua della poesia, non è forse un caso che abbia a un certo punto incontrato Giovanni Pascoli. Ma stiano tranquilli i due lettori di Apollonio, non si vuole qui mescidare sacro e profano e a Zampaglione e Mengoni ci si tiene: di altro, poco o nulla si saprebbe dire.
E allora: "per sempre" e "nel mentre" sono due modi di prospettare il tempo, ché di tempo si tratta e, tutta intera, "Sai che", il cui ritmo di base ricorda quello del battito dei secondi, ha il solito conflitto di amore e tempo come tema principale (in linea di massima, a pretendere altro da una canzonetta ben fatta si fa giustamente figura di presuntuosi imbecilli).
La prima prospettiva è illimitata ma inesistente: "per sempre"; l'altra, "nel mentre", deve la sua esistenza precisamente ai suoi limiti: i limiti di "sperarlo", un "per sempre".
E i significati, con il loro sofisticato equilibrio, stanno in funzione di significanti composti, in ciascun caso, da tre sillabe che iterano regolarmente i loro profili di composizione. Chiuse le prime ("per", "nel") e le seconde ("sem", "men"), aperte le terze ma con un attacco composto da un nesso occlusiva-vibrante e, come apice, la medesima vocale ("pre", "tre"). 
Sul profilo vocalico dell'insieme si gioca foneticamente una sottile variatio ("per sèmpre", "nel méntre"), naturalmente dove, per via dell'accento, la differenza si fa pertinente e quindi può incrinare l'uniformità senza distruggerne l'evocazione. Con la vibrante, variata dalla liquida, l'intreccio coinvolge in modo saliente consonanti nasali. 
Sono precisamente i valori consonantici della parola "amore" e chi ascolta con attenzione il testo nella sua interezza vedrà come vibrante e nasali lo marchino profondamente, dal punto di vista sonoro: "e tu resti alla porta | con l'amore che resta". 
Del resto, quanto al conflitto tra amore e tempo, non è detto che l'ineluttabile vittoria del secondo significhi la disfatta del primo, "nel mentre" di una vita:

19 maggio 2017

Lingua loro (37): "...e non sentirli"

"Aspettando il Salone internazionale del Libro di Torino: trent'anni e non sentirli": qualche giorno fa il portale di un importante istituto culturale nazionale ha intitolato così un articolo che annunciava l'evento adesso in corso.  
Impossibile dire a chi, nella prosa gazzettiera, si debba il conio dell'espressione "X anni e non sentirli" per celebrare anniversari di personalità (o di personaggi) della scena pubblica e, conseguentemente, di iniziative, di istituti e di tutto il resto di cui possa farsi prosopopea. 
Certo è invece che l'espressione è piaciuta a tanti. Oggi è un topos. La variabile X è da saturare con un aggettivo numerale cardinale. Non con uno qualsiasi, però. Con un numerale che, in riferimento all'esistenza della persona o della cosa celebrata, dica d'una durata, di una resistenza, di una permanenza rimarchevoli. La coordinazione dei due membri è solo formale. Il suo valore è avversativo-concessivo: 'son tanti ma...', 'malgrado siano tanti...'. 
Nel caso sia adoperata per celebrare esseri umani, senza dirlo esplicitamente, l'espressione lascia dunque intendere di un arco della vita che, in funzione del tema del discorso, si trova nella sua ineluttabile fase discendente; lascia intendere che si tratta di tradizioni percepite o percepibili come vetuste, nel caso di istituti, di manifestazioni e dell'altro che esorbita dall'umano.
Nello spirito commerciale del tempo, è evidentemente questo il caso della fiera torinese. Al compimento del suo terzo decennio di esistenza, essa conta già tra le cose antiche. 

6 maggio 2017

"Oh gran bontà de' cavallieri antiqui!"

New York, Hunter College, 26 febbraio 1955, da Vittorio Ceroni a Bruno Migliorini,  Presidente dell’Accademia della Crusca.
«Onorevole Signor Presidente,
[...] Può codesta Onorevole Accademia autorizzare l’uso della tanto necessaria parola […]? Sarei gratissimo se ricevessi una risposta definitiva. […]».
Risposta di Bruno Migliorini, 9 marzo 1955.
«Preg.mo Professore,
Le rispondo non nella mia qualità di Presidente della Crusca – perché non è compito dell’Accademia autorizzare o non autorizzare i singoli a usare determinate parole – bensì come privata persona […]».


[Il delizioso scorcio è tratto da una pagina qui raggiungibile. Chi volesse vi troverà maggiori dettagli sul tema che suscitò, sotto la penna di Bruno Migliorini, "privata persona", tale espressione di elegante ritrosia. Il mondo come fu e come non è più.]


22 aprile 2017

Linguistica candida (45): "Ma mi, ma mi, ma mi..."

Comincia a percolare anche negli ambienti profani cui Apollonio appartiene la notizia che la ricerca neurolinguistica più avanzata, con i suoi sofisticati strumenti d'indagine, avrebbe ormai a portata di mano il modo di "leggere" le parole che agli esseri umani passano letteralmente per il capo, pur restando prive di manifestazione. Una variante che si dice linguistica e si prospetta come tecnologica, oltre che come scientifica, dell'eterno sogno di leggere nel pensiero, a patto che questo - si afferma - abbia preso nel cervello la forma di parole.
Apollonio non può dire se la notizia sia affidabile. Con un gioco che, come si sa, è sempre molto pericoloso, potrebbe essere bene una di quelle "balle di scienza" (così una benemerita manifestazione pisana di un paio di anni fa) che, da ambienti che appunto si pretendono (e talvolta sono) scientifici, vengono messe in circolazione per spillare quattrini a chi ha potere e danaro ed è tutt'altro che disinteressato e innocente, nei confronti della ricerca. 
Una riflessione è tuttavia già possibile, restando ai margini della questione dell'affidabilità e di altri aspetti della notizia, sui quali, caso mai capitasse, si dirà in altra occasione.
Ad Apollonio è infatti accaduto di leggere che, del risultato scientifico a portata di mano, s'immaginano già le conseguenze pratiche. 
Tra queste, un nuovo modo di praticare professionalmente un interrogatorio per ottenere dall'interrogato informazioni che egli fosse renitente a dare. Insomma, per chiamare le cose con il loro nome, un nuovo metodo di tortura. Più pulito di quelli antichi e consolidati, ovviamente. Niente corda, waterboarding o pestaggio: una banale TAC. E, con la TAC, la possibilità di "leggere" le parole nel cervello, estorcendo così l'informazione.
Un commento sorge tuttavia spontaneo, insieme con un amarissimo sorriso: sarebbe possibile estorcere l'informazione all'interrogato, sempre a condizione che costui la formulasse nel suo intimo sotto forma di parole. Ma, sottoposto all'eventuale prova, a questo punto, chi sarebbe tanto sciocco da farlo? Pensare parole, sarebbe esattamente come proferirle. 
Per sfuggire, di parole, gli basterebbe allora pensarne altre. Per esempio, potrebbe ripetersi interiormente: "Brutti figli di puttana, da me non saprete proprio nulla". Nella TAC del suo cervello, i neo-torturatori, puliti e tecnologici, "leggerebbero" così, papale papale, ciò che ai vetero-torturatori, con pieno merito, capitava e (purtroppo, ancora) capita di sentirsi dire. 
Il successo scientifico sarebbe assicurato e certamente grandioso: c'è da immaginare che la relativa ricerca neurolinguistica ne sarebbe universalmente illustrata e proiettata, perlomeno, verso un premio Nobel. Non ne sarebbero tuttavia felici i neo-torturatori. Della pasta eterna dei torturatori, anche i neo-torturatori finirebbero per adottare, ai loro scopi, i metodi vecchi ed affidabili dei torturatori di ogni tempo. Sarebbero forse ulteriormente incattiviti da un cocente rammarico: aver gettato un sacco di quattrini dalla finestra, per finanziare scientifiche fole.


21 aprile 2017

A "Tempo di libri", la "linguistica" sul mercato, la cosiddetta Legge di Gresham e Aristofane

Compare e ricompare, nelle reti sociali, la foto di un espositore di un'importante casa editrice che, tra i tanti in questi giorni disposti per la manifestazione commerciale "Tempo di libri", si afferma sia consacrato alla "Linguistica". La foto è preziosa testimonianza del tempo che stanno appunto attraversando i libri, quanto alla linguistica, dalla prospettiva del mercato.
Alla sua vista, è impossibile impedire a un aforisma di risalire dal profondo luogo della memoria dove si conservano le parole più rivelatrici. Quei libri rendono tali parole limpidamente presenti alla coscienza e, visto che appunto di faccende commerciali si tratta, proferirle diventa doveroso: "La moneta cattiva scaccia la moneta buona".
L'aforisma condensò, pare, l'esperienza del mondo di Thomas Gresham, mercante e banchiere inglese del Cinquecento: in Francia, Montaigne gli era contemporaneo e, in patria, stava arrivando il tempo di Shakespeare. Lo si ricorda qui, per richiamare, nello spirito dei due lettori di Apollonio, la consapevole maturità culturale di quel tempo, che non era appunto da poco.
In ogni caso, a Gresham il motto è attribuito. Naturalmente, quando è attribuito, perché di norma circola (si potrebbe dire: giustamente) come espressione di un'anonima saggezza, cui le temperie calamitose invitano sempre ad attingere per orientarsi con seria serenità. 
O con sferzante ironia, come, proprio comparando il corso delle monete con temi civili e culturali, fece già Aristofane, ad Atene e tra il quinto e il quarto secolo prima dell'Era cristiana. Un commediografo di un altro tempo culturalmente maturo che molto ante litteram si procurò imperitura fama d'essere politicamente scorretto e oltremodo divertente. 
In una traduzione ottocentesca, ecco in proposito un celebre passaggio delle sue Rane: "Coi probi cittadini parmi che Atene | usi come coi vecchi e nuovi nummi. | Poiché sebbene adulterati quelli | stati non sono, e sien dei nummi i primi | di conio vero e di provato suono, | fra i Barbari non men che fra gli Elleni, | pur valersen non vuol ma bensì adopra | gli altri che bronzo sono, or or coniati, | e di peggiore impronta". 
Che tempi, insomma, quelli di "Tempo di libri" (e forse non solo per la linguistica).

3 aprile 2017

Linguistica candida (44): Discreto e continuum





Val sempre la pena di tentare. Perché dietro un "discreto" non si sa, ma si può star certi che, dietro un "continuum", c'è immancabilmente (per dirlo con l'indispensabile garbo poetico della litote) un crudo difetto d'intelligenza.

26 marzo 2017

Ancora gemiti sulla decadenza (linguistica): "Ma comu ci spèrcia?"

Sopra una delle gazzette settimanali che solitamente agitano sonni e veglie del ceto intellettuale nazionale pare sia comparsa ancora una geremiade sul grave stato in cui, quanto a faccende linguistiche e culturali, versano scuola e società italiane e, con la geremiade, la consueta intemerata, ad additare colpe e responsabili. 
La notizia giunge sulla spiaggia della solitaria Citera di Apollonio, portata dalle onde delle reti sociali né se ne saprebbe dire di più a chi, peraltro, ne è certamente già meglio al corrente. Sia affidabile, la notizia, o non lo sia, poco importa: se non accade oggi, sarà accaduto ieri o accadrà domani. Il genere si è ormai istituito e non gli mancano fertili cultrici e cultori.
Impossibile, in proposito, parlare di metodo. E, d'altra parte, prima che impossibile, inutile. Bisognerebbe infatti che un metodo ci fosse, in un simile reiterato chiacchiericcio. C'è infatti il sospetto esso serva a chi vi si lancia (con il solito pretesto del bene comune e della salvaguardia di valori in pericolo) solo per dare prove di esistenza in vita. 
E ciò anche ove si tratti di gente anagraficamente lontana dal momento in cui un'esigenza del genere può diventare impellente. La vita di cui è qui questione, infatti, è quella dello spirito e il possesso di uno spirito vivente è, come si sa, la dote più millantata nei consorzi umani intellettuali, essendo quella che a tali consorzi dà appunto accesso.
Tolto il metodo, resterebbe il merito. Anche lì, tuttavia, è difficile trovare qualcosa su cui valga la pena tornare. La decadenza (culturale) è, tra i temi umani, uno dei pochi che non decade mai. Lai in proposito non sono mai mancati: di norma, si moltiplicano inoltre in temperie tanto storiche quanto delle vite individuali in cui scarseggiano attività migliori cui dedicarsi; manca cioè quasi ogni altra attività morale e materiale. 
Ne segue che la palette dei possibili accenti si può dire esaurita. Né ci si può attendere rinnovamenti dagli spiriti (la cui vitalità s'è sopra tratteggiata) che, con regolarità, consumano all'uopo il loro inchiostro.
Resta allora solo una domanda, che Apollonio considera la sua definitiva in proposito. Essa riguarda chi, indefessamente e senza ombra di metodo, ripropone un merito tanto trito e s'affanna intorno a una questione così sfacciatamente di lana caprina: "Ma comu ci spèrcia?"
E qui, c'è da credere, qualche parola di spiegazione potrebbe essere utile almeno a uno dei due lettori di Apollonio. Sotto forma di domanda retorica, si tratta infatti di un'espressione quasi formulare. Con essa, in Sicilia, si manifesta (ma anche solo nel proprio foro interiore) una stupefatta constatazione. La ispira a un osservatore di norma disinteressato chi compie atti, ha comportamenti, prende atteggiamenti la cui sensatezza sfugge alla comprensione e che paiono pertanto segnali di una perdita di controllo, di una défaillance, di un calcolo apertamente sbagliato, del poco commendevole cedimento a un impulso: 'come può essergli venuto di fare ciò che sta facendo?', 'come gli è capitato d'avere un uzzolo tanto balordo?'
Ecco: "ma comu spèrcia" ad anziane professoresse in pensione, ad accademici giovani e rampanti, ad attempati luminari di serie discipline scientifiche, ad autorevoli penne di importanti testate giornalistiche, a preoccupati guru del corrente pensiero di massa di stare lì a starnazzare pubblicamente sulle futilità della decadenza linguistica e culturale della nazione? Perché non riservano le loro reciproche parole sul tema ai loro eletti incontri privati?
Perché, con eleganza e sprezzatura, non prendono ispirazione dai grandi esempi di un passato che (come si sa) visse le sue gigantesche decadenze, stando a osservare la rovina del mondo a ciglio asciutto e labbro silente? 
D'altra parte, perché non si adoperano alacremente a lasciare tracce durature e autentiche e operose ed effettive di come sarebbe potuta andare e (per quanto pare a loro) non andrà? Perché riempiono invece i loro fogli preziosi delle bave effimere di fruste lamentele? Di rancorose rivendicazioni? Di impotenti sberleffi?
Insomma, c'è il sospetto che, con tali querulità forse un po' volgari, persino loro non siano che un sintomo (e un sintomo molto loquace) della decadenza culturale di cui, vedendola solo negli altri e dandone solo agli altri la colpa, non smettono un solo momento di lagnarsi.

24 marzo 2017

Ne dites pas à ma mère...

que je suis dans la linguistique... Elle me croit pianiste dans un bordel.

[Apollonio conosce abbastanza il suo stordito alter ego e può dire che egli mai si sarebbe atteso che disciplina e professione, ambedue molto peregrine, alle quali si votò ormai più di quaranta anni fa l'avrebbero condotto, da anziano, a condividere, certo, solo nominalmente, la gloria per la corporazione illustrata dal pezzo raggiungibile con questo link. Apollonio lo sa di conseguenza piuttosto stupefatto dalla circostanza e, a tratti, peritoso. Ma sa anche che, amaro per quanto sia, anche il suo alter ego è incline al sorriso, anzitutto su se stesso. Torna così ad adattare al caso in questione il bel titolo che Jacques Séguéla diede a un suo libro serio e divertente. Negare a ogni costo d'essere un linguista, quando fosse interrogato sul proprio mestiere. Vista la temperie, attribuirsene uno qualsiasi e certamente più onorevole. Ecco cosa bisogna che egli faccia. Se non si è bevuto il cervello, ecco cosa si può stare certi egli farà.]

21 marzo 2017

Commento poetico alla Giornata mondiale della poesia

Non si vuol dire Saffo e neppure Catullo, non Callimaco né Orazio, non Bernart de Ventadorn né Giacomino Pugliese, non Villon né Cavalcanti. Non si vuol dire Garcilaso de la Vega né Tasso. Non si vuol dire Milton né Heine. Non si vuol dire Puškin né Leopardi, non Dickinson né Baudelaire. Non si vuole dire Pascoli né Mallarmé né Rilke né Eliot né Majakovskij né Kavafis e così via. Gente troppo lontana dallo spirito di questo tempo per chiedersi che cosa mai penserebbe (e scriverebbe) se, d'improvviso, questo tempo le si parasse davanti, con le sue comicità.
Da stamane, appreso che oggi è la Giornata mondiale della poesia, Apollonio si chiede però cosa di una simile sesquipedale ridicolaggine direbbe un testimone e un poeta morto tutto sommato solo di recente: Pier Paolo Pasolini.
In pochi decenni, il mondo deve essere proprio cambiato se un impudente qualsiasi, camuffato da organismo internazionale e col séguito di folle innumerevoli, ha potuto decretare, sul finire del secolo scorso, che la poesia ha una sua giornata mondiale. 
Il mondo è cambiato, sì. E con lui devono essere cambiati i poeti (il genere è qui solo il convenzionalmente non-marcato) se, in un'occasione come questa, non indirizzano a chiunque oggi si impanca a celebratore della poesia (fosse anche un sedicente collega) una sonora e poetica pernacchia:

14 marzo 2017

Cronache dal demo di Colono (54): Il paese dei balocchi

"Il videogioco diventa adulto e conquista i quarantenni", dice il titolo di un pezzo giornalistico che compare oggi in rete. Perfetta illustrazione del principio che è la prospettiva a fare la notizia. Se i dati che l'articolo espone sono degni di fede (in proposito, difficile si raccontino bufale), da prospettiva diversa il titolo avrebbe potuto essere benissimo "I quarantenni restano adolescenti e non depongono il videogioco". Ragionevolmente, non lo depongono come non depongono altri comportamenti, altre attitudini, altre turbe di quella fase della vita: l'acume dei suoi lettori rende superfluo che Apollonio si faccia qui rozzamente esplicito, in proposito. 
Seguono, naturalmente, le speculazioni con cui il pezzo continua. Soprattutto segue il racconto delle speculazioni economiche consentite da tale estenuato permanere nell'adolescenza. Ed è autentico, di conseguenza, il tocco fornito dalla paradossale presenza istituzionale della ministra dell'Istruzione alla manifestazione di cui è infine questione. Certo, tale presenza dice anche e ancora una volta di una temperie incapace di tenere distinto il sacro dal profano (non è liquida, del resto, la società d'oggi?). L'insieme disegna (consapevolmente?) il dettaglio di un quadro. E il quadro ha per soggetto il prolungato soggiorno nazionale nel paese dei balocchi. Come tutti i soggiorni del genere, è difficile escludere esso abbia una fine ingloriosa, a volerla dire eufemisticamente.   
Insomma, la realtà supera regolarmente la fantasia, anche quella di un Collodi. Ma, per farsi superare, la fantasia è sempre in largo anticipo e dice per quale aspetto, tra i tanti possibili, la realtà finirà per superarla: di norma, sono gli aspetti più ridicoli.

9 marzo 2017

A frusto a frusto (113)





Moraleggiando, la si chiama ingratitudine. La memoria umana è però limitata e tutto, proprio tutto, come si fa a tenerlo a mente? Interviene quindi salvifico il momento di una selezione. Forse inconsapevole. In ogni caso inappuntabilmente calibrata. 

6 marzo 2017

Cronache dal demo di Colono (53): Il declino dell'italiano

Istat: Italiani più vecchi e in calo: ecco la constatazione che non si trova nelle geremiadi sul declino dell'italiano. Invece vi dovrebbe figurare e come principale. 
Il numero di parlanti italiani la cui espressione è o sarà presto lambita dai guasti dell'età è ormai imponente. E sui cento sotto i quattordici anni, eventualmente sgrammaticati, incombe il peso dei più di centosessanta avviati più o meno rapidamente verso un'espressione senilmente demente.
A confronto, accenti e apostrofi giusti, congiuntivi ineccepibili, impeccabili cascate di subordinate e tutta la panoplia dell'eleganza e del garbo che, tra i giovani, si presumono (e forse sono) perduti sono quisquilie: credano ad Apollonio i suoi due fedeli lettori. 
In funzione di tali quisquilie, capita del resto si diletti a indignarsi (e pour cause) una parte della nazione già in grave sospetto di decrepitezza e, quanto alle cose che contano sul serio, ineluttabilmente la meno determinante. 
Non sarà da essa, infatti, né dai suoi estenuati spiriti che la viva espressione italiana del futuro prenderà la forza e lo slancio per continuare a esistere, se mai li prenderà. 

27 febbraio 2017

L'"io" del primo della classe

C'è un nuovo andazzo nella comunicazione pubblica consacrata ai consumi culturali. Non passa quasi giorno che non trovi occasione per proferirvi "io" un primo della classe. In italiano, del resto, basta un verbo alla prima persona per farlo con l'enfasi ricercata.  
Non passa giorno, in altre parole, che un primo della classe non renda esplicita, fra le tre funzioni dell'enunciazione, la sola che, per definizione, un primo della classe tiene stia al centro dell'attenzione generale.
Incapaci di tenersi a freno, per via della frequenza di ambienti forse familiari e certo scolastici umanamente poco formativi, tali "io" danno quotidiane prove di quanto avesse ragione Carlo Emilio Gadda: "l'io, l'io! ...il più lurido di tutti i pronomi!".   

26 febbraio 2017

Bimbi a oltranza e bimbi di ritorno: lingua e stato della nazione

Seicento professori universitari (e assimilabili), con una lettera aperta cui si continua a fare riferimento sui giornali e altrove, hanno dimostrato equiparabile a una neoscuola primaria l'università: così ha osservato l'alter ego di Apollonio, senza intenzione di ironia, anche quando ha sostenuto di dubitare della consapevolezza di tale dimostrazione in chi l'ha resa, quasi fosse un lapsus.
La dimostrazione ha un corollario. Tutto ciò che, nel sistema dell'istruzione precede l'università, è letteralmente scuola d'infanzia. 
Sotto tale luce, non pochi dei processi che hanno interessato la scuola negli ultimi cinquanta anni ne risultano ben spiegati. Sono infatti riconducibili, come aspetti superficiali, a una circostanza di base: l'infantilizzazione della società italiana. Un'infantilizzazione paradossale e anzitutto morale, vista la sempre minore presenza di veri infanti.
A tale infantilizzazione corrisponde infatti, come processo speculare e solo specularmente opposto, un invecchiamento reale della società. Socialmente, si può ormai parlare di esso come di un rimbambimento nazionale. 
Dall'una come dall'altra prospettiva, insomma, un'assenza di maturità.
Da un lato, gli italiani sono bambini a oltranza: si badi bene, persino nella ricerca di quel consenso, di quell'approvazione che s'accompagna all'eventuale (e sempre più ipotetico) successo personale. Questo è ormai l'ultimo orizzonte che, miserevolmente, la scuola prospetta a chi la frequenta.
Dall'altro, gli italiani sono bambini di ritorno: quei vecchi, cui gli irrequieti e incomprensibili modi di condursi dei bambini a oltranza risultano fastidiosi.
Una maturità mai compiuta o già perduta: ecco lo stato della nazione.
La parossistica attenzione per gli aspetti più esteriori della vita linguistica, tipica di questi anni, è del resto tratto anch'esso bambinesco, nei suoi aspetti ludici, o incartapecorito, in quelli rabbiosi.
Frattanto, l'italiano perde in maturità e nelle cose che contano, soprattutto per l'infantile o decrepita modestia di cosa e di chi vi si esprime.
Sul tema, sarà necessario ritornare, anche perché che si parli e si scriva tanto di lingua non è un buon segno, per la nazione italiana.

14 febbraio 2017

Cronache dal demo di Colono (52): Questione di baffi

A Francesco Gabbani si deve augurare di non essere sommerso e inghiottito dal diluvio di discorsi sostenuti che sta suscitando e, anzitutto, di tenere a galla la sua faccia da italiano impunito e sulla soglia di una maturità personale non si sa se rimandata o appena conseguita. A tale faccia, secondo il parere di Apollonio, egli deve una parte di questo suo successo.
Si tratta d'altra parte di un prodotto tipico nazionale, a lungo poco valorizzato per congiunture sulle quali non è il caso di diffondersi. Ma in proposito è sufficiente si pensi anzitutto al genere, sottolineato dai baffetti, e correlativamente a un'attitudine né moralista né sentimentale. Sono, si osservi, questi ultimi i caratteri che marcavano peraltro tanto le figure quanto le canzoni che, al momento decisivo, gli si sono trovate contrapposte.
Una faccia così mancava da un po' dalla scena della canzonetta italiana (e forse non solo da quella della canzonetta) e, oltre alla predisposizione nativa, a Gabbani servirà molto lavoro per portarla con dignità. In proposito, il peso della tradizione non è infatti ignobile. E, sfuggendo alle volgari chiacchiere intellettuali, in ciò si parrà appunto, se c'è, la sua nobilitate.

8 febbraio 2017

Clima e ricerca della verità

Con maggiore o minore clamore, si sentono riecheggiare le affermazioni di presunta scientificità delle schiere opposte di chi dice prossima e forse già in atto una catastrofe climatica, per via di pratiche umane sconsiderate, e di chi dice sconsiderata la diffusione di una paura del genere.
Ci sono smisurati interessi ad alimentare ambedue i campi, quando fanno sembiante di andare alla ricerca di una verità, in proposito: se non si è ciechi e sordi di spirito, non è difficile accorgersene.
Il caso è esemplare.
La commistione di interessi e ricerca della verità è iscritta nel programma della modernità ed è giunta a una fase che pare parossistica. Nessuno immagina, oggi, come altrimenti si possa fare scienza, si possa cioè mettere in pratica una ricerca della verità. È l'interesse il motore che spinge a cercare la verità ma come si fa a prestar fede a una ricerca della verità determinata dall'interesse? 
Il paradosso è lampante e l'evo che vi si è ficcato, se non finirà perendo nel diluvio universale che una parte prospetta, perché tale diluvio, come dice l'altra parte, non ci sarà, merita d'annegare in un ridicolo che, ci si augura, non sia troppo tragico, visto che sta trascinando con sé la povera umanità.

6 febbraio 2017

Cronache dal demo di Colono (51): L'arte di Toni Servillo, alla sua acme

Dicono sia successo questo: "Toni Servillo sgrida uno spettatore che smanetta al telefono in prima fila: applausi dal pubblico". Apollonio stenta a crederci. Non sarà vero e sono certo i giornali che s'inventano simili sciocchezze, per vellicare le foie ridicolmente forcaiole di un pubblico che aspetta solo un'occasione, anche la più cervellotica, per indignarsi e per osannare chi s'impanca a fustigatore e condanna. 
Fosse successo (ma Apollonio ribadisce: non ci crede), solo un commento sarebbe appropriato.
Farebbe infatti scompisciare che, per attirare sopra di sé un po' di attenzione e per strappare, già fuori scena, un applauso corrivo e moralista, a Toni Servillo fosse venuto fatto di atteggiarsi da caporale nei confronti di uno spettatore, ancora prima dell'inizio del suo spettacolo. Da vero caporale, qui si dice, non solo per onorare la memoria del guitto raffigurato nell'immagine, ma anche per non adoperare la più colorita e meno decente espressione in uso a Napoli e altrove (quella, notissima, che condivide, per esempio, con struggente il nesso consonantico iniziale).
Fosse successo (ma è ipotesi dell'irrealtà: lo si sa che non è possibile e che sono i giornali che inventano bufale), di tale gesto da grande attore sarebbe da conservare imperitura memoria. Sarebbe infatti il punto più alto raggiunto dalla straordinaria carriera di Toni Servillo. Una persona vera, colta proprio nel momento del suo inveramento.

2 febbraio 2017

Parabole (8): Rivoluzione e buona educazione

L'esperienza è comune: nella testa di ciascuno e secondo le sue sensibilità, solo un verso, un distico, un ritornello finiscono talvolta per risuonare come emblematici di una canzone. E di un momento. 
Nella recente e molto accattivante Tutti contro tutti degli Stadio (feat. Vasco Rossi, come si usa scrivere adesso, per dire "con la partecipazione di" - e non si può negare sia più spiccio), hanno un carattere del genere i due versi "bisognerebbe scoppiasse una rivoluzione | o che almeno tornasse la buona educazione", che riscattano un testo corrivamente moraleggiante, nel suo complesso.
Ricorrono sul declinare del pezzo e verso la sua conclusione, immediatamente prima dell'assolo di chitarra che, rockeggiando canonicamente, marca l'acme della composizione. Non è difficile supporre che una collocazione del genere non venga a casaccio e ipotizzare conseguentemente che lì si trovi se non il succo della canzone, perlomeno la prospettiva dalla quale inquadrarla.
La prospettiva ironica di una paradossale contraddizione: il balzo verso il futuro di un cambiamento radicale, pur asserito come necessario, vi si trova combinato, come eventualità subordinata, con un ritorno a un bene passato e in ogni caso augurabile. Insomma, avanti o indietro? Avanti o indietro, come usa adesso, in disgiunzione non-esclusiva. Tutto, tranne il presente, né rivoluzionario (si opina) né ben educato (si osserva).
Per naturale rispecchiamento, i dati anagrafici degli Stadio e di Vasco Rossi dicono del resto in modo inequivocabile quale sia il nocciolo del pubblico cui le loro canzoni si indirizzano né la circostanza è contraddetta dal fatto che questo transeunte Apollonio abbia volentieri prestato in proposito il suo orecchio. Anzi. 
L'Apollonio eterno, ovviamente, lo redarguisce: "Ma di che diavolo vai a occuparti, cretino?". Ha ragione.
Chissà a quanti però l'accostamento di rivoluzione e buona educazione ha rinnovato la memoria di parole che, alcuni decenni fa, avevano criticamente combinato i due concetti e che erano allora ripetute da molti: "...la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo; non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia".
Che siano state proferite e soprattutto replicate in modo probo o improbo ha poca importanza. Non è morale, la faccenda, ma teoretica. Alla luce (d'Oriente) di quanto esse asseriscono, infatti, l'assenza di buona educazione è tratto caratteristico di una rivoluzione e non si dà rivoluzione senza che il garbo nei modi non ne risulti sospeso.
Orbene, che la buona educazione manchi è condizione ormai da lungo tempo verificata e quindi perdurante e l'indizio non può che essere loquace, per la formulazione di un'ipotesi. Ai vecchi, forse, pare il contrario, ma una rivoluzione è da gran tempo in atto. Né pare avere soste.
Proprio questo permanente presente potrebbe insomma essere la rivoluzione permanente che s'era augurata di vivere la loro non-permanente gioventù. Non se l'era augurata in questi modi? Ma ha appunto modi, una rivoluzione? E, guardando dal passato, chi può sapere mai quali forme presenti avrà il presente futuro? Restare lucidi, per intenderle quando vengono, è magra consolazione, ma, forse non solo per i vecchi, non se ne intravedono di migliori.

25 gennaio 2017

A frusto a frusto (112)



Il mondo d'oggi è così buffo che potrebbe persino succedere che una neonata associazione degli anacoreti decidesse di istituire una propria assemblea mondiale permanente. 

24 gennaio 2017

A cosa servono, oggi, greco antico e latino?

Greco antico e latino sono inopinatamente venuti di moda, come si sa. Tutti a parlarne, molti a scriverne sui giornali, in rete o, addirittura, a dirne in televisione (e, certo, non in trasmissioni come la gloriosa "L'approdo"). In libreria, correlativamente, alcuni libri. Geniale il greco antico, bello il latino, inutili ambedue ma ovviamente solo per antifrasi e via invece con apologie di norma piuttosto stucchevoli o viete.
A scatenare il modesto temporale, la minaccia di misure che ne rendano ufficiale il ridimensionamento nell'insegnamento. Un ridimensionamento che, c'è da sospettare, è in realtà già operante. Si tratterebbe dunque di una semplice resa o di una sorta di presa d'atto: quei provvedimenti che si assumono quando il mondo ha già provveduto da sé e si fa finta di governare i fenomeni, mentre invece li si sta soltanto rincorrendo, senza naturalmente che lo si possa dire, anche perché - e sta lì il paradosso - tutti lo sanno. Con i buoi già fuori delle stalle, si può stare certi che intervenga presto una norma che, per i buoi, preveda prima la possibilità, quindi l'obbligo assoluto di stare fuori delle stalle.
Del resto, greco antico e latino una loro lampante, se pure modesta utilità, in un'Italia come la presente, stanno dimostrando di averla. Servono appunto a vendere qualche libro e a costruire qualche notorietà, si vedrà quanto durevole, nell'odierno bacino d'utenza della cosiddetta saggistica. Come sanno bene gli editori, si tratta d'elezione di quel ceto docente di cui professoresse e professori di discipline umanistiche costituiscono, da sempre, la punta di diamante e di coloro che sono in atto o sono spiritualmente rimasti sotto l'influenza morale di tale ceto e che sono di conseguenza qualificabili estesamente come discenti.
Per un pubblico del genere e secondo i gusti e le mode del tempo, che tendono inesorabilmente all'elegia, quanto all'estetica, all'edificante, quanto all'etica, e alla chiacchiera, quanto alla teoretica, ecco pronti sui media e sugli scaffali delle librerie i prodotti giusti. Greco antico e latino si sono dunque fatti anch'essi temi effimeri e, considerata la loro persistenza millenaria, è un bel paradosso che illustra meravigliosamente lo stato del mondo presente, la cui cultura si nutre solo di ciò che passa da un setaccio siffatto.
Ed è questa, in conclusione, la saporita e loquace condizione alla luce della quale dire che greco antico e latino siano inutili, sul momento, ma esattamente sul momento, proprio non si può. 

13 gennaio 2017

Linguistica candida (43): Perché non ci si può dire chomskiani

Malamente mascherate da uno stile scientifico, sono sempre state e sono ancora lampanti nella prosa e nella parola di Chomsky una rabbiosa voglia di dimostrare di avere ragione e un'ansia, a tratti spasmodica, di procurarsi proseliti. E più che all'oggetto del suo studio o alla sua osservanza disciplinare, Chomsky continua a mostrare di tenere a se stesso, magnificandosi nella sua teoria, appena può: attitudine espressiva che non è difficile cogliere già nei suoi esordi di arrivista inappagato, per quanto subito realizzato.
Tali caratteri dicono da tempo a chi ha saputo vederli e diranno certamente con chiarezza alle generazioni future che, con il pretesto di una disciplina forse non completamente innocente e piuttosto aggressiva e supponente come è stata, dalla sua nascita, la linguistica, in lui si sono espressi, nella modernità tarda, quindi spirata, un profeta o un agitatore più dell'uomo di scienza che in molti ormai da sessanta anni gli fanno credito d'essere.
E dicono che l'avventurato slancio d'avere appunto avuto, infine, una sola idea (geniale o sciocca, qui poco importa precisare: d'una sola si tratta) ha prevalso in lui sulla scettica ponderazione e sulla zetetica cautela raccomandate da un filo di saggezza a chi, in qualsiasi tipo di ricerca, muove i suoi passi sul ponte sempre incompiuto delle proprie ipotesi e del proprio pensiero.
Come si fa, del resto, a prendere sul serio uno che si è sempre preso tanto sul serio? Uno che si sente un genio e che, come non bastasse, dice di continuo e ai quattro venti di esserlo? Uno di cui, malgrado l'inesorabile avanzare dell'età, non si conoscono un'ironica presa di distanza da se stesso, un "ma forse mi sono sbagliato" o uno "scusate, potrebbe essersi trattato solo di uno scherzo", accompagnati da un clemente sorriso sulle proprie umane e stordite fantasticherie?