24 giugno 2016

A frusto a frusto (105)




Un odioso presente è un futuro radioso passato.

Cronache dal demo di Colono (42): Il terzo "no"

Nei due secoli precedenti, hanno detto "no" prima all'Europa di Napoleone, poi a quella di Hitler. Apollonio non ha un giudizio certo e, a dire il vero, sorride, prima ancora di diffidare, dei giudizi facili e certi come degli sconcerti, delle indignazioni, dei richiami, delle perorazioni che in proposito circolano a bizzeffe, in queste ore. 
Apollonio ha solo dubbi e si stupisce, ancora si stupisce (come si sa, è un inguaribile ottimista) che non prevalga un dubbio. Il dubbio che, davanti il tribunale della storia, non abbiano nuovamente ragione. Un dubbio che dovrebbe indurre tutti a un'intima riflessione morale, prima che politica o economica. E al relativo silenzio.

Lingua loro (36): "...quella più gettonata"

"Maturità, la traccia sul valore del paesaggio è quella più gettonata", scrive l'Ufficio Stampa del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca.
"Quella più gettonata": tre parole. Ne sarebbero bastate due: "la preferita" o "la favorita". Tre per due: non è buon segno o, se si vuole, è segno dei tempi. Segno dei tempi e di un'evoluzione ormai più che tendenziale è d'altra parte anche l'enfatico quella che ricorre dove lo farebbe per antica dignità un meno appariscente la.
L'epoca e la sua direzione sono del resto palesemente contraddittorie. Lo si coglie fin negli infimi indizi, come sono i qui esposti. Si dice, anzi si millanta di preferire velocità e brevità nella comunicazione ma, non appena una scelta si dà, si praticano stucchevoli perifrasi, forme lunghe, surrogati, derivati e parole senza succo. Ha un succo, invece, gettonata. Ma che succo?
Senza averne merito, Apollonio è tra coloro che videro nascere il verbo gettonare e, nell'espressione quotidiana, ne videro il participio passato sempre più fortunato (o più gettonato, se così si vuol dire sulla scorta del Ministero). In breve, gettonato divenne autonomo e si istituì funzionalmente come mero aggettivo.
Erano gli anni del juke-box. Il successo delle canzonette si misurava con il numero di gettoni (o di monete) che la macchina ingoiava per riprodurle. Il juke-box assolveva il suo compito con procedimenti meccanici e secondo protocolli analogici che il ricordo rende oggi quasi teneri. Il braccino prelevava il disco dalla teca. Lo sollevava in posizione verticale. Lo deponeva infine sopra il piatto in posizione orizzontale. La traccia era così pronta a essere percorsa dalla testina. Per metonimia, erano i movimenti di una società in età ancora infantile e balbettante: la società nella cui fase matura comunicazione e cosiddetti consumi culturali sarebbero divenuti invece incondizionati e illimitati, come sono appunto oggi.
Circostanze materiali (il juke-box) e morali (il successo misurato in termini di gettoni) davano a quel mondo un aspetto di durevolezza. Ma era un aspetto ingannevole. Di esso, nulla è oggi sopravvissuto. Tranne la cosa che poteva parere meno solida. Una parola: gettonato. E il suo succo, ormai irrimediabilmente irrancidito, è ciò che si trova a dare un paradossale sapore di antica modernità, per chi sa coglierlo, alla prosa ministeriale. E (ohibò!) alle sue "tracce".

13 giugno 2016

Trucioli di critica linguistica (24): Un fiore per Fiorella

"Le parole perdute" è la prima traccia del doppio CD pubblicato or sono quasi due anni da Fiorella Mannoia, in occasione dei suoi dodici lustri. Pagato il pegno del solito annuncio pubblicitario (Apollonio non ha saputo eliminarlo e se ne scusa), chi legge ha qui a disposizione il video: 


Ed ecco qualche chiosa linguistica al testo. "Migliore" vi ha naturalmente il fascino che fu di una celebre antonomasia, da cui discese la qualificazione di un ceto che tale si tenne (o forse ancora si tiene) per definizione. "Hanno camminato tanto" si dice delle cose o di coloro che vengono da lontano e che quindi si prospetta siano in grado di andare lontano. "In eterno movimento" combina una denominazione politica con una perennità paradossale. "Le ritrovi nelle strade" allude ai luoghi in cui il movimento aveva appunto le sue epifanie. Con "l'aurora" si va alle radici di una delle mitopoiesi moderne più feconde e più predisposte peraltro al troncamento: "il sol dell'avvenir" (alle cadenze metriche non manca talvolta una sottile ironia).  
Quanto al sistema della persona grammaticale, "io" si compone con "tu" in un "noi" inclusivo, che fa da tradizionale emblema funzionale e grammaticale della prospettiva ideologica che si è già specificata. Altrettanto, se non più tipica è d'altra parte la contrapposizione di "noi", e di un "noi" di tal fatta, con "loro". Come si usava e si usa, la terza persona in questione è però accuratamente indeterminata; è in altre parole una forma di impersonale: "ce li portano via". 
In proposito e passando dal testo a una interpretazione dei gesti, come lingua del corpo, non si manchi di osservare in proposito un importante dettaglio. Quando di tale terza persona si tratta nel testo, la cantante fa un gesto tipico dell'oratoria politica. Tra i tanti gesti che ricorrono e che sono dettati da una sorta di danza, il gesto di cui si sta parlando è eccezionale perché è l'unico così univocamente caratterizzato. Con braccio e indice tesi, la cantante addita più volte lateralmente, cioè fuori dello spazio della intimità del "noi" che sta enunciando, fuori dello spazio del faccia a faccia tra chi enuncia e chi è destinatario dell'enunciazione.
La canzone non è però un messaggio di speranza: così potrebbe parere, ma solo superficialmente. "Le parole perdute" non è rivolta alla naturale attitudine che caratterizza l'ottimismo della gioventù. La partita della gioventù, giustamente piena di speranze, è infatti ancora da giocare. Fiorella Mannoia si indirizza piuttosto a chi, nella propria vita, vede la partita già giocata e già consumata una sconfitta. Lo dicono con chiarezza i valori modali e tempo-aspettuali. In proposito, l'elenco è facile ed impressionante. Verbi come "tornare", "ritrovare", "resteremo", "ritornerà" si susseguono. "Il tempo corre in fretta" è formula più volte ripetuta. "Vorremmo... dobbiamo" marca un contrasto insopprimibile e conduce a "quello che non siamo". Infine, l'iterato e apertamente consolatorio "noi siamo ancora in tempo" è, se non una lampante ammissione della verità del contrario, una aperta concessione della sua alta probabilità. Lo conferma il modale, che allude naturalmente al celebre ottimismo della volontà, di "voglio crederci ancora". Lo sancisce definitivamente l'avverbio ancóra. A ricorrenze parlanti e contrastanti dell'avverbio ancóra nella canzonetta italiana degli ultimi anni, Apollonio ha già consacrato un frustolo qualche tempo fa e non è il caso che annoi i suoi due lettori con ripetizioni. Basterà concludere che una speranza che non si può perdere è l'abito che spesso indossa la disperazione.
Insomma, le intenzioni di chi ha composto quei versi sono certo commendevoli e sono intenzioni in funzione delle quali il vecchio cuore di Apollonio non può non commuoversi. Ma la scienza è la scienza e una cruda analisi del testo, con le sue fredde ragioni, ne rivela la stoffa. È vero: "i sogni si allontanano". Forse è però solo perché, al di là d'ogni valore ideologico, si tratta dei sogni di una gioventù sempre più remota. E malgrado Fiorella Mannoia taccia anche lei, come è d'uso, il soggetto di quel cruciale e già notato "ce li portano via", la sua canzone, nel complesso, dice impudicamente di chi o di cosa si tratta. Implacabili e banali, a portare via i sogni, sono appunto i molti anni.
E, se mai lo è stato, non è a questo punto difficile capire quale sia il segmento di pubblico cui "Le parole perdute" è rivolta. Fiorella Mannoia intona la sua canzone accattivante per una generazione che ha perduto le parole di una giovinezza che fu come una gravidanza interrotta. Un pubblico che non solo è più o meno coetaneo dell'interprete ma ne condivide anche un'orientata Erlebnis. Sorelle e fratelli minori di coloro che "fecero il Sessantotto" e per l'accesso dei quali alla ribalta della vita quella manciata di anni in meno fu spesso esiziale. Non ebbero la sfacciata presunzione di avere sulle labbra le parole che, per una stagione, parvero nuove. Al massimo, assolsero con convinzione al dovere di ripeterle. Né toccò loro la sorte mettere a frutto quelle parole, di passare con esse dalla parte di chi se la sarebbe cavata o, in qualche caso, ne sarebbe morto, prima che, giuste o sbagliate che fossero, esse perdessero radicalmente il loro valore. 
Gli spiriti di quella gioventù si infransero anzitutto contro il piombo autentico degli anni eponimi. In séguito, contro il luccichìo d'oro posticcio degli Ottanta. In uscita di quel decennio, sopra le teste di ormai ex-ragazze ed ex-ragazzi, sarebbe definitivamente crollato un mondo intero, insieme con il Muro di Berlino. Così, si sarebbe inopinatamente chiuso il Secolo breve e di quelle parole non si sarebbe più saputo cosa fare, come di moneta uscita di corso.
Negli anni che seguirono, le si cambiò infatti al ribasso con le stucchevoli paroline di generici buoni sentimenti e di moraleggiamenti fondamentalisti. Da tempo, ormai, attitudini del genere sono spacciate per impegno politico. Questo offre la fiera delle idee molto a buon mercato cui il disordine globale invita agli acquisti tutti coloro, giovani o vecchi, che con pia falsa coscienza aspirano oggi a salvarsi l'anima. In alternativa, ma solo per i vecchi, c'è la nostalgia di Fiorella Mannoia.

11 giugno 2016

Émile Benveniste, come ciambella

Scusino Apollonio i suoi due lettori: questo frustolo ha ragioni strettamente personali. Esso va in soccorso del suo alter ego. Oggi, nel tardo pomeriggio, lo sconsiderato è impegnato in una scabrosa congiuntura acquatica. Apollonio dubita ne esca indenne e teme anneghi. Non esclude così che possa venirgli utile, come ciambella di salvataggio, Émile Benveniste. A ogni buon fine, gliene rammenta parole inaffondabili.


"En réalité la comparaison du langage avec un instrument [...] doit nous remplir de méfiance, comme toute notion simpliste au sujet du langage. Parler d'instrument, c'est mettre en opposition l'homme et la nature. La pioche, la flèche, la roue ne sont pas dans la nature. Ce sont des fabrications. Le langage est dans la nature de l'homme, qui ne l'a pas fabriqué. Nous sommes toujours enclins à cette imagination naïve d'une période originelle où un homme complet se découvrirait un semblable, également complet, et entre eux, peu à peu, le langage s'élaborerait. C'est là de la pure fiction. Nous n'atteignons jamais l'homme séparé du langage et nous ne le voyons jamais l'inventant. Nous n'atteignons jamais l'homme réduit à lui même et s'ingéniant à concevoir l'existence de l'autre. C'est un homme parlant que nous trouvons dans le monde, un homme parlant à un autre homme, et le langage enseigne la définition même de l'homme" (De la subjectivité dans le langage (1958), adesso in Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966, p. 259).

Apollonio sa che il suo alter ego non le condivide fino in fondo (nemmeno egli medesimo, peraltro) ma è sicuro che, se il rischio è di andare al fondo, vi si aggrapperà. 
Del resto, come quasi tutto ciò che il grande allievo di Antoine Meillet ha lasciato in eredità a chi vuol riflettere sulla lingua in modo autenticamente linguistico, esse sono uno splendido punto di arrivo e, al tempo stesso, un buon punto di partenza. Per andare oltre.

8 giugno 2016

Lingua loro (35): Eroe

Eroico, l'aggettivo, dopo secoli di onorato servizio, pare destinato alla soffitta. 
Al suo posto e con parte delle sue funzioni, nella lingua di tutti i giorni si è installato il sostantivo eroe, da cui peraltro l'aggettivo deriva. Poco importa che la qualificazione sia appropriata al gesto che ne viene illustrato o solo (ridicolmente) enfatica, come è il caso, tra i mille, che si raggiunge con questo linkPompiere eroe, medico eroecane eroe e così via sono oggi la norma. Ad Apollonio è già capitato di registrare persino casi di poliziotta eroe, al posto del femminile eroina, che tuttavia anch'esso ricorre nel nuovo modulo, dandosi il caso. 
Pompiere, poliziotto, medico, cane eroico, a proferirli o a scriverli, si passa invece già per gente fuori moda. Se riferiti a esseri umani, eroico, eroica, eroici, eroiche hanno il tanfo del lessico da bollettini bellici d'antan ("...le soverchianti forze nemiche..."). O paiono usciti direttamente da quei testi comicamente militareschi che ancora accompagnano le cerimonie di conferimento di medaglie ("...con sprezzo del pericolo e noncurante del..."). 
Gli aggettivi derivati da eroe sono roba insomma con cui non si può più andare in giro per i nuovi mezzi sociali di comunicazione, pensando d'esser presi sul serio (o, forse, nel caso specifico, di non essere presi sul serio: ma sulla complessa faccenda dei contenuti, come al solito, Apollonio ha poco da dire). 
Il nuovo costrutto tende alla fissità e il nome eroe (o, come si diceva, eroina) vi è introdotto come apposizione, ovviamente. Il modello è quello consolidato di scienziato genio e di concertista bambina. Niente di stupefacente, di conseguenza.
Di eroi, però, come è facile vedere, i tempi presenti abbondano e, nel caso di eroe, il travolgente andazzo invita quindi a non escludere l'eventualità che la forma finisca per essere sentita, funzionalmente, come un mero attributo. E che da lì, cioè da quello che i linguisti sofisti chiamano un uso, risalendo la corrente, eroe non si trovi finalmente ricategorizzato anche come aggettivo da qualche dizionario del futuro. 
Temerario sarebbe farlo già adesso. Sarebbe appunto gesto da lessicografo eroe.