31 agosto 2009

Lingua nel pallone (1): "Attaccare la profondità"


"Il montenegrino prende in mano la squadra: gioca con forza tra le linee, attacca la profondità, cerca il triangolo, vede la porta".
Apollonio trova il passaggio di delizioso cattivo gusto: corrivamente esoterico e esotericamente corrivo, come deve essere la lingua speciale delle masse di fanatici del calcio. Tra i quali Apollonio (con moderazione) si annovera, anche se (lo confessa) mai avrebbe il coraggio di infilare in un suo periodo (anche nell'orale) una serie così scintillante di effetti di stile: similoro autentico.
Alessandro Bocci lo fa, invece, nella sua cronaca sul Corriere della Sera di oggi dell'incontro Fiorentina-Palermo, che conta altre gustose tournures, pronte, come le prime, a diventare stucchevoli al secondo passaggio, naturalmente. Così si conviene a questa prosa densa di orpelli: più lesto nelle ripartenze; tiene alto il baricentro; esercita pressione sulle fasce; dovrebbe essere più concreta negli ultimi sedici metri; soffre, sbuffa, in alcuni momenti va in difficoltà; ha finito l'ossigeno; gestire con qualità i minuti finali e così via.
Un gergo di massa fatto di arcani luoghi comuni, come si fosse al cospetto del lessico specialistico d'una disciplina scientifica o della lingua letteraria di una scuola poetica sperimentale. Prendere in mano la squadra, giocare tra le linee, attaccare la profondità, cercare il triangolo, vedere la porta: una o più figure per ciascuna espressione, che (Apollonio ha il sospetto) nessun lessicografo ha ancora registrato. Ma sia lode all'effimero, tra le esperienze (linguistiche) umane forse la sola imperitura.

28 agosto 2009

Bolle d'alea (9): Malraux

Non esiste minoranza intelligente che non contenga una maggioranza di imbecilli. Deve essere più o meno questo il modo con cui l'idea fu espressa nel secolo scorso da André Malraux, il noto avventuriero, scrittore e ministro francese. Apollonio cita a memoria: niente virgolette; la pazienza e l'aiuto dei due lettori saranno ancora una volta molto graditi.
Inutile dire che si tratta di criterio da sempre utile per la comprensione delle dinamiche sociali, diventato indispensabile con l'avvento del Moderno e della sua contemporanea putrescenza.
Apollonio ritiene tuttavia che sia proprio da stupidi limitarne la portata euristica al dominio sociale, come se, dell'umanità, l'individuo, i suoi pensieri e le sue prassi fossero così i soli talvolta salvi dall'essere eventualmente imbecilli.
Per capire quell'illusione cui ci si riferisce con essere umano, come per capire i fenomeni linguistici che perfettamente lo rappresentano, la fissione di ogni parvenza di unità solo presuntamente minima e la sua riduzione a puro termine multicomposito di sistemi di relazioni sono condizioni irrinunciabili: nel dominio sociale tanto quanto in quello psichico, l'individuo è tra tali parvenze, non meno di ogni suo correlato oppositivo.
E dunque: non esiste testa intelligente che non contenga una maggioranza di idee stupide, come meglio di ogni discorso dice l'immagine che illustra questo post. Di più, non esiste lampo d'intelligenza che non contenga una preponderante parte di stupidità e così via, vertiginosamente, all'infinito: c'est la condition humaine.

26 agosto 2009

"Ma come è umano, Lei!"

"Anche se la creazione di nuove teorie è una realizzazione di pochi dotati, lungo gran parte della storia umana è stato possibile ad altri, di minor talento, comprendere e apprezzare ciò che era stato compiuto".
Il valore etico e teoretico di questa affermazione (in ogni caso, discutibile) muta in funzione dell'opinione di sé che, con riferimento a essa, ha chi l'ha dettata: i due lettori di Apollonio ne converranno.
Sotto la penna di uno che si crede tra coloro "di minor talento", essa è ancora tollerabile.
È anzitutto una sesquipedale volgarità, invece, tale da suscitare nel lettore una risata, se a scriverla è stato chi pensa di sé "e io sono uno dei pochi dotati" e la propone inoltre come conclusivo argomento a sostegno del valore di ciò che sta spacciando per "nuova teoria".
In questo secondo caso, essa deve poi essere motivo di preoccupazione, nell'ambiente in cui è stata enunciata. E, per chi riconosce nel suo enunciatore la propria autorità di riferimento, una buona ragione per interrogarsi sul ruolo che la commedia gli assegna.
In quelle parole si intravedono infatti arroganza, millenarismo, pregiudiziale rifiuto della critica, odio per la scepsi, propensione ai giudizi assoluti e ai comportamenti improntati a visioni totalitarie. Insomma, vi si legge ciò che è l'opposto dello spirito aperto, possibilista, tollerante e naturalmente ironico della scienza: un atteggiamento di spregio per l'umanità comune dei presunti meno dotati, possibilmente ammessi, da devoti, a "comprendere e apprezzare" l'opera degli eletti, dei "pochi dotati", che, anche dal punto di vista aspettuale, vi è presentata come perfetta: "creazione... compiuta".
Abbia (avuto) un individuo che pensa una cosa del genere e che si ritiene una tale divinità il potere di nuocere (anche solo intellettualmente), lo abbiano eletto a capo di una setta la stupidità, la pecoraggine, la malafede e il calcolo meschino di trarne vantaggi personali socialmente rilevanti, i risultati possono essere stati solo quelli che la storia anche recente dell'umanità dovrebbe avere insegnato a fuggire.
Tra tutti, e il più pericoloso, il conformismo: nella Modernità (e in quella marcia ancora di più), esso ha preso a camuffarsi, pubblicitariamente, da innovazione continua, da rivoluzione o da evoluzione permanente. Ma la storia, com'è noto, non insegna nulla.
Ah! Apollonio stava per dimenticare il riferimento: N. A. Chomsky, "Linguaggio", in Enciclopedia, vol. VIII, Einaudi, Torino 1979, p. 395. Niente paura, dunque, e solo da ridere. Grazie al cielo, tutto resta nell'aia della linguistica, dove anche le massime corbellerie e l'opera instancabile degli innumerevoli Giandomenico Fracchia che ci credono o fanno finta di crederci hanno conseguenze meno che marginali per le sorti dell'umanità.

[Tra coloro che vivono di accademia, se ne incontra parecchia di gente che, per aver fatto anche molto meno di Chomsky, è pronta a pensare, a dire e a scrivere cose simili. E lo ha fatto, magari con parole diverse e adducendo meriti, competenze e professionalità. E va su tutte le furie se i malcapitati che la incontrano, scrollano il capo e si allontanano disgustati. Quanto ai Giandomenico Fracchia, se ne trovano complementarmente legioni. I due lettori di Apollonio lo sanno e, dandosi di gomito, staranno già facendosi nomi degli uni e degli altri: al prossimo incontro, glieli sussurreranno in privato all'orecchio].

24 agosto 2009

Bolle d'alea (8): Flaubert

Da Costantinopoli, autunno del 1850, Gustave Flaubert scrive a un suo corrispondente: "De temps à l'autre, dans les villes, j'ouvre un journal. Il me semble que nous allons rondement. Nous dansons non pas sur un volcan, mais sur la planche d'une latrine qui m'a l'air passablement pourrie. La société prochainement ira se noyer dans la merde de dix-neuf siècles, et l'on gueulera raide".
Sono passati più di cento cinquanta anni. I secoli sono diventati ventuno. On gueule raide. La planche deve avere ceduto. L'olfatto, il più antico, nobile, ragionevole dei sensi, lo dice inequivocabilmente.

23 agosto 2009

Nomen, non me! (9)

A proposito di glorie nazionali, dalle parti in cui visse il maggiore filosofo italiano del Novecento alligna, talvolta, un sacrilego cinismo. Si sa come sono, questi meridionali: non hanno rispetto per nulla.
C'è addirittura chi osa definire la sua opera monumentale

'no brodett'e cece!

[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]

22 agosto 2009

Nomen, non me! (8)

E, quanto a politica del prelievo fiscale, quali sono oggi in Italia gli indirizzi del titolare del dicastero competente?

Or e titoli mungi

(L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta)

19 agosto 2009

Lingua nostra (2): dal focolaio svizzero, "(inter)facoltario"

Gli aggettivi facoltativo e facoltoso, in italiano, ci sono già. Ma facoltà come "sezione dell'università che raggruppa materie affini" non ha ancora il suo aggettivo relazionale (che delizia, sia detto a margine, l'ordinato mondo che descrivono i dizionari, con simulata ingenuità!).
Tanto i comuni quanto le facoltà, per es., hanno un consiglio: ma se per i comuni è, da sempre, un consiglio comunale, per le facoltà è stato finora un consiglio di facoltà. E basta.
Del resto, nelle università come altrove nel mondo, di molte cose si dirà che sono facoltative ma di nessuna lo si dirà in ragione del fatto che è 'di una facoltà universitaria' o 'relativa a una facoltà universitaria'.
Che facoltoso possa poi avere qualcosa da spartire, oggi, con qualsiasi aspetto della gloriosa istituzione accademica occidentale muove al riso. "'Bambole', non c'è una lira" è ormai il motto che vi circola. "A meno che - si aggiunge di solito - non siate capaci voi medesimi di trovare chi compri le vostre grazie". E, meglio di tutte le chiacchiere su rinnovamenti metodologici, meriti ed eccellenze che si sentono in giro, ciò dice il perché da più parti politiche ed economiche si prema per mettere presto alla porta pletore di avvizziti vecchietti sostituendoli con più appetibili e giovani virgulti della scienza. Si vuol mettere la differenza di vendibilità?
Comunque sia, a colmare la lacuna lessicale dell'italiano di cui si diceva, si sta provvedendo in Svizzera: (inter)facoltario compare già nella prosa giornalistico-burocratico-accademica che vi si produce nella lingua del sì. In un documento della città di Zurigo, per es., a proposito della splendida ed efficiente biblioteca centrale, si legge: "È un ente interfacoltario dell'Università, accessibile al pubblico". "Per la discussione facoltaria" è recentissima attestazione raccolta personalmente da Apollonio.
Una mano, nel nuovo conio, deve averla data il francese. Secondo i dizionari, facultaire, "relatif à une faculté: l'administration facultaire", è attestato a partire dal 1970. Ma, da ciò che compare in rete, sembra oggi vivace soprattutto in Belgio, nel Québec, di nuovo in Svizzera: il Pôle facultaire de Microscopie Ultrastructurale, per es., è a Ginevra; a Losanna, invece, si potrà frequentare il Département interfacultaire d'éthique.
Ragionevolmente per influenza del francese, sempre in Svizzera prospera anche il tedesco fakultär: di fakultäre Forschungsschwerpunkte parla il sito dell'Università di Zurigo. Fakultär non sembra però ancora completamente acclimatato nell'area germanofona. Le attestazioni tedesche, svizzere e austriache (con valori diversi, non solo aggettivali) sono numerose, è vero. I dizionari comuni però tacciono. La parola circola parecchio ma è come se non esistesse: una sans papier che, fatto il suo lavoro, si acquatta clandestina.
Tacciono i dizionari anche in Italia, e con ragione. Fuori dell'italiano in Svizzera, (inter)facoltario sembra, allo stato, soltanto potenziale o, per dir così, ultra-tendenziale. Lo testimonia il brano seguente (di autore presumibilmente romano). Gli affezionati di Apollonio crederanno si tratti di una parodia. Invece è autentico (punti di sospensione compresi). Se vogliono, possono trovarlo anche loro in rete:

"Salve a tutti. Quest'annuncio è rivolto a coloro che vogliono creare sinergie e vogliono affiancare alle loro metodologie e tecniche questo nuovo e promettente approccio. Dopo una discussione alquanto interessante nella sezione di psicoterapie mi sposto in questa di lavoro... Mi sono laureato in quella che una volta si chiamava psicologia sperimentale con un indirizzo ancora piu strano (il corso era interfacoltario tra ingegneria e psicologia)... fra poco comincerò il dottorato in psicologia cognitiva... Purtroppo il neurofeedback è una tecnica relativamente giovane ma estremamente promettente (se volete fate un giro sul sito nell'NIH, praticamente l'istituto superiore di sanità americano, per capire quanto ci stiano puntando all'estero...)".

Insomma, l'impressione è di un'innovazione lessicale francese. Il francese è l'unica delle tre lingue qui prese in conto per le quali esistono già, da almeno trenta anni, opportune registrazioni lessicografiche di facultaire.
In modi variamente rigogliosi, essa sta avanzando tanto in francese, quanto in tedesco (come fakultär) e, adesso, in italiano (come facoltario). Sembra l'avanzata si muova soprattutto da focolai marginali: anche in francese. E la Svizzera pare giocare nel caso specifico un ruolo speciale: i focolai vi sono (anche amministrativamente) contigui e, nel contatto, si rinfocolano vicendevolmente, nella creazione di un elvetismo interlinguistico.
Niente di scientifico, naturalmente, in questo post: in linea, del resto, con l'intero blog. Dietro, c'è solo un'approssimativa e rapida raccolta di dati in rete e la consultazione di banali dizionari: un passatempo agostano, come, anni fa, si fece con ippomontato.
Il dato di questa che pare una comune innovazione 'continentale' (e non 'anglosassone') è comunque curioso. Fiducioso, Apollonio lo affida alle competenze, alla dottrina, all'erudizione dei suoi preziosi cinque lettori.

18 agosto 2009

Preistoria di "Nomen, non me!"...

...per l'eventuale diletto di sfaccendati agostani

Era un tardo pomeriggio della primavera del 1972: il 7 maggio si sarebbero svolte le elezioni politiche italiane. Luigi Pintor teneva un poco affollato comizio a Palermo, in piazza Verdi, quella del Teatro Massimo. Apollonio, ch'era poco più d'un adolescente, consumava in quella primavera certi suoi ultimi entusiasmi: piuttosto, certi suoi estremi astratti furori. Ed era lì ad ascoltarlo.
Dire oggi, quasi quaranta anni dopo, se le cose che Pintor sosteneva fossero giuste, vere, opportune sarebbe inutile. Inutilmente erudito sarebbe precisare per quale parte politica parlava. Era la parte politica che egli stesso aveva fortemente voluto presentasse proprie liste di candidati a quelle elezioni, con esiti che per essa (e nel suo piccolo) si sarebbero rivelati catastrofici.
L'umorismo, ha scritto un barbaro non privo d'ingegno, è il modo con cui lo sconfitto rivendica e riafferma la sua inutile superiorità. Pintor aveva un'eloquenza umoristica: la sconfitta era inscritta nella sua espressione, dunque, e travalicava quella, effimera, che egli avrebbe subito pochi giorni dopo.
Ugo La Malfa, palermitano di nascita ma non di formazione culturale e politica, azionista, massimo esponente del Partito Repubblicano Italiano, fervente e convinto sostenitore dell'alleanza atlantica e quindi filoamericano, sovente titolare di dicasteri economici nei governi italiani dell'epoca, doveva appunto essere in quei mesi ministro del Tesoro (o delle Finanze: poco importa). E Pintor, quasi in chiusura del suo comizio: "E ditemi, compagni, come si può credere all'autonomia delle scelte economiche e all'indipendenza dai petrolieri americani di un governo che ha per ministro del Tesoro un signore il cui nome, in anagramma, suona Amo la Gulf?".
L'argomento politico non era forse ineccepibile. Certamente non era ineccepibile l'anagramma: restava infatti una a. Ma Apollonio rise. Pensò. Gli parve di capire qualcosa, dove forse non c'era nulla da capire. Gli parve del resto che il metodo meritasse sviluppi e che con la sua insensatezza rivelasse faccette del mondo inaccessibili a chi crede di ragionare in modo sensato. Consumò inutilmente in quella primavera certi suoi estremi astratti furori... E poi, ilare, venne Saussure.

17 agosto 2009

Nomen, non me! (7)

Il commissario indaga sul caso di un instancabile e inarrestabile serial writer: cosa muove i suoi atti? Sarà forse venale, la sua musa?

Denari: li reclama

[L'invenzione di un anagramma è giustappunto una scoperta]

16 agosto 2009

"Nos, Langobardi..." (2 e fine)

La Relatio de Legatione Constantinopolitana di Liutprando fu scritta in latino (come diversamente avrebbe potuto, all'epoca?) e, ragionevolmente, in latino si svolse la conversazione tra un imperatore greco e l'ambasciatore longobardo di un imperatore tedesco, cui era venuto l'uzzolo di fare una l'Italia (proprio così!) e voleva venirne a capo con le armi o con un matrimonio: la storia è sempre incontenibilmente ironica.
Tra i moderni che hanno riferito del gustoso aneddoto, forse qualcuno avrà già fatto osservare tali circostanze, tanto ovvie quanto (a ben riflettere) rivelatrici. Ad Apollonio però non risulta. Egli sa direttamente di Carlo Cattaneo e, più di recente, di Giulio Bollati; indirettamente, di Benedetto Croce. Se uno dei suoi due lettori sa di più, lo aiuti e lo corregga.
Liutprando potè dunque dire a Niceforo Foca "Nos, Langobardi", spregiando i "Romani", ma lo disse (e ne riferì ad Ottone) in latino: nella lingua messa in giro per il mondo (e con che imponenza) dagli eredi di quel Romolo di cui il vescovo di Cremona ricorda, tanto per essere chiari, che fu fratricida oltre che (e nelle sue parole pare colpa più grave) frutto di relazione adulterina: "Romulum fratricidam, ex quo et Romani dicti sunt, porniogenitum, hoc est ex adulterio natum". A buon intenditor...
Né meno comica (e certo più inconsapevole e grottesca) è l'enfasi politica sui dialetti che, in odio ai "Romani", oggi furoreggia (come si diceva nel post precedente) dalle parti di Liutprando. Contrapposti pretestuosamente all'italiano, non 'romano' ma fiorentino e, da tempo, sempre più settentrionale e padano, essi sono diversi e locali solo in funzione di quell'identità latina (e quindi, politicamente, 'romana') da cui originano. La loro variazione e la loro comparabilità confermano insomma in ogni momento l'unità storica profonda cui, nei fatti, si riferiscono: come ogni variazione, come ogni comparabilità tra simili. Altro che distacco da Roma e da quei figli di buona donna dei 'Romani' (certo, antichi).
Ciò detto e venendo a ciò che è veramente transeunte, caso mai l'attuale e sperabilmente passeggera enfasi politica sui dialetti si sedimentasse in provvedimenti, lungi dal nuocere all'unità italiana, questi sarebbero forieri di disastri proprio per le parlate locali, strapazzate da un uso strumentale e destinate a passare definitivamente per stupide nel momento in cui entrassero in un'aula scolastica col finto folklore di favolette e canzonette: cadaverini linguistici, odiosi per il dolciastro sentore del marcio. I dialetti italiani (ohibò!) sono infatti delicati, in questa fase della loro vicenda linguistica. Come tutte le cose delicate, andrebbero lasciati in pace e non trascinati nel curtigghiu, se non se ne vuole decretare veramente la morte.
Una morte miserabile, peraltro. Non quella cui è andato incontro l'idioma in cui scriveva Liutprando e che era stato di Fedro, al quale il fantasioso Giorgio Manganelli imprestò un sarcastico giudizio sui "Romani" non troppo diverso da quello polemico del vescovo di Cremona: "Che la mia [lingua] sia morta, non mi stupisce: anzi mi par giusto; tali e tante erano le canaglie che la parlavano".
I dialetti stanno invece in bocca alle persone per bene: che vivano, che muoiano, vanno lasciati tranquilli, al loro piccolo destino. Solo quando è parlato da figli di buona donna ed è rotto perciò a tutte le avventure, un idioma diventa una lingua. E se a parlarla e a scriverla sono veramente gran figli di buona donna, una lingua vive grandiosamente e grandiosamente muore: come il latino. E morta, lasciando numerosa prole, sovente di dubbia legittimità, profuma per sempre di rose.

12 agosto 2009

"Nos, Langobardi..." (1)

"Vos non Romani, sed Langobardi estis [Voi non siete Romani, siete Longobardi]": mancavano ancora tre decenni al 1000 e l'imperatore d'Oriente Niceforo Foca apostrofò così Liutprando, vescovo di Cremona, inutilmente inviatogli come ambasciatore dal collega Ottone I, per combinare tra l'altro un matrimonio e dirimere così un difficile contenzioso tra i due imperi, relativo all'Italia meridionale. I rapporti di colleganza, come si vede, non erano facili neanche allora.
Di ritorno, il longobardo raccontò d'avere replicato come segue allo sprezzante ospite: "nos, Langobardi, scilicet Saxones, Franci, Lotharingi, Bagoarii, Suevi, Burgundiones, tanto dedignamur [coloro che son detti Romani], ut inimicos nostros commoti nil aliud contumeliarum, nisi: Romane! dicamus, hoc solo, id est Romanorum nomine quicquid ignobilitatis, quicquid timiditatis, quicquid avaritiae, quicquid luxuriae, quicquid mendacii, immo quicquid vitiorum est, comprehendentes". 'Romano!', quindi, per "nos Langobardi" valeva come massima contumelia da rivolgere al nemico, riassuntiva dell'attribuzione di un'impressionante serie di vizi: ignobilità, pavidità, avarizia, lussuria, mendacio e così via.
Innescato dal 'voi' di Niceforo Foca, ecco allora un lampante caso di 'noi' che esclude l'interlocutore, di 'noi' non-inclusivo. In anni recenti - e, certo, quando dei Longobardi, etnicamente, si è ormai persa ogni traccia - un 'noi' così caratterizzato ha ripreso a furoreggiare nelle contrade che furono di Liutprando. Di nuovo (e qui sta il comico: ma se ne riderà in una prossima occasione) in relazione ai 'Romani', termine oppositivo indispensabile alla soggiacente costituzione di un 'noi' inclusivo, cioè di quel 'noi' con cui, chi parla, espropria invece il suo interlocutore della sua individualità.
"Se vogliamo che tutto rimanga come è..." dice Tancredi Falconeri, col 'noi' inclusivo più famigerato della letteratura italiana e non c'è lettore del Gattopardo che non abbia attribuito il pensiero e, nel ricordo, addirittura le parole al povero Fabrizio Corbera, in quella come in altre occasioni, davanti al nipote, silente.

Non ci si riflette mai (come non si presta mai la giusta attenzione alle mani di un borseggiatore), ma a dire 'noi' è infatti sempre un 'io' e, inclusivo o non-inclusivo, non di rado il giochetto del 'noi' (che pare innocuo) finisce male: in una guerra, certo, e persino in un matrimonio.

9 agosto 2009

Lingua loro (15): "osservatore volontario"

Per decreto ufficiale, osservatore volontario sarà chi farà parte di quelle ronde di cittadini istituite come risposta all'esigenza (pare diffusa) di contrastare il visibile degrado cui stanno andando incontro le città italiane.
Racchiusa in tale designazione, c'è per chi vuole osservarla una ricca rappresentazione della società che parla la lingua che oggi accoglie l'espressione.
C'è, palese e moderna, l'osservazione e, celata ed eterna, l'osservanza.
C'è la volontà esibizionista della milizia, che - soprattutto come velleità - è tra le maggiori attitudini socio-psicologiche della nazione. E c'è l'ipocrisia eufemistica del nomen agentis, con cui (senza nominarlo, ché sarebbe scandalo) s'allude al ruolo poliziesco.
C'è la ridondanza semantica: nomen omen, l'istituto medesimo è ridondante in un paese che ha un numero imprecisato di polizie diverse. E c'è l'ambiguità sintattica: osservatore volontario non è infatti chi osserva volontariamente (opposto a chi lo fa involontariamente) ma chi, come volontario, copre la nuova funzione di osservatore.
E con la spudorata creazione di un voyeur istituzionale, c'è insomma nel nome la rivelazione, evocata per eccesso di contrasto, della nuova fase acuta di un morbo antico: la cecità, che ormai dilaga, di chi pretende di guardare senza saper vedere, parallela del resto alla perenne volgarità di chi pretende di scrivere senza saper leggere (nemmeno ciò che scrive).

2 agosto 2009

Lettres persanes (1)

Apollonio riceve, traduce dal persiano e volentieri pubblica:

Caro Apollonio,
a chi viaggia per paesi di cui non conosce a fondo gli idiomi capita di rubare qualche vocabolo, qualche espressione dalle scritte stereotipe, sovente plurilingui, che si vedono nei luoghi pubblici, utilizzandole, nella loro grossolana modestia, come Champollion fece invece finemente con la famosa Stele di Rosetta.
Ne ho fatto esperienza ancora una volta qualche giorno fa: con l'italiano. Ero alla stazione di Milano: in coda alla biglietteria e l'attesa (non breve) mi ha dato modo di sapere come suonano in italiano open e closed. Era scritto sugli sportelli davanti ai quali ho trascorso qualche istruttivo quarto d'ora. In italiano, ho appreso, open si dice operativo e non operativo vale closed. È stato il prezioso acquisto lessicale della mia giornata. Io, pensa, avevo sempre creduto che a open corrispondesse aperto e chiuso invece a closed.
Nel mio perdurante soggiorno italiano, per nulla clandestino, m'è accaduto di assistere a vicende che, come sai, alla buona avevo dette effetto d'una certa chiusura mentale dei tuoi connazionali. Ora so che, nella tua bella lingua, nei casi in questione è appropriato parlare di menti non operative. La scoperta mi ha riempito di gioia, come comprenderai, e ha accresciuto la mia ammirazione per una lingua capace di dire in modo tanto chiaro come stanno veramente le cose. Lo vedi? Basta veramente poco per nutrire il piccolo spirito di un perdigiorno che si diletta, viaggiando, delle sistematiche, esotiche stranezze della parola umana.
Con amicizia,
il tuo Usbek

1 agosto 2009

Dialetti italiani: da quattordici a seimila

In questa settimana, l'Italia dialettale è stata per un giorno à la une. Il lettore di Apollonio che in Italia ci vive lo sa: l'altro ne sia succintamente informato da questo post. Naturalmente, l'Italia dialettale non è arrivata in prima pagina per ragioni di merito (sarebbe difficile anche immaginarne l'occasione). È stata invece fatta pretesto del cosiddetto dibattito politico: "«Esame di dialetto ai professori» / La Lega fa scoppiare un altro caso".
Con la collaborazione degli organi di informazione, i protagonisti di tale dibattito sarebbero del resto capaci di mettere in scena un curtigghiu (è voce siciliana) con qualsiasi (vecchio) arnese concettuale, nazionale o internazionale. Gran merito, per una nazione che è diventata così poco professionalmente teatrale forse perché ha trasferito la sua diffusa teatralità dilettantesca dai cortili dei caseggiati alle arene deputate al pubblico confronto dei suoi ceti dirigenti e intellettuali.
Dalla prima pagina, qualsiasi tema sollevato dal curtigghiu scivola il giorno dopo nelle pagine dei commenti e degli approfondimenti, dove a impadronirsene sono i guitti delle seconde schiere, per poi estinguersi più o meno rapidamente, fino a nuova replica. È appunto accaduto così anche all'Italia dialettale e, per chi della questione ha una cognizione pur vaga, il vero divertimento non sta nella fiammata iniziale (dove pure se ne leggono delle belle) ma in queste conseguenti pagine distese, che prendono l'andamento del saggio e sono di norma imperdibilmente esilaranti.
In un suo paginone centrale, il più venduto quotidiano nazionale ha per esempio titolato perentorio: "Un Paese / 6000 lingue". Cifra peregrina? Per nulla: iperbole codificata. In altra occasione, tempo fa, l'espressione umana era stata fatta oggetto di cure giornalistiche, col pretesto allora della campagna di un'agenzia culturale internazionale per la salvaguardia degli idiomi in pericolo di estinzione e della correlata fantasiosa istituzione (se non ci si sbaglia, a Genova) di un museo. Il numero delle lingue al momento parlate al mondo era stato per l'evenienza fissato alla medesima cifra, se Apollonio non ricorda male.
Locale o globale, evidentemente poco importa: quando è questione di parlate, si deve essere tacitamente stabilito nelle redazioni che seimila corrisponde alla massa critica, in funzione della quale parte la reazione a catena dell'attenzione dei media.
Chi volete del resto si impressioni oggi per quel quattordici sul quale, settecento anni fa, si fermò Dante nel suo computo sistematico delle varietà della lingua del sì? Chi volete prenda in considerazione il suo monito a non impelagarsi, per volere dire di più e per sottilizzare, in calcoli tanto impossibili quanto millantati? Chi volete si curi della sua irrisione del municipalismo?
E poi, diciamolo, per quattordici varietà la questione politica non sarebbe nemmeno nata. Sono meno delle regioni, poco più d'un decimo delle province. Seimila "lingue", invece: vuoi mettere il numero di assessorati competenti? E quello delle correlate consulenze remunerate? E quanti bei posti comunali di ufficiale dialettale da creare, per concorso pubblico! Con la sezione "Annona", la Polizia locale ne conterà naturalmente una "Idioma", incaricata di assicurare il rispetto delle relative norme nell'area di competenza. Finalmente, insomma, il concetto di legge fonetica avrà un senso comprensibile a tutti: abusi idiomatici e violazioni di isoglossa saranno severamente repressi.
Da quattordici a seimila: nella consapevolezza di se medesima, è (a volere essere ottimisti) l'impietoso rapporto della tremenda inflazione d'intelligenza che l'Italia (linguistica) sconta dall'Alighieri al curtigghiu dei giorni nostri.

[su numero e qualità degli idiomi, v. anche il post Lingua loro (6), del 26 ottobre 2007]

Lingua loro (14): "incubo"

Gli Italiani partono per le vacanze? "Con l'incubo delle code", se si dirigono verso il Sud, "con l'incubo della 'nuova' influenza", se passano per un aeroporto e sono diretti all'estero. In montagna? "Una stagione da incubo, per numero di incidenti". Né va diversamente al mare: "Una stagione da incubo, per numero di annegamenti". E mille e mille altre ricorrenze: lingua dei media e lingua quotidiana si rispecchiano in questo caso. Il corso di linguistica? "Un incubo". La storiaccia con il marito della collega? "Un incubo".
La vicenda deve essere vecchia e pare ci sia implicato addirittura Giuseppe Mazzini: "Io sono oppresso dalla vergogna per l'Italia: è un incubo del dì e della notte". A leggere il Tommaseo-Bellini, incubo dilaga infatti almeno dalla metà dell'Ottocento e già vi si parla di "abuso" del traslato: antipatie ideologiche? Minuscolo e saporito dettaglio dell'eterno, buffo contrasto tra l'Italia guelfa e quella ghibellina?
Comunque motivata, la prospettiva normativa rischia però d'essere più stupida della stupidità che pretende di colpire, come al solito. La parola non va ripresa: va osservata amorevolmente, anche quando dà sui nervi. Non mente mai, per la semplice ragione che non dice nemmeno la verità: la parola si esprime, opponendosi al silenzio. E il lento dilagare di incubo esprime e svela, come meglio mai si potrebbe, ciò che è sotto gli occhi di tutti: soggetti a tanti incubi, gli Italiani sono evidentemente in uno stato permanente di sonno.
Con la scusa di raccontare esemplarmente vicende risorgimentali, del resto, Lampedusa lo scrisse dei Siciliani, in pagine famigerate: ma, come pochi si sono accorti (gli altri dormivano, appunto), era solo una sineddoche. Né si potrà dire che si tratta di sonno della ragione. La facoltà in questione è infatti la più tipica tra le nazional-popolari: è la volontà. Gli Italiani vogliono dormire: chi potrebbe dar loro torto? I loro incubi? Modesto prezzo da pagare.